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venerdì 8 settembre 2017

Let me make you a martyr


Titolo: Let me make you a martyr
Regia: Corey Asraf, John SwabJ
Anno: 2016
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Drew Glass fa il suo ritorno in città, imbattendosi presto con il padre adottivo boss del crimine locale, la sorella adottiva (e amante) dipendente dal crack, un addetto ai parcheggi delle roulotte tossicodipendente, un prete cieco con un segreto, una ragazzina scomparsa e un killer solitario da ingaggiare. Ogni passo che Drew muove lo riporta inevitabilmente al suo complicato passato.

Cinico, sporco, maledettamente drammatico e destinato ad essere crudele ed efferato, almeno questa era l'idea che mi ero fatto quando sono venuto a conoscenza di questo strano indie sconosciuto da noi. Il noir, il southern drama, della giovane coppia di registi indaga in questa piccola cittadina americana popolata da bifolchi, una sottocultura di individui che vivono secondo delle regole e dei codici particolari.
Spacciatori, tossici, killer professionisti, signori della droga. Praticamente mezzo cast della serie tv Sons of Anarchy, per chi ha avuto la forza di vederla tutta, assieme a Marilyn Manson in veste cinica e crudele che d'altro canto aveva recitato anche lui nella serie citata ritagliandosi un personaggio minore in tutta la parte legata al carcere.
Non c'è redenzione e non c'è salvezza per questo film e per i suoi protagonisti. Già il titolo originale è profetico ma la disperazione e l'intento salvifico del protagonista e della sua scelta per amore nei confronti della sorellastra lo porterà in un vortice di violenza e sopraffazione davvero spietato.
Ora tanti elementi squisitamente di genere, marcati e sporchi, sono sicuramente tasselli interessanti ma purtroppo sanciscono il primo limite in termini di sceneggiatura del duo di registi.
Pur avendo degli intenti da western moderno indefinito, noir e southern drama in chiave leggermente pulp, il risultato in termini di ritmo è abbastanza noioso come se i registi cercassero di trovare la propria voce raccontando una storia coerente ma che invece mostra una galleria disarticolata di personaggi anche molto interessanti sui cui la caratterizzazione non riesce a fare il suo lavoro. Mi ha ricordato per altri spetti parlando di droga il recente Heaven knows what di Safdie con cui aveva nell'atmosfera legata alla perdizione della sua protagonista diverse analogie.
I due autori invece di giocarsi la carta della violenza cool e del country pulp ingabbiano il loro film dentro un’impalcatura iper drammatica, mettendo in bocca ai loro personaggi parole pesantissime e retoriche sulla salvezza e il riscatto e condannandoli ad una spirale di pessime e disperate scelte che finiscono per risultare quasi ridicole. A differenza di questo e comunque volendo esagerare con la drammaticità per rimanere in questa westland mi viene in mente un film uscito qualche annetto fa Ain't them bodies saint riuscendo ha fare molto meglio.