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mercoledì 15 febbraio 2017

Live Cargo

Titolo: Live Cargo
Regia: Logan Sandler
Anno: 2016
Paese: Usa
Festival: 34°TFF
Sezione: Festa Mobile
Giudizio: 2/5

Nadine e Lewis hanno appena perso il bambino che tanto aspettavano. Nel tentativo di guarire la ferita e ricucire lo strappo che si sta consumando, si concedono una vacanza in una remota isola delle Bahamas, dove la famiglia di Nadine possiede da anni una casa. Un luogo meraviglioso, e per la ragazza carico di ricordi. Ma dietro l'apparente quiete del paradiso tropicale, si nascondono conflitti insanabili e trame ignote: da un lato c'è Roy, l'anziano patriarca che governa l'isola, e dall'altro lo spietato Doughboy, boss del locale traffico di esseri umani, che vorrebbe espandere il proprio giro d'affari. In mezzo il giovane e ingenuo Myron, plagiato da Doughboy e attratto da Nadine. Per la coppia è una discesa all'inferno.

"Una volta c’erano solo la terra e l’oceano, oggi ci sono anche i live cargo (trasporto di esseri viventi), la cocaina e l’erba."
A metà tra Lansdale e Malick, incrociando sulla strada l'ombra di McCarty e i fantasmi di qualche imprecisato film di denuncia sociale, Live Cargo è quel tipico film che aveva tutti gli elementi alla base per conquistare pubblico e critica ma ha invece deluso quasi tutti.
Sandler era presente in sala con tutta la ciurma di amici e conoscenti, produttori e sostenitori. Praticamente la sala era composta per 3/4 dai Sandleriani. Ora al di là degli applausi meritati o meno, l'opera prima del regista bianco che parla di conflitti e dispute tra neri ha tanti bei momenti, una messa in scena cupa e con una fotografia eccellente in b/n che riesce a dare forma e sostanza dove la cinepresa non riesce aprendo verso spazi sconfinati di intensa bellezza.
Live Cargo ha due protagonisti tosti, freschi da un lutto e incazzati neri col mondo con la voglia di riprendere il controllo della vita sulla morte. Elaborando il lutto, conoscono un altro orrore e con tale scempio dovranno confrontarsi. Unire questa psicologia della perdita e della rabbia con i traffici loschi e la tratta di esseri umani è quanto di più ghiotto poteva esserci e il regista sembra crederci per poi farsi prendere la mano da una sorta dii esercizio di stile cambiando binario e spostando tanto sui non detti, sui primi piani, sull'insistenza a seguire compulsivamente i suoi personaggi e arenare la storia che subisce più battute d'arresto narrativamente parlando per finire lasciandoti l'amaro in bocca.