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venerdì 11 agosto 2023

Strange Thing About The Johnsons


Titolo: Strange Thing About The Johnsons
Regia: Ari Aster
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Lo scrittore Sidney Johnson coglie per sbaglio suo figlio di dodici anni, Isaiah, nell'atto di masturbarsi. Imbarazzato, si scusa e lo rassicura che si tratta di qualcosa di perfettamente naturale, senza avere idea che il figlio si stesse masturbando su una sua fotografia.
 
Ari Aster è un buon regista. A detta di molti uno dei maggiori nel campo dell'horror moderno.
Per me non lo è mai stato ma questo cortometraggio finora è il suo pezzo forte contando che è stato il primo lavoro per la tesi di laurea. Famiglia afroamericana, omosessualità, pedofilia inversa e gerontofilia. Crudo, amaro, minimale. Pochi dialoghi, spazio alle esressioni, ad un padre che si presta, che vorrebbe spezzare questo circolo vizioso senza riuscirci. Qualcosa di mai visto e di originale. Un tema perverso portato agli estremi senza però mai mostrare ma facendo solo intuire facendoci immaginare le previsioni più nefaste e gli effetti imprevisti oltre conseguenze inattese.
Un'opera di mezz'ora che solamente nel finale mostra qualche pecca di presunzione esagerando con la violenza a dispetto di quanto con una precisione millimetrica è riuscito a lesinare precedentemente creando una tensione costante.

giovedì 12 maggio 2022

Bobby yeah


Titolo: Bobby yeah
Regia: Robert Morgan
Anno: 2011
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Il film racconta la storia di Bobby Yeah, una strana creatura che incontrerà altrettanto strane situazioni e personaggi dopo aver rubato un animale domestico.
 
Un folle ambizioso che crea, da forma a esseri purulenti, giocando con la vita e godendo della sofferenza. Robert Morgan non ha bisogno di presentazioni. Un regista che come Tippett sonda progetti folli e ambiziosi, dando sostanza a forme diverse dell'animazione e della stop motion, creando una galleria di incubi e mostri, creature polimorfe e mutanti, con tanto di congegni di tortura e microorganismi. Un corto allucinato, fuori di testa e disturbante, una metafora sul mondo moderno, sulla scienza e gli esperimenti sull'uomo e sugli animali, in questo caso forme senzienti create come ibridi e mischiate da un demiurgo folle e fuori di testa.


martedì 17 novembre 2020

Behemoth


Titolo: Behemoth
Regia: David Hogan
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 1/5

Fra i tanti vulcani dormienti sparsi in tutto il mondo, un giorno decide di svegliarsi quello situato nei pressi della tranquilla, anche se per poco, cittadina di Ascension. I risultati non saranno quelli di una nuova Pompei, perchè dal cratere non uscirà la lava ma un gigantesco bestione: il Behemoth. Ad affrontare la bestia saranno un gruppo di agenti speciali del DOD ed un gruppo di taglialegna avvinazzati.

In questo caso un risultato davvero inguardabile. Il film di Hogan è di una noia mortale, un risultato sicuramente prodotto per la televisione americana distinguendosi per la recitazione ai minimi storici e una sceneggiatura che fa dell’assurdo l’incipit e il tema di fondo.Il Behemoth, il mostro interessante, l’unica cosa che uno smania di vedere, viene mostrato con dosi così scarse che lo spettatore dovrà farsene una ragione e guardare a tratti dei tentacoli che spuntano da un vulcano. Fino a quando i due protagonisti scappano e lui, l’immancabile macho spara al mostro da un elicottero con un lanciarazzi. Breve storia triste. Fine

sabato 8 agosto 2020

Unjust


Titolo: Unjust
Regia: Ryoo Seung-wan
Anno: 2011
Paese: Corea del Sud
Giudizio: 3/5

Un serial killer sta terrorizzando la cittadinanza e la pressione sulle forse dell’ordine è diventata insostenibile per le autorità. In un vortice di errori procedurali, illegalità e corruzione, il capitano Choi Cheol-gi viene incaricato di “risolvere” il caso ad ogni costo, anche scovando un finto colpevole da consegnare ai media e all’opinione pubblica. Ma il piano non è perfetto…

Nella new wave coreana sui generi cinematografici stiamo assistendo proprio a tutto.
In particolare il poliziesco, il thriller, l'heist movie, il disaster movie, il monster movie, l'horror folkloristico, la commedia, il dramma e il noir.
Unjust è un poliziesco che parla di corruzione, di dove possono spingersi i ruoli di potere della polizia, della stampa che sta con il fiato sul collo ai detective, di procuratori, doppio giochisti, colleghi corrotti e invece il manipolo di onesti agenti che si troveranno nel finale a vendicare il loro caro compagno ucciso proprio da chi non te lo aspetteresti mai. Un film dinamico e ambizioso, forse scritto in maniera così complessa da lasciare interdetti soprattutto sul finale e un climax che risulta la parte meno originale e consistente del film.
Grazie ad una regia e una tecnica ancora una volta sopraffina e minuziosa, curata in ogni dettaglio, Ryoo Seung-wan, il regista di divertentissimi film d'azione come City of violence e dalla nutrita filmografia, mette in scena un film complicatissimo da seguire, tra corruzione dilagante e le connivenze tra malavita, polizia e magistratura, forse in maniera sciocca ma più interessante viste nel recente Gangster the Cop the Devil dove in quel caso ogni personaggio era stereotipato a dovere ma finalizzato a rendere la narrazione fruibile. In Unjust tutti i protagonisti hanno una doppia personalità, convivono con la legalità, la conoscono bene ma sono abili a denigrarla nel momento in cui sono messi alle strette rendendo spesso difficili alcuni passaggi.
I colpi di scena, i tradimenti, il continuo giocare con lo spettatore ribaltando ogni certezza risulta un elemento che può creare interesse quando si pensa di avere la trama in pugno e allora arriva quel particolare in grado di cambiare la prospettiva e gli intenti di personaggi tutti schiavi del potere spingendo i suoi protagonisti ad ogni limite di decenza.





lunedì 20 luglio 2020

Faida


Titolo: Faida
Regia: Joshua Marston
Anno: 2011
Paese: Albania
Giudizio: 4/5

Nik è un diciassettenne che frequenta l'ultimo anno delle superiori in una piccola città di campagna dell'Albania e sogna di poter aprire un Internet Point dopo il diploma mentre prova i primi sentimenti d'amore per una coetanea. La sorella, Rudina, ha quindici anni e vorrebbe poter frequentare in futuro l'università. Il padre, che lavora consegnando porta a porta derrate alimentari, viene a conflitto per questioni di passaggio di proprietà con un'altra famiglia. Ne nasce uno scontro che porta alla morte di un uomo. Il padre di Nik viene accusato e fugge. Ora, per un antico codice balcanico, la famiglia del defunto può rivalersi uccidendo un maschio rivale. Nik deve smettere di andare a scuola e il peso del mantenimento della famiglia ricade su Rudina che smette a sua volta di studiare. Nik decide di uscire dalla situazione cercando di trovare uno sbocco alla faida.

Marston dopo MARIA FULL OF GRACE torna a interessarsi al cinema di denuncia, dell'intercultura, al tema del difficile passaggio dall'adolescenza all'età adulta in una società dominata da antiche regole senza spazio per i giovani e dove il cambiamento di alcuni dogmi sembra impossibile da modificare. Una storia molto cruda, reale che lascia i suoi protagonisti in un limbo nell'attesa di avere informazioni sul proprio padre nascosto come un prigioniero e costretti a subire le angherie delle famiglie rivali. Perchè è proprio venire a conoscenza dell'elemento antropologico legato alle cinquecentesche norme del Kanun che riconosce legalità a quella che in Italia definiamo la faida è l'apporto più interessante del film in una zona del paese dove la micro società sembra voler continuare a vivere in un tardo medioevo, un'epoca buia fatta di odi e vendette in cui addirittura viene presa di mira una bambina, Rudina, la sorella del protagonista quando cerca di vendere derrate alimentari al posto del padre.
L'incidente scatenante poi è così assurdo da sembrare quasi ridicolo. Il film visto dai più giovani si avvale di una recitazione spontanea priva di eccessi lasciando la speranza nel cambiamento di chi come Nik cerca di ragionare sui fatti e non accettarli perchè da tradizione. Pur avendo un ritmo a tratti altalenante, il film segue una sua rigorosa riflessione sfuggendo da paternalismi, portando Nik ad essere un adulto-giovane in casa e possedendo suspance e thriller ben strutturati per un certo tipo di cinema albanese che non è solito poter vedere al cinema e distribuito da noi.
Orso d'argento per la sceneggiatura a Berlino



venerdì 2 agosto 2019

Drive


Titolo: Drive
Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 5/5

Driver (non ha un nome) ha più di un lavoro. È un esperto meccanico in una piccola officina. Fa lo stuntmen per riprese automobilistiche e accompagna rapinatori sul luogo del delitto garantendo loro una fuga a tempo di record. Ora Driver avrebbe anche una nuova opportunità : correre in circuiti professionistici. Ma le cose vanno diversamente. Driver conosce e si innamora di Irene, una vicina di casa, e diventa amico di suo figlio Benicio. Irene però è sposata e quando il marito, Standard, esce dal carcere la situazione precipita. Perché Standard ha dei debiti con dei criminali i quali minacciano la sua famiglia. Driver decide allora di fargli da autista per il colpo che dovrebbe sistemare la situazione. Le cose però non vanno come previsto.

Drive è il miglior film di Refn. Un cult che seppur debitore di tanti altri film e con un plot abbastanza scontato, riesce a fuggire da tutti i clichè e gli stereotipi risultando un film estremamente affascinante, maturo, violento (caratteristica del regista) e patinato.
Ha lo stesso effetto di un incidente in un cocktatil di generi e citazioni, un mix di emozioni contrastanti in un film potente dall'inizio alla fine.
Un film che sembra un miscuglio guidando tra gli anni '80 e il post moderno, con un cast brillante di grandi nomi, una regia attenta e tanti preziosi particolari e scene madri indimenticabili.
Refn andrà ricordato come l'unico grande regista in grado di far recitare in maniera passionale e muta un attore inespressivo come Gosling.
La trama di Drive come dicevo è semplice, la sinossi non nasconde nessun plot twist fra le sue pieghe, una sceneggiatura che probabilmente lasciata nelle mani di altri registi sarebbe diventato l'ennesimo film già visto ma che Refn dimostra ancora una volta la sua bravura dietro la macchina da presa, mettendo il suo stile al servizio della trama. Ecco quindi che lo spettatore si ritrova una pellicola con pochi dialoghi e lunghi sguardi, dove le riprese sono sempre curate in maniera maniacale senza lasciare mai nulla al caso.
Il ritmo è lento, risultando proprio come un punto di forza soprattutto nel genere che poi rimanda in tutto e per tutto all'action pronto ad esplodere in attimi di violenza inusitata.
Senza contare una colonna sonora curata da Cliff Martinez che è subito entrata nella playlist delle soundtrack più belle di sempre.



martedì 2 luglio 2019

Husk


Titolo: Husk
Regia: Brett Simmons
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Un gruppo di amici si trova in difficoltà proprio vicino a un campo di grano e cerca riparo nella fattoria che si trova nei pressi. Presto si accorgeranno che la dimora è il centro di un rito soprannaturale.

Tutto comincia nel 2005, quando Brett Simmons presenta al Sundance un cortometraggio di circa venticinque minuti (disponibile su Vimeo) che, pur offrendo attori diversi, tra cui lo stesso regista nella parte del protagonista Brian, condivide con questo Husk del 2011 sia il titolo sia il soggetto.
Sono tanti gli spauracchi che popolano e infestano la nutrita galleria di mostri e quant'altro nell'horror. Simmons che non è il primo e non sarà di certo l'ultimo parla di spaventapasseri, quelle figure inquietanti che da sempre hanno spaventato più le persone dei corvi.
In passato alcuni esempi ci sono stati anche se sfruttavano più la location dei campi e l'atmosfera che non lo spaventapasseri in sè che forse per evidenti ragioni non sembrava poter reggere sulle spalle tutto il film. Anche in questo caso per fortuna non viene inscenato come un semplice mostro che uccide senza pietà. Nella sua ora e venti il film, pensato a tutti gli effetti come l'opera artigianale a cui l'autore riserva tutta la pazienza del mondo, Simmons riesce a condensare paure e suggestioni che il cinema horror non ha mai approfondimento veramente mostrando il solito gruppetto di ragazzetti scemi che amiamo vedere uccisi ma dandogli un movente, una ragione per essere uccisi, non trovandosi solo lì e basta, ma violando un cerchio magico, un rituale che seppur con tutti i suoi limiti riesce a coinvolgere e dare aspetti più interessanti alla storia.


martedì 30 aprile 2019

Mientras duermes


Titolo: Mientras duermes
Regia: Jaume Balaguero
Anno: 2011
Paese: Spagna
Giudizio: 4/5

Senza nessuno scopo nella vita e geneticamente incapace di essere felice, César prova piacere a far soffrire le persone che lo circondano. Nel palazzo di Barcellona in cui lavora come portiere appronta un gioco al massacro psicologico che ha come oggetto principale Clara, una giovane il cui atteggiamento gioioso verso la vita lo inorridisce, e come obiettivo quello di cancellarle per sempre il sorriso dalla faccia. Ogni sera, penetra nell'appartamento della donna e, dopo essersi assicurato una maggiore profondità del suo sonno col cloroformio, mette in atto il più spietato dei piani.

Quando si parla di regole del thriller, del giallo e di come dipanare la suspance per tutta la durata di un film non si può non pensare ad un outsider spagnolo come Balaguero.
Il suo cinema non ha bisogno di presentazioni e il curriculum dell'artista è costellato di film di riferimento per gli amanti del genere.
Mientras Duermes ha una storia molto malata che presenta però dei diktat squisiti come quello di usare un contesto reale esasperandolo al massimo (caratteristica ormai sempre più singolare anche se molto usata dagli spagnoli come Alex De La Iglesia) sfruttare al massimo il potenziale espressivo di un attore malleabile come Luis Tosar e trattare tematiche come la scelta tra bene e male, la fallibilità della giustizia e quell'impossibilità alla felicità che sta diventando un leitmotiv sempre più contemporaneo non solo nel cinema.
I riferimenti al giallo hitchcockiano con Cesar che parla con la madre malata come in parte Norman Bates faceva con l'altra "madre" servono solo ad aumentare la pluralità di riferimenti che il film non dimentica di citare sottotesto ma da cui prende le distanze dimostrando un ottimo lavoro di script per una sceneggiatura originale. La location straordinariamente riesce ad essere una sola (un condominio-microscosmo quasi a tenuta stagna) e spalmando così una galleria di personaggi che dimostra ancora una volta come Jaume ne abbia per tutti senza risparmiare nessuno (la bambina e quello che le succederà è davvero inquietante) ma mai come il dramma e l'agonia ai danni della bellissima Clara trovandoci forse per la prima volta a indagare così la sfera privata di ognuno durante l'oblio del sonno.
Vogliamo poi parlare di uno dei finali più belli, tragici, grotteschi e perfidi oltre che suisitamente malati.


sabato 20 aprile 2019

Father's day


Titolo: Father's day
Regia: Adam Brooks, Jeremy Gillespie
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Ahab è ossessionato dalla vendetta, violenta, brutale e indomabile vendetta nei confronti dell'uomo che ha ucciso suo padre. A dargli una mano arriva John, un prete e Twink. Insieme partono per un'epica avventura per trovare questo mostro, Chris Funchman, noto anche come il Killer della Festa del Papà.

Gillespie. Ricordatevi questo nome. Per me era stato già in passato un talento e una sicurezza.
Poi sono arrivate tante cose un po della Troma e altri horror indipendenti notevoli per arrivare poi al top Void, uno degli horror migliori degli ultimi dieci anni.
Si fa tanto il nome di Adam Brook ma il suo contributo rispetto a quello del collega non vale il paragone.
Father's day è tanto Troma, è tanto trash, weird, grottesco, volgare, fratelli che scopano le sorelle e altri elementi che i fan di un certo tipo di cinema ma soprattutto di genere apprezzeranno.
Si ride tantissimo e di gusto. Astron-6, lo scrittore e regista di Father's Day , è in realtà un nome composito di cinque diversi ragazzi, che probabilmente sono cresciuti affittando quei nastri Troma, e sembra che abbiano cercato di assimilare ogni ispirazione che hanno mai avuto da loro in un film.
Qui si parte da un trauma, dal famigerato serial killer Chris Fuchman (sì, pronunciato "Fuck-Man"), che ha ucciso padri per qualcosa come trent'anni nei modi più efferati possibili (alcuni omicidi citano il nostro cinema neo gotico italiano) con un mascherone di gomma tremendo e tutta una serie di accessori che forse non vedrete in nessun altro film.
Father's Day fagocita tutto, motrando senza pudore e senza remore tutto quello che la censura vorrebbe toglierci ma che invece per gli autori della Troma sono diventati il leitmotiv del loro modo di fare cinema. La festa del papà ha l'unico scopo di intrattenere con rimandi a tanto cinema e citazioni (Ahab è la variante scemotta di Plissken) alcune delle quali davvero disgustose.



lunedì 11 marzo 2019

Chillerama



Titolo: Chillerama
Regia: AA,VV
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Anche l’ultimo drive-in americano sta per chiudere i battenti. Durante la serata di chiusura, milioni di coppiette parcheggiano le loro numerose auto per assistere alla maratona cinematografica di pellicole dell’orrore talmente rare da non essere mai state proiettate. Ma se, improvvisamente, un pazzo riesumasse il corpo di una sposa cadavere e rimanesse infetto trasformandosi in zombie?

Con tutto il bene che gli voglio e per tutta la libertà e il coraggio di fregarsene altamente di tutto, Chillerama anche se mi sono divertito a vederlo, mi ha lasciato schierato tra i moderati soprattutto contando che tra i diversi episodi, nonostante il fil rouge, ci siano delle importantissime differenze.
Prima di tutto la standing ovation alla location. Il drive-in. Dimora incontrastata di Lansdale.
Poi c'è il virus e infine il trash e tante tette e cazzi che volano.
Detta così dovrebbe essere una sorta di droga per i fan di genere, una vera e propria antologia horror sulla scia di Creepshow 2, e almeno così appariva prima di veder modificate alcune regole e godere da parte dei registi di una totale libertà che in alcuni casi è stata provvidenziale ma in altri ha siglato un totale imbarazzo.
L'omaggio ai b movie del secolo scorso può essere una possibilità enorme per cambiare le regole dei vecchi classici.
Il migliore in assoluto è il primo, quello girato dal regista del divertentissimo 2001 maniacs
remake di TWO THOUSAND MANIACS. In questo caso l'omaggio è riferito al sotto genere dei monster movie che arrivavano come missili dal Sol Levante.
Wadzilla infatti parla brevemente di un giovane che si sottopone ad una cura per incrementare la forza del proprio sperma che, ben presto, diventerà un mostro che mangia le persone.
"Lo sperma che uccide" è una log line simpatica per un corto divertente che al di là dello stile tecnico, assolutamente senza prendersi mai sul serio, esagera senza mezzi fini per arrivare al climax finale. Infine l'ultimo episodio Zom-b- movie, una parodia di tutti gli stereotipi dei film di zombie degli anni ’70 e ‘80 non esalta, ma strappa qualche risata.
Quelli che pur avendo delle idee godibili, a mio avviso, non hanno alzato la bandierina dell'ok sono stati I was a teenager werebear, orsi omosessuali sulla scia di GREASE, RAGAZZI PERDUTI e HAPPY DAYS e The diary of Anne Frankenstein dove Hitler è il dottor Frankenstein e la Cosa è un rabbino ebreo nerboruto che uccide tutti i nazisti.


giovedì 18 ottobre 2018

Krokodyle


Titolo: Krokodyle
Regia: Stefano Bessoni
Anno: 2011
Paese: Italia
Giudizio: 2/5

Giovane film-maker di origini polacche, Kaspar Toporski trascorre le giornate tra disegni, appunti e profonde immersioni in un mondo immaginario verso cui è sempre più attratto. Anche le frequentazioni di una fotografa ossessionata dalla morte, di un regista coetaneo incapace di superare il trauma di un brutto esordio e di un sarto più che singolare finiranno nel film che girerà su se stesso con lo scopo di mettere un po' d'ordine dentro.

Krododyle è uno dei quei film che per certi versi ti fanno proprio incazzare.
Dalla sua ha la stop motion e i pupazzetti fatti semplicemente in modo divino.
Una musica che sembra uscire da quei carillon del passato e tante altre piccole cosucce simpatiche e intime che forse fanno parte proprio di quella creatività e immaginazione che qui non ho visto.
Il problema tolte le scene d'animazione, è tutto il resto di cosa non succede nel film, o di come è studiato a tavolino per annoiare lo spettatore, riuscendoci.
Sembra voler trovare quelle atmosfere intimiste che ricordano il nostro cinema del passato, usando la forma del diario intimo per fare le sue confessioni, ma senza averne la benchè minima forza o un soggetto alla base che risultasse interessante nonostante spesso abbiamo semplicemente la telecamera di fronte al protagonista che parla e ammorba il pubblico.
E poi non è un horror quando invece è vero che è fatto di bambole e marionette, dove i coccodrilli sono in grado di controllare il tempo. Da buon outsider Bessoni cerca di ritrarre Kaspar come in fondo è lui, cercando nell'atto creativo una possibile fuga da una società che non può e non vuole includerlo. Da qui la scelta di trovare altri come lui, dalla fotografa folle, al suo amico regista intellettuale fatto e finito. Un elemento interessante anche se lasciato lì è il narratore iniziale, un omuncolo nato dagli esperimenti cripto zoologici.




domenica 25 marzo 2018

Masks


Titolo: Masks
Regia: Andreas Marschall
Anno: 2011
Paese: Germania
Giudizio: 3/5

Dopo essere stata respinta da numerose accademie d"arte drammatica Stella, aspirante giovane attrice di Berlino, viene accettata alla scuola Matteusz Gdula fondata negli anni 70 da una insegnante dai metodi poco ortodossi. L"ambiente è piuttosto ostile e l"unica amica di Stella sembra essere Cecile un"allieva che non abbandona mai l"edificio in cui si trova la scuola. Stella assiste inoltre a strani avvenimenti come sparizioni, rumori inquietanti e un"ala della scuola che rimane chiusa sempre a chiave.

Masks deve molto al nostro cinema neogotico nonchè ad alcuni maestri come Fulci e Argento.
Il perchè è chiaro e il regista non lo nasconde neppure. Diventa tutto il marchingegno che porta avanti i tasselli del film, gli omicidi in particolare, abbastanza sanguinolenti e una soundtrack dalle sonorità elettroniche sempre presente e potente che conferisce maggior atmosfera e ritmo nelle scene d'azione.
Un'opera giocata in poche location e con una fotografia cupa che cerca di conferire maggior risalto all'atmosfera generale tutta giocata come dicevo su degli omicidi comunque abbastanza feroci.
Il solo limite del film tedesco è quello di richiamare troppo appunto i gialli anni '70, diventando presto un esercizio di stile che cita il nostro cinema di genere senza però riuscire a dare una sua anima e originalità al film, un pericolo sempre più presente nel cinema di genere.




giovedì 4 gennaio 2018

Chispa de la Vida

Titolo: Chispa de la Vida
Regia: Alex De La Iglesia
Anno: 2011
Paese: Spagna
Giudizio: 3/5

Roberto non lavora da ormai qualche anno e la crisi economica comincia a farsi sentire. Nonostante una famiglia e una moglie amorevole, il suo senso d'insoddisfazione arriva al culmine quando anche l'amico di vecchia data (assieme al quale aveva partorito il fortunato slogan per una campagna pubblicitaria) rifiuta di dargli un impiego. Depresso torna sui luoghi della luna di miele dove ora sorge un museo che viene inaugurato proprio in quel momento. Un incidente lo fa cadere su una grata di ferro e uno spuntone di metallo gli si conficca nel cranio, ma non lo uccide. In un limbo tra la vita e la morte (che potrebbe arrivare in qualsiasi momento e per qualsiasi movimento) Roberto diventa l'attrazione mediatica per antonomasia, pronto a morire in diretta ma soprattutto a sfruttare più che può a proprio vantaggio (economico) tutto l'accaduto.

Il sedicesimo film dell'outsider spagnolo seppur con una spanna in meno rispetto agli ultimi suoi film è ancora una volta la conferma e la dimostrazione di un talento che ha preferito fare il suo cinema senza farsi ingabbiare dalle major.
Senza stare a presentare l'autore che non ha bisogno di presentazioni, ci troviamo di fronte all'ennesimo dramma grottesco anche se più convenzionale rispetto al suo cinema tradizionale che porta alle estreme conseguenze la tragedia per sfruttarla a dovere con uno schema corale funzionale e un buon ritmo.
A differenza però degli ultimi film, la scintilla della vita è molto ancorato sulla realtà in particolare sui media e gli effetti perversi che generano e le loro conseguenze inattese. Dunque una nuova vittima sacrificale post contemporanea dove la dignità passa per la vendita del proprio corpo ai media e dove un povero padre di famiglia disoccupato diventa la vittima perfetta per un manipolo di carnefici ognuno pronto a portare acqua al suo mulino, dal direttore del museo, ai giornalisti cannibali, al losco individuo che cerca nuovi talenti da mostrare in tv, etc.
Il tutto come sempre con un ritmo eccezionale, alcuni momenti macchinosi ci sono ma funzionali contando che il regista anche in questo caso per riuscire a fare il suo film ha limitato di molto i costi con un'unica location per quasi tutto il film. Una riflessione divertita sui compromessi ai quali ci obbliga l'attuale crisi economica,quella spagnola poi particolarmente segnata, e soprattutto sui meccanismi che mettono in moto gli eventi mediatici costruiti su quei fatti di cronaca che di tanto in tanto catalizzano l'attenzione del pubblico televisivo e che sembrano non sconvolgerci più.
Roberto deve superare un vero e proprio calvario dove il chiodo e la croce nonchè le statue dei santi sono tutte simbologie che portano alla parabola finale del film.


domenica 10 settembre 2017

Knuckle

Titolo: Knuckle
Regia: Ian Palmer
Anno: 2011
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Un epico viaggio, di ben dodici anni, nel mondo brutale e misterioso dei viaggiatori irlandesi di combattimento a mani nude (Irish Traveler bare-knuckle fighting). Questo film racconta la storia di faide violente tra clan rivali.

Davvero suggestivo, originale, atipico e notevole questo documentario dello stesso Palmer, lottatore protagonista e regista della vicenda. Narra in poche parole una sorta di faida che continua ad andare avanti da dodici anni e che vede in mezzo tre clan e una sola guerra di fatto incentrata per la reputazione e l'onore della Famiglia.
Lo stile di Palmer è asciutto e sintetico. Ci sono tanti dialoghi e momenti di faide con veri e propri litigi per arrivare anche e soprattutto a mostrare gli scontri ed è a questo proposito interessante notare in questi casi come la velocità con cui si concluda un incontro a mani nude lascia basiti se si pensa a quanto invece il cinema e la tv ci mostrano combattimenti lunghissimi ma qui la realtà è ben altra, quella reale e senza trucchi e fronzoli.
Qui c'è sangue, sporco, onore, rispetto, regole, lividi, facce ingrugnite, fight club, tutto vissuto in prima persona dal regista e dalla tropue che stava con lui a seguirlo e riprendere nel corso dei dodici anni i fatti e le vicende più importanti.
Un documentario davvero pieno di ritmo e di risorse che non abbassa mai la testa ma pur ripetendosi in alcuni momenti con le presunte e velate minacce di Tizio nei confronti di Caio, riesce comunque sempre ad essere concitato e con una galleria di persone reali votate al combattimento che sembrano usciti da una westland primitiva e selvaggia.

Un documentario davvero fuori dagli schemi che passa in streaming e su Netflix come una scheggia impazzita per raccontare una storia che più vera non si può facendo capire come questo Palmer quando non si curava i taglie e le ferite, passava il resto del tempo a lavorare per dare al mondo prova di quanto stessero facendo in Irlanda. Ci ha messo dodici anni ma il risultato toglie il fiato.

martedì 14 febbraio 2017

Headshot

Titolo: Headshot
Regia: Pen-Ek Ratanaruang
Anno: 2011
Paese: Thailandia
Giudizio: 3/5

Tul sta per vedere il suo mondo distrutto. Gli è stato inviato un pacchetto di foto e di dati, che esamina e poi mette via tempestivamente, dentro il trituratore. Si rade la testa, indossa le vesti di un monaco, e si apposta nella tenuta appartenente all'uomo della foto. Poi, prende una pistola e spara un proiettile nel collo dell'uomo. Altri colpi vengono sparati, e uno di loro finisce nella testa di Tul. Tutto diventa nero. Quando si sveglia tre mesi dopo, tutto è invertito e lui si ritrova dalla parte opposta. È un danno cerebrale bizzarro, o una qualche forma di contrappasso karmico?

Pen-Ek Ratanaruang è uno stranissimo outsider thailandese. Il suo cinema ancora adesso non credo di aver capito dove voglia e che traiettoria voglia prendere, ma nel suo complesso e indecifrabile cammino, ho potuto ammirare alcuni suoi film sconosciuti senza mai aver avuto una benchè minima distribuzione.
LAST LIFE IN THE UNIVERSE era un buon traguardo anche se l'autore ha fatto di meglio con il successivo INVISIBLE WAVERS sempre con il suo attore feticcio Tadanobu Asano.
In Headshot cambia di nuovo tutto. Regole, scenario, genere, creando un concentrato che abbraccia crime-movie, indagine poliziesca, arti marziali, noire, una specie di tecnica che più volte richiama il mockumentary e altri segmenti già visti e altri no, oscillando tra il dramma intimista e il thriller anfetaminico.
Un film strano e anomalo che ho trovato spesso fine a se stesso e autocelebrativo a differenza di altre opere dove la narrazione e la trama avevano un'intensità maggiore.
E'un thriller cupo e disilluso che mostra triangolazioni, corruttori, un paese marcio minato alla base da una corruzione inestirpabile. Il regista ancora una volta punta sul fascino nel non detto, nell’inspiegabile serie di obbiettivi e problematiche che Tul si ritroverà ad affrontare dal momento in cui la sua vita viene stravolta e capovolta, decidendo di passare dall'altra parte criticando fortemente un sistema che divide nettamente la categoria buoni e cattivi, che continua un discorso sul revenge-movie e sembra voler ribadire che se la giustizia non aiuta, allora Tul da poliziotto può trasformarsi in un sicario per conto di un organizzazione segreta. Amen


giovedì 22 dicembre 2016

Wish you were here

Titolo: Wish you were here
Regia: Kieran Darcy-Smith
Anno: 2011
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

Quattro amici, due coppie, intraprendono una vacanza spensierata in Cambogia, ma solo tre di loro tornano a casa. Man mano che la storia del film si dipana, si comincia a capire cosa è successo durante il viaggio e quali siano i ruoli e le responsabilità di ciascuno di essi.

Wish you were here è stato il biglietto da visita di Kieran Darcy-Smith che dopo alcuni corti interessanti e un horror trascurabile si cimenta su un thriller in terra straniera.
L'idea di due coppie in vacanza dove succederà ovviamente qualcosa di tremendo è materia abusata su larga scala nel cinema più o meno inserito in diversi generi e sotto-generi (l'horror su tutti).
Ora l'intro è interessante, i personaggi sono caratterizzati abbastanza bene a parte lo scomparso Jeremy (interpretato dal protagonista della serie BANSHEE) il quale non si capisce bene che giri loschi abbia ma di fatto gioca un ruolo che assieme all'idiozia elevata nel climax finale di Dave ( il protagonista) porta e consuma il dramma su un finale prevedibile ma d'impatto.
Dal punto di vista tecnico, la regia non promuove chissà quale linguaggio preferendo tanta telecamera a spalla nelle strade cambogiane e un'ottima fotografia che da risalto alla bellissima e poco conosciuta location. Certamente un passo in più del regista che sfrutta molto nel montaggio gli archi temporali e i flashback come strumenti principali e coordinate per intessere la storia.
Un film che soprattutto nel finale conferma una morale di alcuni giovani-adulti che fanno difficoltà a tenere a freno le inibizioni (l'incidente scatenante, l'epilogo della festa in spiaggia) che mostrano i pugni alla prima difficoltà (ricordiamo che sono australiani) e non hanno proprio quel rispetto dell'altro culturale che dovrebbe essere una costante dei viaggiatori.

Un film bello e scomodo, mediocre e imperfetto, poco originale ma con alcune scene d'affetto e un'atmosfera che non abbassa mai il livello di tensione senza però amplificarlo mai se non in brevissime sequenze.

giovedì 4 agosto 2016

Wicker Tree

Titolo: Wicker Tree
Regia: Robin Hardy
Anno: 2011
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 2/5

Due giovani cristiani, Beth e Steve, una cantante gospel e il suo amico cowboy, lasciano il Texas per diventare predicatori porta-a-porta in Scozia.
Quando, dopo un duro periodo iniziale, vengono accolti con gioia e calore a Tressock, una zona sotto il potere di Sir Lachlan Morrison, i due danno per scontato che il loro ospite semplicemente vuole ascoltare da loro la parola di gesù Cristo.
Quanto innocenti e ingenui sono...

A volte uno preferisce pensare che alcune cose succedono e basta e vanno solo dimenticate. Chiamali errori, fatto sta che i remake e il sequel di Wicker Man sono tutti prodotti nel vero senso della parola commerciali e pietosi che nulla hanno a che vedere con il capolavoro e cult del '73.
Un film che riusciva a condensare come pochi lo scontro di civiltà tra paganesimo e cristianesimo attaccando da ambo le parti con un risultato storico per la settima arte quasi mai più ripetuto nella settima arte.
Wicker Tree cerca di partire quasi con lo stesso assunto se non fosse che tutto è preconfezionato e la coppia di giovincelli si rivela fin da subito un'esca col il solo obbiettivo di diventare vittime sacrificali.

E'proprio se vogliamo l'assenza di colpi di scena, la messa in scena, gli attori, l'atmosfera, la musica e il ritmo che sembrano essere messi in scena da un'altra persona, trattando temi e simbologie con una noia mortale che ben presto diventa il fattore predominante del film. Tutto quello che faceva del primo film di Hardy un totem, qui si divincola facilmente da tutto lo spessore che poteva arrivare a narrare puntando sull'estrema facilità narrativa e compositiva.

giovedì 21 luglio 2016

Atmen

Titolo: Atmen
Regia: Karl Markovics
Anno: 2011
Paese: Austria
Giudizio: 4/5

Roman ha appena compiuto i diciotto anni ma non ha alcun motivo per festeggiare. Non ha famiglia, è senza amici e per di più sta scontando una lunga condanna all’interno di un penitenziario minorile. Presto gli si presenta, però, la possibilità di lasciare l’istituto a patto che si trovi un lavoro che gli permetta di reinserirsi nella società. Dopo vari tentativi andati a vuoto, il ragazzo è assunto in un obitorio. Qui, di fronte al cadavere di una donna che porta il suo stesso cognome, decide di mettersi alla ricerca della madre e delle sue origini.

L'Austria quasi sempre ci porta a sondare scenari drammatici e situazioni molto pesanti.
Markovics non sembra allontanarsi troppo da questa specie di reputazione e punta tutto su un viaggio di redenzione reale, quasi silenzioso, lasciato sulle spalle del suo giovane protagonista.
Un anti eroe già segnato da una maledizione che non lo molla per tutta la durata della pellicola.
Soffocare, non sentirsi mai liberi, spostarsi da una prigione per recarsi in "altre" prigioni dell'anima che lasciano sempre un senso di vuoto e di morte che non è solo quella che si vede nelle vittime con cui Roman ha a che fare ma che diventa metafora di un male sociale e di istituzioni incapaci di creare soluzioni diverse che non schiaccino la voglia di vivere dei giovani anche quando questi per ragioni complesse e strazianti arrivano ad uccidere un coetaneo.
Fine pena mai, sembra quasi il leitmotiv della sua vita, senza colpi di scena, amici o entusiasmo.
Il controllo della respirazione diventa la nota principale attraverso cui si dipana il film almeno fino a quando non lascia spazio al desiderio di scoprire e di dare e darsi una propria identità.

Solo in questo modo si scopre un'altra vita, un altro percorso di ricerca e infine un obbiettivo che anche se non porterà alla risposta che si vuole, diventa quell'unica possibilità per slacciarsi dall'alienazione e dall'omologazione che rischia di distruggere il protagonista.

giovedì 24 marzo 2016

Weekend

Titolo: Weekend
Regia: Andrew Haigh
Anno: 2011
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Al termine di una serata con gli amici storici, Russell conosce Glen in un gay club e i due trascorrono la notte insieme. Glen chiede a Russell di raccontarsi al registratore, dove tiene una sorta di archivio di tutti i suoi incontri sessuali, che vorrebbe trasformare in un progetto artistico. Diversi, con un passato diverso e idee diverse sul futuro, Russell e Glen cominciano a conoscersi e passano insieme l'intero weekend.

Weekend è un film interessante per un unico vero aspetto.
Ci parla con delicatezza e fragilità, ma allo stesso tempo noncuranza e coraggio, di tanti aspetti della cultura gay, di tanti dubbi che fanno parte di una relazione e di come in pochi giorni, appunto il weekend del film, tutto questo emerga con limpidezza e sensibilità sia nella sceneggiatura che nei dialoghi.
Senza stare a darci elementi sulle caratterizzazioni dei personaggi, il film fa in modo che tutto emerga rivelandosi dopo una notte di passione.
Curiosi, disinibiti e allo stesso tempo così diversi e così attratti l'uno dall'altro, Russell e Glen sembrano non portere fare a meno l'uno dell'altro, prorio per completarsi, pur sapendo che uno presto partirà e l'altro è fidanzato. Mentre uno nasconde la propria omosessualità alla famiglia, la scena nel letto in cui prova a simulare la telefonata parlando con Glen è ottima, l'altro sembra aver sdoganato la propria identità cercando di palesarla e mostrarla fin troppo.
Weekend è un indie girato quasi interamente con una piccola telecamera a mano che sonda i due protagonisti esaminandoli dall'inizio alla fine. Purtroppo da noi è arrivato in ritardo di ben cinque anni. In alcuni casi capita quando il regista non è ancora noto come lo è stato nel caso del suo successivo 45 ANNI.



giovedì 22 ottobre 2015

Alps

Titolo: Alps
Regia: Giorgos Lanthimos
Anno: 2011
Paese: Grecia
Giudizio: 3/5

Un'infermiera, un paramedico, una ginnasta e il suo allenatore hanno formato un servizio "a noleggio" e sostituiscono le persone morte su appuntamento. Vengono chiamati dai parenti, dagli amici o dai colleghi dei defunti. La compagnia si chiama proprio Alps (Alpi), e il loro capo, il paramedico, si fa chiamare Mont Blanc (Monte Bianco). Ma nonostante i membri di Alps sottostiano ad un regime disciplinato sotto le regole imposte dal leader, l'infermiera non le rispetta…

La Grecia, soprattutto negli ultimi anni, sta sicuramente passando un periodo di forte cambiamento. Da questo punto di vista, un autore così maturo come Lanthimos, sembra focalizzarsi su tutto ciò che rimanda all'astrazione, metafora dura di una realtà sconcertante.
Ognuno dei personaggi, proprio dal nome, sottolinea subito un aspetto importante della sua "missione sociale" ovvero l'insostituibilità.
Alps, come la trilogia dell'autore, e altre perle decisamente fuori orario per le connotazioni e i topoi personali del regista, è disturbante, perfettamente negli intenti e nella prassi del regista, un cinema in grado di essere identificato dai movimenti di camera, dalla compostezza delle immagini e da altri importanti tasselli cari all'autore, i quali, soprattutto in questo film e in alcune scene, mi hanno fatto pensare ad uno dei padri assoluti del genere come Haneke.
Nel nuovo teatro dell'assurdo ellenico, l'elaborazione del lutto e il tentativo di colmare un vuoto, fanno emergere tutte le fragilità di questo grottesco schema corale.

Un film ancora una volta potente e malato ma reale e per questo così perfettamente in linea con alcuni valori e intenti dei personaggi, da lasciare basiti a bocca aperta, affascinati e sconcertati.