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lunedì 2 gennaio 2023

Under the open sky


Titolo: Under the open sky
Regia: Miwa Nishikawa
Anno: 2020
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Mikami, ex esponente della Yakuza, che ha trascorso la maggior parte della vita in prigione, viene rilasciato. Inizia cosi a lottare per trovare un lavoro adeguato e per inserirsi nella societa. Ma il codice di condotta di Mikami, profondamente radicato nelle regole e nei codici ai quali apparteneva, non si adatta all'ordinato sistema di assistenza sociale del Giappone. Il mondo in cui viene catapultato e un mondo che non capisce. Essere compatito o disprezzato non fa parte del suo bagaglio culturale, inoltre non comprende la grammatica sociale degli aiuti statali, volti a trovargli lavori saltuari e mal pagati. La sua natura impulsiva e inflessibile e le sue radicate convinzioni rischiano di compromettere anche i rapporti con chi cerca di aiutarlo.

La yakuza non è più quella di una volta, ormai i tempi sono cambiati e la società sembra aver prevaricato sulla mafia lasciandogli solo più le briciole. Questa è la summa del film e del discorso che la sorella del capo yakuza fa a Mikami come a persuaderlo a continuare il suo percorso di redenzione evitando di ritornare sui suoi passi e gli errori commessi.
Il film di Nishikawa è intriso di una poetica e una proposta di contenuti davvero commovente.
Gestisce una tipica storia di redenzione dandogli connotazioni originali, sguardi e scontri culturali tra vecchia e nuova scuola, codici post contemporanei con cui Mikami dovrà a suo modo e con tutte le difficoltà del caso confrontarsi con la modernità e una burocrazia che sembra minare la sua presunta calma apparente. Un uomo poliedrico che come ogni uomo della terzà età non accetta la vecchiaia, volendo fuggire da essa, passando da un estremo all'altro, da un contesto violento ad uno in cui decide di prendersi cura di quegli stessi anziani che in parte lo spaventano.
Un film che procede dipanato su più livelli con tante complessità annesse e raccontate riuscendo a distribuire la narrazione in diverse forme e con attori in stato di grazia in grado di dare la possibilità a Kōji Yakusho di caratterizzare un personaggio ai massimi livelli.
E'un film sui sentimenti, sulla lotta continua contro noi stessi per domare quel demone che sembra risvegliarsi alla prima difficoltà e alla lotta di un uomo che non vuole accettare un conformismo di una società che non tollerà più gli outsider come lui.



sabato 16 maggio 2020

First Love


Titolo: First Love
Regia: Takashi Miike
Anno: 2019
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Leo è un pugile di poche parole ma dal pugno pesante: quando scopre di avere un tumore al cervello diviene preda dello sconforto. Monika è prigioniera della yakuza, che la obbliga a prostituirsi e l'ha resa tossicodipendente, costantemente in crisi di astinenza. I due si trovano coinvolti in un complotto che li porterà a scontrarsi con un variegato gruppo di personaggi, corrispondenti ad altrettante forme di insana bizzarria: un emissario della yakuza stessa, un poliziotto corrotto, un killer delle triadi cinesi con un braccio solo e così via, con crescente tendenza all'eccesso.

Miike Takashi ormai è in grado di padroneggiare qualsiasi tecnica e genere. Il suo cinema da sempre ha una firma che ormai dopo quasi 100 film è impossibile non riconoscere nei suoi lavori e nella sua tecnica.
Mi aspetto soltanto più un film d'animazione ultra violento e poi raggiungo la pace dei sensi.
First Love è una vera bomba, una via di mezzo tra Yakuza Apocalypse ma meno estremo e Like a Dragon ma meno fumetto. Perchè il film parte come una storia d'amore, ma poi attraversa come uno sguardo nostalgico quasi tutti i generi del maestro giapponese dove la yakuza gioca sempre un ruolo preponderante, ma stando al passo coi tempi ci sono anche i cinesi da tenere a bada. Complotti, tradimenti, voltafaccia, doppi giochi, stragi come non se ne vedevano da tempo (quella finale poi tutta girata nel magazzino sembra Free Fire ma con l'aggiunta di arti mozzati, katane, molte più donne e ogni genere di arma possibile). First Love si prende sul serio, ci parla di loser, di una fragilità nei rapporti sociali soprattutto tra i giovani, mescola e infarcisce tutto con il cocktail di trovate interessanti in un ritmo frenetico, violento, ma anche molto ironico.
Si prende qualche virtuosismo che sfocia nel paradosso con la scena della macchina finale, mostra capi yakuza ormai stanchi (forse come comincia ad esserlo Miike) cresciuti assieme all'autore che ha saputo trattare le loro gesta disperate in alcuni autentici capolavori.

lunedì 20 aprile 2020

Altered Carbon-Resleeved


Titolo: Altered Carbon-Resleeved
Regia: Takeru Nakajima, Yoshiyuki Okada
Anno: 2020
Paese: Giappone
Giudizio: 3/5

Takeshi Kovacs è in una differente ‘custodia’, con il compito di proteggere una tatuatrice di nome Holly mentre investiga sulla morte di un boss della potente e pericolosa Yakuza. Ad accompagnarlo in questo compito c’è Gena, una agente dai modi bruschi e risoluti CTAC che ha a sua volta una missione personale. Sul pianeta Latimer, dall’aspetto squisitamente cyberpunk, tra le strade illuminate dai neon e i vicoli brulicanti, i tre si ritroveranno a combattere contro formidabili ninja, versare sangue e, alla fine, scontrarsi nel classico duello con il grande antagonista.

Resleeved è il mio primo approccio con la serie televisiva Altered Carbon che sembra abbia avuto un considerevole successo in due stagioni della nota serie tv. Uno spin off decisamente incalzante tutto architettato sull’azione, sui combattimenti e gli inseguimenti. Trame, complotti, personaggi diventano secondari a quello che appare come un divertissement in cui giocano numerosi personaggi e la trama viene spesso lasciata da parte per dare ritmo ed enfasi all’atmosfera cyberpunk. Un prodotto valido e innovativo con uno stile d’animazione abbastanza originale e ingredienti splatter e iper violenti a cui ormai soprattutto nel sotto genere siamo sempre più esigenti.
Quello su cui si poteva puntare di più, e che appare davvero una brevitas in una dimensione a parte tra il protagonista e il suo mentore, è il taglio legato alla parte sci fi sull’immortalità ormai alla portata di tutti i ricchi, alla pila corticale immaginando il pianeta come un supermercato dove scegliersi il proprio corpo a piacimento e per finire la distopia legata ai viaggi sugli altri mondi colonizzando qualsiasi cosa e cercando un proprio paradiso personale.

venerdì 14 giugno 2019

Crying Freeman


Titolo: Crying Freeman
Regia: Critstophe Gans
Anno: 1995
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

C'è un assassino che terrorizza tutti, soprattutto i cattivi della Yakuza, la mafia giapponese. È crudelissimo ma si commuove di fronte alla bellissima che dovrebbe uccidere. Anche i killer hanno dunque un cuore

Crying Freeman uscì l'anno successivo a Corvo. Forse cercando di sfruttare il successo ottenuto dal film di Proyas, Gans regista troppo altalenante, si è buttato su questo action atipico di una bruttezza rara e indiscusso esempio di ironia drammatica e tante altre cose assurde, etc.
Fino a quel momento trasporre a livello cinematografico un comic, anzi manga, di successo non era un'operazione facile contando che proprio in quegli anni venivano tentati i primi esperimenti così come anche per i live action in maggior numero per fortuna in Oriente.
Cercando di dare vita ad un assassino che non fosse quello già visto fino fino ad allora e cercando di approntare delle migliorie dal punto di vista dei movimenti e del linguaggio, i risultati furono clamorosamente quasi tutti indigesti per un pubblico abituato a fisic du role sullo schermo dei soliti muscolosi attori americani.
L'indagine è banale, i nemici sembrano già visti e ancora una volta siamo distanti dalla Yakuza inquadrata da Scott o Cappello, qui sembra più un espediente come unico strumento da sfoggiare per la rabbia di Hinomura cercando di aderire più a quello stile action del cinema di Hong Kong che non ad una indagine vera e propria.
Qui proprio i dogmi del cinema delle arti marziali sembrano prendere in prestito da Woo e Lee passando per il wuxia anche se spesso in maniera poco delicata e tutt'altro che elegante come invece accade con il cinema orientale.
Un mix di mode, forme e colori, nonchè linguaggi che di sicuro era anomalo per quegli anni ma bisogna contare che la storia così come lo svolgimento non vanno oltre una banalissima mediocrità.




mercoledì 23 gennaio 2019

Black Rain


Titolo: Black Rain
Regia: Ridley Scott
Anno: 1989
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Nick viene coinvolto insieme al giovane collega Charlie in un caso più grande di lui. Dagli States l'azione si sposta in Giappone ad Osaka, per indagare sulla mafia locale nota come Yakuza. Nonostante la frizione tra i metodi nipponici e dei due yankee, la sinergia darà i suoi frutti. Ma Osaka non è New York.

Black Rain non è un vero e proprio cult ma un film che mi aveva fatto conoscere allora Andy Garcia regalandogli un personaggio che è diventato leggenda, un Douglas quasi sempre fastidioso ed esagitato, e una storia che riesce a siglare "amicizia" tra due paesi in lotta da sempre.
Un poliziesco con quel taglio non proprio noir ma con un'atmosfera e una scenografia e una città, Osaka, incredibile con tutti quei fumi per le strade, quelle luci al neon e quelle moto anni 80' così come tutto il resto che riesce a dare quel tono malinconico e struggente dei film.
Venendo ai limiti che non sono pochi, ci sono a volte delle musiche pedanti, il personaggio di Nick è davvero ai limiti del ridicolo.
Il film ha dalla sua una messa in scena impeccabile, dei dialoghi che funzionano e a volte degli scivoloni quando inciampa nello stereotipo o nell'ironia che non riesce a fare quello che deve (la scena della nonnetta che insegna a Nick a mangiare con le bacchette è iconica per numerosi aspetti) e alla fine tutto si riduce alla solita vendetta con la strage finale che chiude un'indagine meno macchinosa di quanto sembri.




martedì 1 maggio 2018

Outsider


Titolo: Outsider
Regia: Martin Zandvliet
Anno: 2018
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Prigioniero durante la seconda guerra mondiale, un soldato americano riesce a tornare libero solo grazie all'aiuto di un componente dell'organizzazione criminale Yakuza. Una volta uscito dalla prigione dovrà fare in modo di ripagare il debito e conquistare i favori della mafia giapponese.

Lo yakuza movie è un po come i J-horror, sono quei cavalli di battaglia orientali e che solo come tali dovrebbero e avrebbe senso farli andare avanti. I risultati sui remake, reboot, sequel e prequel fatti dagli americani hanno quasi sempre regalato risultati contrastanti ma quasi mai appaganti.
Questo Outsider è un film con polso. Lento, minimale, accurato, elegante, senza mai esagerare ma invece mostrando quel codice morale e tutti i significati che regolano l'appartenenza ad un clan.
Al di là del fatto di quali siano i veri intenti che muovano Nick Lowell a diventare un appartenente della yakuza (un particolare della trama che non viene sviluppato a dovere), per tutto il resto del film viene quasi tutto fatto intuire senza di fatto avere mai quelle esplosioni di violenza tipiche del genere che connotano tanti registi come Miike Takashi o Sion Sono (solo per fare due nomi a caso).
Il fatto che ci siano state molte polemiche sul Whitewashing, mosse alla pellicola per aver utilizzato un attore bianco in una storia sulla mafia giapponese, trovo che non abbia ragion d'essere sul nascere.
Se la scelta non funziona il film o il protagonista pagheranno con il fatto che il film o l'attore faranno schifo in quel caso. In questo caso invece Jared Leto è così inquietante e fuori di testa che offre una recitazione e un personaggio che seppur centellinato in tutte le mosse e i movimenti ha due occhi di ghiaccio che fanno quasi impallidire i capi yakuza.
La scena del giuramento così come alcune sequenze sono davvero girate con quella precisione e quella tecnica che fanno sì che Zandvliet riesca a portare a casa il suo film migliore.
Con un finale abbastanza telefonato che poteva dare di più in termini di climax e di scrittura, è uno dei rari film decenti distribuiti da Netflix.

venerdì 8 dicembre 2017

Tokyo Vampire Hotel-Season 1

Titolo: Tokyo Vampire Hotel-Season 1
Regia: Sion Sono
Anno: 2017
Paese: Giappone
Festival: 35° Torino Film Festival
Serie: 1
Episodi: 9
Giudizio: 3/5

Tokyo, 2021. Manami vorrebbe festeggiare il suo compleanno, ma la celebrazione si trasforma in una carneficina. Quel che Manami non sa è che è l'unica sopravvissuta a recare in corpo sangue dei discendenti di Dracula, estromessi dal mondo secoli prima da un'altra casata di vampiri rumeni

L'incipit della serie tv di Siono sui vampiri voluta e prodotta ad alto budget da Amazon prime Giappone risulta un compendio di svariate tematiche del regista nipponico che ovviamente vanno sempre nelle direzioni preferite dal divario tra nuove e vecchie generazioni, alla religione vista attraverso le sue diverse forme e strutture, l'identità di genere femminile, la mattanza finale e l'esagerazione gore nonchè il mondo yakuza sminuito o esageratamente pompato (al pari del cinema di Miike Takashi).
In 142' Sono prova, senza riuscirci sempre, ad omaggiare i signori delle tenebre contando che nel sollevante non sono mai andati così di moda. Dopo un recente passaggio in Romania, l'outsider ha voluto intraprendere questa ennesima sfida vincendola anche se con immancabili esagerazioni e dilungamenti nella trama che sanciscono alcuni limiti soprattutto di trama.
L'incipit è un surplus di citazioni da i J-Horror a Cronemberg a piene mani (BROOD su tutti).
Unire dunque vampiri orientali e rumeni dalla sua ha sicuramente decretato alcune scelte di fatto funzionali che hanno contribuito a rendere ancora più suggestivo il casting ma in alcuni momenti mostra le sue perle derivative soprattutto nel finale che sembra esageratamente tirato via per chiudere una mattanza che sembrava non aver fine (i vampiri non muoiono facilmente soprattutto quando gli scarichi addosso una scarica di pallottole...) e ad un certo punto liberata la vera anima della protagonista, l'unica soprtavvissuta, il film diventa exploitation puro al cento per cento.
Ancora una volta protagoniste sono loro, il genere femminile a 360°.
Le sexy teenager sono ancora una volta al centro dell'inquadratura: tartassate, desiderate, a(r)mate, mutilate, vilipese e ricoperte di sangue.
Dovevano dargli più tempo. Sono come dicevo in questa fruizione spensierata non riese purtroppo a caratterizzare molto bene i personaggi (la protagonista ad un certo punto sembra soppiantata dal suo mentore K intenta a dividersi tra i discendenti di Dracula e le origini degli Yamada del clan Corvin).
Rimane come sempre un’idea visiva molto nipponica che l'autore e la sua politica non ammette tagli e censure esagerando e mostrando tutto senza problemi e senza badare alla censura con fusioni di mitologie e look diversi , mostrando lotte di vampiri di diverse dinastie è uno scontro senza senso, che trae la sua vitalità proprio dall’esibizione della morte e dal suo annullamento (si muore e si ritorna senza troppi problemi).
TVH segna la quarantottesima regia di Sion Sono in soli trent'anni in un twist che non accenna ad esaurire la vena artistica e grandguignolesca del regista che tra massacri seriali, decapitazioni, sgozzamenti, sventramenti, amputazioni e fiumi di sangue, sembra continuare a divertirsi molto e a fare ovviamente di testa sua mischiando carte, regole clan di vampiri e clan di yakuza vampirizzati.

Ancora una volta quando ci si trova di fronte ad esperimenti simili, la sospensione d'incredulità deve andare a farsi fottere, spegnendo il cervello ma nemmeno così tanto come mi aspettavo dal momento che la metaforona politica non è affatto male come quella della Dieta e di un certo governo e politica giapponese fine a se stessa e ad auto sostenersi che è la prima ad essere odiata dai signori della notte.

sabato 8 aprile 2017

Bodyguard Kiba

Titolo: Bodyguard Kiba
Regia: Takashi Miike
Anno: 1993
Paese: Giappone
Giudizio: 3/5

Junpei, uno Yakuza di basso livello, ruba 500 milioni di yen al suo capo. Mentre viene interrogato, un colpo di fortuna gli salva la vita facendolo restare in prigione per cinque anni. Al rilascio, assume l'invincibile guardia del corpo professionista Kiba per scortarlo a recupeare i soldi prima nascosti, in modo che possa egli possa ritrovare la sua ragazza e fuggire per sempre. Ad ogni passo del lor cammino i due sono vittime di imboscate da parte dell'ex capo di Junpei, e dagli studenti di un Dojo rivale di Kiba, arrabbiati dal fatto che il Dojo di Kiba sia migliore del loro.

Era uno dei pochissimi film di Miike ha inizio carriera che non avevo ancora visto, contando la fortuna di aver partecipato ad una rassegna a Torino anni fa al Cinema Massimo dove partecipava anche il regista e in cui noi italiani sfortunati abbiamo potuto gustarciu quasi tutte le sue opere inedite o mai arrivate nel nostro paese.

Bodyguard Kiba è fondamentale nel curriculum di uno dei registi più interessanti della settima arte. Già erano presenti in questo film tutti gli ingredienti che Takashi avrebbe usato e ingigantito nei prossimi film. Il genere yakuza, l'appartenenza al clan, l'azione quasi sempre esplosiva e impulsiva che sembra deflagrare da un momento all'altro. Il sesso, la tortura, gli inseguimenti, i dialoghi e soprattutto l'onore. Kiba rappresenta il totem di tutti questi elementi che spalmati su una trama piuttosto convenzionale riescono ad avere quei guizzi di genio e dare conferma anche solo per la disposizione delle luci e alcune inquadrature che confermano il talento di un regista inesauribile.

martedì 15 novembre 2016

Tokyo Tribe

Titolo: Tokyo Tribe
Regia: Sion Sono
Anno: 2014
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

In un futuro imprecisato Tokyo è un territorio diviso tra gang rivali, con la polizia inerme a osservare le gesta dei delinquenti. Signore e padrone della rete malavitosa è il disgustoso Lord Buppa, dedito al cannibalismo e a sordide pratiche sessuali. Quando la figlia di una gang straniera, a Tokyo in incognito, finisce prigioniera di Buppa, tra le bande rivali si scatena la guerra, a colpi di mazze da baseball e rime hip hop.

Tokyo Tribe è l'ennesima prova che Sono è uno sperimentatore che non ha intenzione di fermarsi nel suo viaggio di nozze con il cinema di genere. Tratto da un manga, in questo caso un mix coinvolgente di più di due ore che mischia, musical, azione mimando il combattimento fisico detto up-rock e fronteggiandosi a colpi di dissing, dramma, virate pulp e tanto tanto ritmo scandito dagli ottimi brani hip hop cantati dai protagonisti.
Tokyo è il caos amplificato e messo a ferro e fuoco da band locali che con le dovute divisioni dovranno trovare un accordo per combattere un nemico più grande.
Un film travolgente e anarchico, un live-action che tra pianisequenza e cambi di ritmo impressionanti conferma l'amore per il cinema e proprio la prolificità del regista riesce a dare successo e un'attenzione meticolosa al gusto corrente in fatto di mode, tendenze, stili e tutto il resto.
Tokyo Tribe è un film in realtà molto complesso da girare con tanti personaggi e gang, tutte al contempo caratterizzate a dovere e tutte che cercando di ritagliarsi una propria fetta di fama.
Un film che molto probabilmente dato in mano ad un altro regista che non lo sentiva come qualcosa di importante avrebbe comportato un sicuro fiasco. Qui è sprigionata la follia e la creatività e sono proprio questo insieme di elementi uniti ad un corollario di scelte originali e spesso anche politicamente scorrette (la poliziotta svestita per strada che finisce tra le mani di Mera unita alle scene sado-mado e quelle di cannibalismo).
Visivamente folle, sembra ironizzare su tanto hip hop moderno e l'esagerazione del fenomeno che sta dietro, dando risalto e forma a personaggi improbabili che pur non diventando mai del tutto delle macchiette funzionano proprio nella maniera in cui esagerano un fenomeno di massa che ha ripreso forma e successo.



Mole Song

Titolo: Mole Song
Regia: Takashi Miike
Anno: 2013
Paese: Giappone
Giudizio: 3/5

Reiji è un poliziotto incapace, col chiodo fisso del sesso ma con un’incrollabile determinazione. I suoi superiori decidono così di utilizzarlo come agente sotto copertura da infiltrare nella yakuza. Reiji si troverà alle prese con due organizzazioni criminali dalle opposte filosofie e composte da personaggi singolari. Tra mille disavventure, il protagonista farà la differenza nella guerra tra le due gang.

Takashi Miike ha girato così tanti film che quasi nessun sito è riuscito finora ad elencare tutta la Mole dei suoi film. Dal canto mio credo di averne visti almeno una sessantina dopo importanti retrospettive con il regista presente in sala ed essendo diventato scemo sul web a cercare di essere sempre aggiornato sulle sue ultime fatiche.
Che siano film di formazione, yakuza movie, manga, romanzi, horror e quant'altro, il fuoriclasse giapponese insieme a Sion Sono siedono sull'olimpo nipponico del cinema di genere. Mole Song sono 130' minuti di puro intrattenimento in perfetto equilibrio tra commedia ed action. Una parodia demenziale che non vuole prendersi sul serio mischiando ironia e dramma e contaminando sotto generi e qualità tecniche che non sembrano mai venir meno.
Reiji è l'imbranato sfruttato dai suoi superiori per toglierlo di mezzo senza pensare nemmeno per un attimo che il ragazzo possa farcela. Un esercizio di stile che dato in mano a qualsiasi altro regista sarebbe molto probabilmente finito nel dimenticatoio mentre qui l'inarrestabile sequela di invenzioni visive reggono un impianto narrativo surreale e sopra le righe.

Di nuovo un film completamente anarchico che si prende tutte le libertà che vuole senza limiti e imposizioni (d'altronde Miike è diventato famoso per questo da quando in passato scelse di chiamarsi fuori dalle logiche di marketing con il potente DEAD OR ALIVE) ridisegnando un suo universo pop colorato, esagerato, popolato di richiami al mondo animale e ricolmo di idee grafiche.

domenica 20 dicembre 2015

Shinjuku Swan

Titolo: Shinjuku Swan
Regia: Sion Sono
Anno: 2015
Paese: Giappone
Festival: TFF 33°
Giudizio: 3/5

Appena giunto a Kabukicho, quartiere a luci rosse del distretto di Shinjuku, Tatsuhiko viene preso sotto la sua ala protettiva da un potente boss, responsabile di un’organizzazione che procaccia ragazze per i locali del quartiere. Per le strade, però, infuria una guerra con un’organizzazione rivale, per il controllo del territorio…

Criminalità giovanile, violente contese per il potere, il mondo dei procacciatori di ragazze e rovesciandolo dall'altra parte di tutte coloro che per guadagnare soldi accettano questo stile di vita.
Il secondo film del trittico portato dal prolifico Sion Sono al TFF è un film che sa di già visto, racconta innumerevoli cose ma senza avere quella originalità da coinvolgerti pienamente in nessuna delle tante sottostorie. Il fascino è nella messa in scena, nel mischiare e contaminare situazioni e generi (yakuza inteso come gangster movie, tragicommedia, melo e fiaba dai toni grotteschi), donando in più di due ore ritmo a gogò senza mai sbavature.
Con una colonna sonora straordinaria, ma si sa è uno dei pezzi forti del regista, Sono mette tutto nelle mani e nelle azioni del suo protagonista, le vicende e i dilemmi morali che lo portano in un inferno che ormai sembra pienamente accettato, infatti lo svago e persino l’amore sono quantificabili e monetizzabili e dove ancora una volta viene portato a galla il tema della prostituta illusoriamente felice.
La fonte della sceneggiatura è un manga già adattato nel 2007 in una serie televisiva, inedito in Italia come spesso capita nei film nipponici.
Questa parabola sulla scalata al potere e la presa di coscienza di una realtà insopportabile, Sono l'ha saputa gestire e confezionare bene ma purtroppo manca molto la sua vena anarchica con tutte le sue vicissitudini non-sense che diventeranno il marchio di LOVE & PEACE, quasi come se si fosse dovuto accontentare di trovare una mediazione con tanto di morale in un contesto ugualmente degenerato che non siamo abituati a vedere.



domenica 13 dicembre 2015

Yakuza Apocalypse

Titolo: Yakuza Apocalypse
Regia: Takashi Miike
Anno: 2015
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Kamiura è un leggendario leader della yakuza. Leggenda vuole che sia immortale, e in effetti è un vampiro, un capo-yakuza-vampiro! Kageyama è il più fedele membro del suo clan, ma gli altri yakuza si prendono gioco di lui, che ha la pelle troppo sensibile per potersi fare i tatuaggi di rito.
Un giorno degli uomini arrivano dall’estero e presentano un’ultimatum a Kamiura: o rientra a far parte del sindacato internazionale del crimine che ha abbandonato oppure verrà ucciso. Kamiura rifiuta, e il suo corpo viene smembrato al termine di un feroce combattimento. Prima di morire, Kamiura morde Kageyama, trasmettendogli i propri poteri. Al suo risveglio Kageyama decide di servirsi di tali poteri per vendicare la morte del suo capo e combattere il sindacato internazionale del crimine.

Se c'è un regista con una capacità, una fantasia e un talento visionario straordinario senza limiti e che non ha bisogno di commenti è Miike Takashi.
Ovunque lo metti, qualsiasi cosa gli dai in mano, trasformerà sempre la merda in oro.
Con una filmografia senza paragoni (toccherebbe scrivere due righe sulle produzioni giapponesi) insieme al numero due Sion Sono, è tra gli outsider nippo di cui il mondo dei cinefili aveva un disperato bisogno e che non ha potuto non visionare ogni sua opera, smanettando come un nerd sul web nel disperato tentativo di visionare ogni sua creazione dal momento che non è così facile reperire alcuni suoi film.
Yakuza Apocalypse ritrova il canovaccio e la semplice essenza dell'esagerazione portata agli eccessi, metafora di un disagio e di un male sociale e tramutata in una parabola che spero possa avere un seguito. Senza una vera e propria storia, il film smonta la struttura lineare abitudinaria, diventando senza mezzi termini un divertimento continuo, una serie di gag che giocano su un'ironia, quella giapponese, difficile a volte da comprendere nella sua forza dissacrante ma che se esteticamente portata al massimo può soffocare nel senso buono lasciandoti come una tela bianca da sporcare a proprio piacimento.
Un fumetto spettacolare, colorato, scoppiettante e con alcune trovate, seppur minori ad alcuni suoi precedenti capolavori, in grado di dare forma e fare diventare cool anche una semplice "rana" con un virtuosismo, quello di Miike anarchico e difficile da trovare in giro.
Sicuramente uno dei film cretini più belli che abbia mai visto.


mercoledì 19 novembre 2014

Why don't you play in hell

Titolo: Why don't you play in hell?
Regia: Sion Sono
Anno: 2013
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Muto e Ikegami sono due gangster che si odiano ma Ikegami è innamorato di Michicko, la figlia attrice di Muto che la madre Shizue vorrebbe vedere apparire in un film. Dopo essere stato scambiato per un regista, il giovane cinefilo Koji chiede al regista indipendente Hirata di scegliere Michiko come protagonista del suo prossimo lavoro ma la situazione prende presto una piega sbagliata.

"Io stesso non credo di capire perfettamente il cinema. Sto ancora cercando di capire cos'è"
Un film totale in tutti i sensi. Forse una delle più grandi sorprese di questi ultimi anni.
Nell'universo di Siono a farla di certo da padrone sono le contaminazioni tra i generi di cui questo film ne è sicuramente un esempio lampante nella sua efficacia e nel suo concetto di Metacinema.
L'opera anarchica dell'outsider giapponese è interpretabile sotto diversi punti di vista.
A partire dalla critica verso le grosse produzioni che con i loro effetti speciali stanno distruggendo il cinema, alle stesse tecniche accomodanti e a volte prepotentemente estetiche (e qui nel calderone ci butta dentro tutti) facendole convergere in un'unica location che sarà anche lo spazio stretto nel quale far detonare tutte le sue voglie e bizzarrie cinematografiche.
In più non si capisce bene se strizza l'occhio o si è stufato del fatto che spesso e volentieri le produzioni occidentali colgano nell'Oriente solo gli aspetti kitchs.
Il 37° film dell'autore giapponese entra di petto dentro gli stessi cardini del soggetto e della sceneggiatura, diventando un motore di propulsione verso il futuro della settima arte, un lungometraggio saturo, in continua deflagrazione cinematografica, sempre dinamico e fuori controllo.
Sono, come i Fuck Bombers, sono in fondo tutti decisi a spingersi ben oltre per realizzare la loro opera d’arte, anche se ciò comporta stringere patti con la yakuza e gettarsi, cinepresa alla mano, in mezzo a sanguinolente battaglie all’arma bianca.
Allo stesso tempo il film ha un ritmo e un gioco a incastro davvero intricato in cui ancora una volta tutti i personaggi riescono ad essere incredibilmente caratterizzati e ognuno di loro assolve una precisa funzione.
Wdypih è un film corale, strutturato sovrapponendo i classici due piani temporali di certi film a tema criminale e connotandolo con tutti gli eccessi che gli passano per la testa diventando e immergendosi nel pieno exploit delirante, dove a farla da padrone è il rosso del sangue che copioso copre buona parte delle inquadrature.
Al di là del fatto che Sono riprende un copione di quindici anni prima, sembra in questa allucinata pellicola, divertirsi come non mai in un divertissement su decenni di cinema action, nipponico innanzitutto, come gli yakuza eiga di Fukasaku Kinji, esplicitamente citati nei dialoghi, o il visionario Suzuki Seijun, di cui Sono Sion riprende l'uso dei colori primari accecanti (la sequenza della bambina che torna a casa e trova un lago di sangue su tutte) o ancora l'eccesso grandguignol delle produzioni Sushi Typhoon di oggi.
"Sono il Dio del cinema"dice uno dei protagonisti durante il film e Sono scherzando, si conferma come uno dei più eversivi, innovativi, inteligenti e coraggiosi autori moderni.

martedì 12 febbraio 2013

Resa dei conti a Little Tokyo


Titolo: Resa dei conti a Little Tokyo
Regia: Mark L.Lester
Anno: 1991
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

A Los Angeles si è insidiata la Yakuza guidata dal truce Yoshida. Tra i suoi nemici spiccano due poliziotti, Chris Kenner, un americano cresciuto in Giappone, di cui ha assimilato lingua e costumi, e Johnny Murata, un nippo-americano cresciuto in California. Entrambi sono esperti di arti marziali. Yoshida costringe l'affascinante cantante del locale "Bonsai" Minako Okeya a stare ai suoi ordini. Kenner riesce a salvarla e la porta nella sua casa di campagna, dove i due s’innamorano. Ma i banditi li sorprendono e dopo una violentissima sparatoria, li catturano, portandoli in un deposito di auto, sottoponendoli alla tortura. A quel punto la lotta contro il crimine diventa una battaglia molto personale che i due protagonisti dovranno vincere a tutti i costi.

Di cazzate come queste il cinema dovrebbe esserne pieno eppure non è affatto così.
Showdown in Little Tokyo è il tipico esempio di come le cazzate possano sorprendere, non certo per la loro originalità, ma per il fatto che aboliscano ogni frontiera di qualsivoglia genere distruggendo il polizziottesco, portando all’apoteosi l’action più sfrenato e irreale possibile, una comicità banale e la solita cozzaglia di luoghi comuni e frasi fatte di cui sono costellati principalmente i dialoghi.
Lester non è un autore ma è il tipico mestierante che ha saputo regalare alcune perle e cult mica da poco come COMMANDO,CLASSE 1999 e CLASSE 1984.
Diciamo che azione+violenza+sparatorie infinite con caricatori infiniti+solito spirito reazionario americano contro i gialli+fighe da urlo(Tia Carrere non si può vedere per quanto è figa). Poi c’è il classico duro infallibile che sa che tanto niente gli farà la pelle(ogni tanto Lungren si accorge forse che i colpi dovrebbero finire e quindi infila per dovere della verosimiglianza un caricatore trovato nel calzino), oppure come dimenticare la sequenza iniziale in cui lui lo sbirro impavido e che lavora come sempre “da solo” entra con una liana in un ring durante un incontro clandestino di arti marziali. Ma come si può sottrarsi a tale tamarria quando poi addirittura compare il defunto Brandon a dare manforte anche se con dei calci leggermente troppo sottotono.
Resa dei conti è un cult, la summa di tutto quello che non si dovrebbe fare ma che invece si vuole vedere deliziati da una povertà di linguaggio abissale e con così tanta ignoranza inside da sconvolgere una platea di devoti alla madonna di Lourdes.
Alcune scene poi come la cultura di Chris verso le tradizioni giapponesi è così assurda da far scoppiare in un mare di risate ogni volta che apre la mascella e come guardando attraverso il binocolo intuisce il rito di harakiri sapendo naturalmente tutto a riguardo.
Ho letto poi che il duo non andava mica tanto d’accordo.
In realtà nutrivano antipatie reciproche; soprattutto pare che l'attore svedese detestasse il collega per la sua «insopportabile arroganza e le pose da fichetto»(Wikipedia)
Nonostante tutto diventa quel classico e instancabile film che visto una volta ogni cinque anni quasi come una leggenda giapponese fa rivivere al contempo stesso favola tamarra e aberrazione più totale.
Un sacrilegio che merita la palma d’oro.

venerdì 11 novembre 2011

Like a Dragon


Titolo: Like a Dragon
Regia: Miike Takashi
Anno: 2007
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Kiryu Kazuma ex Yakuza, che è stato recentemente liberato dal carcere dopo una lunga detenzione. Lungo il percorso incontra Haruka, una ragazza in difficoltà, che sta cercando di trovare la madre.  Purtroppo i problemi di Kiryu lentamente ritornano ed è perseguito da un ex socio, con la mazza da baseball Majima Goro che ha rancore verso Kiryu.

Il fatto che ci siano registi capaci di trasformare la merda in oro è uno dei motivi per cui Like a Dragon riesce dove altri film falliscono miseramente. Tratto dal videogioco Yakuza per psp, Miike Takashi, autore di troppi bei film in troppo poco tempo, sa come divertire e sa farlo con il giusto gusto maturato dopo la sua nutrita filmografia. Riesce a citare il suo stesso cinema e lo fa con tutto quel gusto estetico senza diventare perfezionista ma preferendo prendersi quelle rivincite che hanno in un qualche modo contrassegnato il suo cinema.
Anche se palesemente tamarro, il film sviluppa altre due trame, dando dunque respiro anche all’azione devastante della linea narrativa principale, una rispetto a una coppia di improvvisati ladruncoli e l’altra concernente l’indagine della polizia nel mezzo di una rapina. Entrambe avranno un finale che sembra essere palesemente un riferimento alla chiamata alla spericolatezza, così come allo stesso tempo far emergere la disperazione dei più poveri e alcuni patetici tentativi di cercare di lasciare il segno.
Miike dirige e basta lasciando il resto del comparto tecnico alla sua squadra e non lesinando sulle bellissime musiche e gli arrangiamenti di Koji Endo.
Come sempre la parte riferita ai combattimenti non lesina e non si risparmia in questo caso con una scelta in post-produzione davvero efficace e alcune scene imperdibili come la ricerca da parte del gruppo di Goro per le strade facendo strage di altri yakuza e via dicendo fino al combattimento finale e la trovata della bibita energetica. Il cast è perfettamente adatto alla circostanza con una performance sopra le righe e alquanto esagitata di Goro Kishitani nel ruolo di Majima.
Imperdibile come tutti i film di Miike Takashi, regista rivoluzionario, anticipatore e precursore nonché uno dei pochi geni rimasti in aperta attività sapendo variare tra i generi come solo un regista che si è conquistato.

giovedì 9 giugno 2011

20th Century boys-Beginning of the End


Titolo: 20th Century boys-Beginning of the End
Regia: Yukihiko Tsutsumi
Anno: 2008
Paese: Giappone
Giudizio: 3/5

Alla fine degli anni Sessanta un gruppo di nove bambini giocava in un campo abbandonato a difendere il mondo da dei cattivi che volevano impadronirsi della Terra. Era un'epoca piena di cambiamenti e di speranze nel futuro. L'uomo andava sulla luna, Osaka avrebbe ospitato a breve l'Esposizione Universale, simbolo di pace e di armonia.
Passati 30 anni ognuno ha preso la sua strada. Alcuni si sono sposati, con altri ci si è persi di vista, altri ancora conducono una vita anonima dopo aver visto infranti i propri sogni.

Liberamente ispirato dal celebre manga di Naoki Urasawa(che non ho letto) il primo capitolo della trilogia sulle gesta di questo gruppetto di giovani risulta essere interessante contando che le tematiche del manga risultano abbastanza complesse e con una contaminazione di contenuti difficile da riportare in pellicola, ma su questo Tsutsumi si vede che ha dalla sua una buona esperienza(suo il fantastico 2LDK) e una capacità di seminare alcuni importanti aspetti che verranno poi approfonditi nel secondo capitolo.
La mole è tanta, le strizzatine d’occhio arrivano più su una certa filmografia contemporanea.
Un aspetto per certi versi sempre più preso in considerazione nella richiesta di ampliare di più le tematiche, approfondire il soggetto (di solito in maniera fin troppo netta) e alcuni pretesti e sotto-trame che servono solo per dare quel tono seriale e farla diventare una serie.
Tutti e tre i capitoli sono girati dallo stesso regista, contando che i due successivi sono entrambi del 2009 e la durata rimane sulle due ore a testa per capitolo.
Una narrazione per certi versi distante da un certo cinema giapponese che ci ha abituato come nel caso di film come questi, ad avere un montaggio più frenetico e molta più azione ma invece Tsutsumi rimane fedele alla sua visione del manga parttendo molto lentamente per aprire il sipario in maniera definitiva solo nel secondo atto del primo capitolo sapendo benissimo di soffisfare alcuni fan e di deluderne altri.
In definitiva rimane un film per certi versi anomalo, lungo, di cui si è parlato e si conosce molto meno rispetto ad altri manga decisamente più famosi, eppure BEGINNING OF THE END ha quel pregio di mostrare tutte le barbarie del sistema giapponese prendendosi tutto il tempo che gli serve.

domenica 10 aprile 2011

Outrage

Titolo: Outrage
Regia: Takeshi Kitano
Anno: 2010
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Kato, il braccio destro del presidente della famiglia Sanno-kai, avverte il boss Ikemoto che il suo capo non gradisce lo sconfino delle attività della famiglia Murase e ordina al sottoposto di occuparsi della faccenda. Otomo, collaboratore di Ikemoto, viene quindi incaricato di innescare le ostilità.

Erano in pochi a credere ad un ritorno al filone yakuza del grande regista giapponese.
A dieci anni di distanza da BROTHER ritorna con una carica travolgente che ristabilisce una delle sue tematiche su cui ha sempre calcato la mano senza mai uscire troppo dagli schemi. Outrage è un grido disperato di un outsider, una standing ovation di violenze(basta pensare all'ondata di vendetta che travolge letteralmente lo spettatore con fiumi di sangue e alcune scelte estetiche che sembrano rimandare a Miike Takashi).
Dopo la trilogia sulla destrutturazione cinematografica che aveva separato i fan che forse non si aspettavano alcune trovate(GLORY TO THE FILMAKER)percorsi a ritroso e cenni biografici(TAKESHIS) e una critica efferata all'arte(ACHILLE E LA TARTARUGA) ritorna con un cinismo spietato che non accenna a fermarsi e che coinvolge varie famiglie yakuza su cui Kitano si è sempre battuto e ha sempre mostrato un quadro piuttosto impietoso.
La sintesi sul quadro della violenza che appare in questo film lascia piuttosto impietriti anche se dall'altra parte esercita un fascino stilistico opportunamente coadiuvato da una fotografia sobria ma attenta ai particolari.
Il suo particolare uso e ricorso ad atteggiamenti esagerati e plateali come solo gli orientali sanno propinarci è una delle caratteristiche di pochi registi orientali e di cui Kitano è sempre stato tra gli innovatori.
Poche pistole e mitra ma oggetti contundenti e quant'altro possa spaziare nella fantasia malata dei carnefici e dei killer che disegnano un girone di violenza particolarmente ben giostrato e con un montaggio semplice ma efficace.
Uno humor velato e una cattiveria nascosta piena di doppi sensi e alla base dei dialoghi sintetici e dei giochi di poteri e i raggiri infiniti tra i clan.
Kitano alla fine riassume tutto in un concept molto "raffinato", tutti muoiono e non esiste nessuna ancora di salvezza appena intraprendi questo disperato viaggio nella criminalità.
Una commedia nera che sembra un telegiornale sulla carneficina che travolge piena di atrocità da qui appunto il titolo.
Outrage è tutto questo.
Sceneggiatura classica ma con delle belle sottotrame che portano a un climax non particolarmente originale.
Per tutti quelli che pensano che Kitano sia morto dopo aver girato i suoi primi veri capolavori beh fanculo e guardatevi questa perla.


lunedì 21 marzo 2011

Guys from Paradise

Titolo: Guys from Paradise
Regia: Miike Takashi
Anno: 2001
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Un uomo d’affari viene arrestato nelle Filippine per traffico d’eroina. Si ritroverà in una prigione particolare in cui capirà come le leggi possono essere tranquillamente ribaltate e le possibilità di curare gli affari non mancano.

Fenomenale questo film in cui troviamo quasi tutte le tematiche care al regista. Il personaggio si ritrova spaesato in un territorio che non conosce e che rappresenta una sorta di esilio per il nostro eroe. Fuori da una dimensione razionale e seguendo i suoi soliti schemi liberi Miike dirige un altro bellissimo e struggente film in cui si parla di famiglia, yakuza, isolamento, complicità, lealtà, fiducia, etc etc.
Come sempre il regista nipponico filma una società come quella nelle Filippine in cui la corruzione regna sovrana e i boss possono uscire di prigione come vogliono e continuare a svolgere impuniti i propri traffici. La società anche se caotica e dura della prigione, mostra comunque un’umanità diversa e un ascolto nonché un’atmosfera calma e tranquilla in un paradiso naturale che è sempre più difficile da immaginare soprattutto per un giapponese frenetico che pensa solo al guadagno.
Il protagonista troverà amici e ri-scoprirà un altro percorso di vita abbandonando l’avvocato, la società e l’infedele moglie che lo assilla.
Ottimo esempio del viaggio dell’eroe. Una storia d’avventura e un percorso di formazione interessante. In conclusione un’altra perla della ragguardevole filmografia di uno dei talenti incontrastati del Giappone.