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giovedì 8 giugno 2023

Holy Spiders


Titolo: Holy Spiders
Regia: Ali Abbasi
Anno: 2022
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Siamo a Mashhad, seconda città più grande dell'Iran e importante sito religioso. Nel 2000, un serial killer locale inizia a prendere di mira le prostitute per strada, strangolandone diciassette dopo averle attirate una ad una a casa sua. La stampa lo chiama "il ragno", e tra i giornalisti che coprono il caso c'è Rahimi, una donna che viene da Teheran e si mette sulle tracce dell'assassino. L'uomo si rivelerà essere Saeed Hanaei, ex-militare convinto che Dio gli abbia affidato la missione di liberare la città dalle donne indegne che vendono il proprio corpo.
 
Dopo Shelley e Border, il regista iraniano naturalizzato danese se ne esce con il film più tosto e maturo della sua breve carriera che sicuramente non avrebbe potuto girare in altre circostanze.
Un film apertamente politico su una delle realtà più retrograde e maschiliste della politica iraniana, la donna ancora oggi perseguitata e presa a frustate nelle piazza principali.
Un film coraggioso che parla di un caso di cronaca ormai passato alla storia ma anche e soprattutto di prostituzione, tossicodipendenza e processi. Girato in Giordania per ovvi motivi e destinato a far parlare e discutere di sè, il film è uno spaccato reale diviso in due parti che racconta l'assurdo di come per un fanatismo religioso si possa arrivare a commettere dei crimini a danno di prostitute sole, malate e trattate come esseri inferiori dalla società. Abbasi sembra concentrarsi su tutte le contraddizioni che regnano nel paese mettendo in scena l'arretratezza culturale di un regime teocratico che tende a sminuire e reprimere la figura femminile tollerandola solo in mezzo alle strade per umiliarla maggiormente. Dall'altro senza intervenire su un problema grosso che arriva dall'Afghanistan che si chiama eroina in una città piena di sciiti e cosiddetta Santa che mitizza i discorsi di odio degli ayatollah dove il fanatismo religioso giustifica e sostiene il machismo istituzionalizzato nella società iraniana


mercoledì 7 giugno 2023

Copenaghen Cowboy-Season 1


Titolo: Copenaghen Cowboy-Season 1
Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 2022
Paese: Danimarca
Episodi: 6
Stagione: 1
Giudizio: 4/5

Dopo una vita trascorsa a servire gli altri, Miu, un'enigmatica ragazza, si imbatte nel cupo paesaggio della malavita criminale di Copenaghen. In cerca di giustizia e vendetta, intraprende un'odissea attraverso il naturale e il soprannaturale.
 
Refn confonde sempre. Il suo cinema silenzioso è letale come il taglio di una lama e incisivo come una pugnalata profonda e ipnotico come un sedativo allucinogeno. Luci e neon, un uso esagerato dei colori, una fotografia sontuosa, personaggi e movimenti minimali. Mafia albanese, torture, vendetta, amore, sotterranei terribili, prostitute, spacciatori, killer ed eroine.
La serie sviluppa un’attrazione simile alla trance che sa agire in modo impressionante su corpo, luce e suono, con i dialoghi come sempre ai minimi storici per dare solo qualche informazione che non riesce a veicolare con le immagini.
Tutto sembra quasi una sorta di sinfonia sempre con la morte dietro l'angolo e una forte ambiguità dove non sembra mai esserci una salvezza vera e propria ma solo una necessità salvifica di scappare dalla realtà. Ogni episodio della serie sembra poi svilupparsi in diversi stadi e stati di coscienza dove lo score di Cliff Martinez è godurioso come non mai, libero di serpeggiare tra sintetizzatori e note mortuarie.

domenica 9 ottobre 2022

Speak no Evil


Titolo: Speak no Evil
Regia: Christian Tafdrup
Anno: 2022
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

La famiglia danese composta da Bjørn, sua moglie Louise e la loro piccola figlia Agnes, durante una breve vacanza in Toscana, fa la conoscenza di un'altra famiglia olandese: Patrick, la moglie Karin e il loro piccolo Abel. Rientrati in Danimarca, Bjørn e Louise ricevono una lettera d'invito da parte di Patrick e Karin, per trascorrere un week-end come loro ospiti in Olanda. Inizialmente incerti, decidono di accettare. Giunti a destinazione, dopo un incontro cordiale, alcuni atteggiamenti di Patrick e Karin mettono a disagio Louise, al punto che la coppia poche ore dopo decide di ripartire, in piena notte, senza avvisare.

Speak no Evil è un pugno nello stomaco di quelli così forti da toglierti il respiro e lasciarti a terra ad annaspare rimanendo in apnea per decine di secondi. E' un film con uno dei finali più sporchi, meschini e cattivi che seppur nella sua semplicità, nel cosa in fondo vuole comunicare, usa un meccanismo di scene tali da irretire e obnubilare protagonisti e pubblico.
Il segreto del film è la scrittura e ancora una volta lo fa indagando l'animo umano e le sue sfaccettature per quanto possa essere il mostro peggiore di tutti in ogni sua forma e diramazione.
Per questo al pari di FUNNY GAMES colpisce proprio perchè attacca le nostre sicurezze, le smonta e le destruttura sfinendoci e umiliandoci, provando una tale empatia e una tale verità in quanto accade e come viene narrato da lasciarci frastornati e ammutoliti.
Uno dei calvari più tosti e grotteschi visto negli ultimi anni, un film che devasta ogni tipo di speranza e dimostra come in alcuni casi non possa esistere un happy ending e di come il male non cesserà mai di esistere, di come sia pericoloso parlare con gli sconosciuti e di come ancora una volta accettare un invito possa compromettere la stessa esistenza, la propria e di chi ti sta vicino.

lunedì 16 agosto 2021

Riders of Justice


Titolo: Riders of Justice
Regia: Anders Thomas Jensen
Anno: 2020
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Un militare deve tornare a casa dalla figlia adolescente dopo che sua moglie muore in un tragico incidente

Apparentemente Riders of Justice potrebbe sembrare il tipico revenge-movie. In realtà seppur prendendo quella strada, il film si rivela un'intensa riflessione sul concetto di vendetta, sulla perdita, sulle variabili e le possibilità che alcuni eventi accadano e molto altro ancora seguendo una logica imprevedibile che lascia sempre lo spettatore a domandarsi cosa mai potrà succedere.
Caratterizza un manipolo di personaggi in maniera perfetta, condisce con dialoghi mai banali e con alcune trovate originali e intense. In più essendo una black comedy riesce ad avere in alcuni momenti quel taglio grottesco e delle scene d'azione intense e violentissime.
Anders Thomas Jensen non è un autore molto prolifico ma quello che prende lo tratta molto bene passando da un genere all'altro come ha dimostrato negli ottimi Men & chicken e Mele di Adamo. Qui siamo di fronte all'ennesimo esperimento che sembra frullare i generi riuscendo a prendersi sul serio e al contempo far ridere sfruttando i suoi attori feticcio parlando in più di bande criminali, rapporti famigliari, rapporti di coppia e amicizia. E poi l'incidente scatenante iniziale è fantastico nel suo assurdo per mostrare come a volte alcuni fatti capitino imprescindibilmente da quello che uno si aspetta puntando tutto sulla causalità e le correlazioni tra gli eventi e la casualità della vita che unisce i diversi esseri umani.

mercoledì 2 giugno 2021

Shorta


Titolo: Shorta
Regia: Anders Ølholm e Frederik Louis Hviid
Anno: 2020
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

I dettagli esatti di ciò che accadde a Talib Ben Hassi, 19 anni, mentre si trovava sotto custodia della polizia rimangono poco chiari. Gli agenti Jens e Mike sono di pattuglia nel ghetto di Svalegården quando la radio annuncia la morte di Talib, facendo esplodere la rabbia repressa e incontrollabile dei giovani del quartiere, che ora bramano vendetta. Così all’improvviso i due poliziotti diventano un bersaglio facile e devono lottare con le unghie e coi denti per trovare una via d’uscita dal ghetto.
 
Di Shorta si è parlato molto bene, forse troppo. La storia dello sbirro bravo e quello cattivo, della periferia pericolosa dove è meglio che le forze dell'ordine non entrino, non sono elementi sconosciuti al genere poliziesco e di recente è riuscito ancora meglio a descrivere il dramma sociale e le implicazioni politiche il bellissimo Les Miserables. Come lì anche qui si parte da un action movie con le squadre pronte a compiere i soliti giri, il poliziotto nuovo che dalla sua deve tenere d'occhio il collega violento e così via fino a prendere in "ostaggio" un ragazzino straniero e fuggire assieme a lui per il quartiere cercando di eludere le gang alla caccia dei poliziotti.
Anche in questo le analogie con il film francese sono pressochè identiche, in questo caso poi il ragazzino viene preso dai poliziotti per aver imbrattato l'auto a differenza di altri criminali che avevano fatto di molto peggio. Forse l'unica vera differenza è l'attualità di un fatto di cronaca che qui ritorna su più piani ovvero la morte del ragazzo sotto custodia delle forze dell'ordine per arresto cardiaco. 
Shorta rende il dramma sociale un thriller palpitante, segnato da fughe, sparatorie, combattimenti e inseguimenti in maniera massiccia e spietata diventando l'ennesimo film di guerriglia di periferia messa in scena in maniera quasi perfetta senza edulcorazione in quello che accade nel quartiere.

martedì 15 settembre 2020

Sons of Denmark


Titolo: Sons of Denmark
Regia: Ulaa Salim
Anno: 2019
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Nella Danimarca di un futuro molto vicino e molto simile al nostro presente, un attentato in una stazione della metro di Copenaghen proietta al governo un nuovo partito ultra-nazionalista, il cui leader Martin Nordahl vuole liberare il paese da tutti i non-danesi. Alla fumosa categoria appartiene di fatto Zakaria, un diciannovenne di origine araba che subisce sulla propria pelle le conseguenze discriminatorie di una retorica vicina al gruppo neo-nazista dei "Figli della Danimarca". Radicalizzato dall'autorevole Hassan, Zakaria viene affidato alla guida taciturna di Ali, che lo addestrerà a portare a termine l'assassinio di Nordahl.

L'esordio di Salim è un film coraggioso a cui manca quell'estro in più nella scrittura che sarebbe stato decisivo e non derivativo come il finale davvero troppo prevedibile.
Un film sulle diseguaglianze sociali, sull'estremismo religioso, sui nuovi fanatismi che purtroppo non sembrano mai dimenticati tornando in auge nei momenti peggiori della storia e così via per un poliziesco intrecciato con tanti drammi sociali e una coralità di personaggi che riescono a essere tutti in parte. I figli di Danimarca sono neonazisti che credono nel rimpatrio forzato, accrescendo l'aura di un leader xenofobo che scherzando coi media non si astiene dal lanciare benzina sull'ideologia musulmana e facendo breccia tra i nazionalisti e non.
Un thriller sicuramente d'impatto nel cercare di fondere comunità e diversità, media e politica e tutti i loro pasticci per confondere cittadini ed elettori, sottolineando elementi importanti come la famiglia (quella di Zakaria con madre e fratello e quella che si andrà a creare con l'indottrinamento)
E'interessante come Salim riesca a metà film a capovolgere la narrazione cambiando punto di vista, abbandonando inizialmente alcuni personaggi per poi tornarci verso il finale e cercando di esprimere tutti i lati oscuri da ogni parte e con ogni sfaccettatura dal punto di vista di Zakaria e Malik. Il primo un diciannovenne frustrato e arrabbiato in un viaggio di formazione verso la radicalizzazione mentre il secondo è il poliziotto Malik catturato tra l'islamismo di cui fa parte e il nazionalismo imposto dai suoi capi.


mercoledì 22 gennaio 2020

Dronningen


Titolo: Dronningen
Regia: May el-Toukhy
Anno: 2019
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Una donna seduce il figliastro adolescente mettendo a rischio la propria carriera e la sua famiglia. Inanellando decisioni fatali che porteranno a un epilogo che non era palesemente costruito nella sua mente.

Nel 2013 era uscito un film canadese Husband che parlava di una maestra che aveva fatto sesso con un suo alunno e sul senso di colpa che diventava un dramma quotidiano per il marito ovvero il protagonista del film. Di pellicole che trattano questa tematica il film ne è pieno ma solo l'indie e il cinema d'autore secondo me hanno tracciato bene alcune coordinate. Il dramma che gira attorno ad entrambi i film è un tema purtroppo sempre più attuale che sta rischiando di diventare quasi una norma, come se la voglia di provare a fare sesso con una donna più matura non fosse uno di quei tabù che tanti rincorrono senza per forza venir definiti perversi.
L'ape regina, la stessa regina assassina di Alice che taglia la testa lasciando prima un aroma di miele che stordisce la vittima, è lo squisito ruolo della protagonista, una bellissima e monumentale Trine Dyrholm che spacca l'obbiettivo con le sue pose e la sua presenza seducente quanto glaciale.
Una donna che salva i bambini abusati e al contempo frustrata e bisognosa di iniziare un gioco in cui è solo lei a condurre le parti verso un finale tragico ed essenziale.
Anne è un personaggio poliedrico che agisce spesso d'impulso senza dare indizi sui suoi intenti e dalla quale ci aspetteremmo più autorevolezza e sobrietà con se stessa. Invece sente che la sua famiglia da favola, le case da sogno e la sua ricchezza sta lentamente invecchiando come il suo corpo e un gioco fatto di seduzioni e di lecito e proibito sembra ringiovanirla di colpo sapendo però bene che Gustav ha un passato complesso e difficile.
Stepmom e manipolazione. La manipolazione con cui conducono il gioco i carnefici e i pedofili e la manipolazione con cui Anne conduce il gioco con il figliastro in un gioco delle parti dove ognuno nasconde e perdona qualcosa all'altro, dai furti nella casa, al pc nuovo dopo aver fatto sesso per la prima volta, tutto in un crescendo che senza diventare mai troppo esagerato, riesce a mostrare la noia che affligge un certo tipo di borghesia.
La verità ci dice il film non è protetta, quando è enunciata da un adolescente, e questo chi può saperlo meglio di Anne che quotidianamente affronta queste tragedie, mentre la bugia pronunciata da un adulto, se manipola l’informazione, se serve per proteggere la propria famiglia, gli ideali e la propria identità, non conosce ostacoli arrivando a distruggere il problema alla base e comportando così delle conseguenze inaspettate come rivela il climax finale.



venerdì 9 agosto 2019

Men & chicken


Titolo: Men & chicken
Regia: Anders Thomas Jensen
Anno: 2015
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Il film ruota attorno a due fratelli, Elias e Gabriel. Alla morte del padre, i due che non sono mai stati molto legati, scoprono dal testamento di essere stati adottati. Malgrado il loro disappunto, Elias e Gabriel sono decisi a scoprire chi sia il loro vero padre e a raggiungerlo sull'isola in cui vive. Ma sull'isola li attenderà una sorpresa. Circondati dagli strani abitanti dell'isola, scoprono uno sconvolgente quanto liberante verità che riguarda loro e le proprie famiglie

A dieci anni di distanza dopo Mele di Adamo Jensen, regista atipico a cui piacciono le storie anormali, spiazza con un mezzo cult destinato ad entrare col botto nella classifica dei più bei film grotteschi degli ultimi anni.
Il perchè è dato dalla storia straordinaria (figli incrociati con rospi, tori e topi nonchè cani) ex mogli lasciate a morire dentro gabbie, un covo di bifolchi su un'isola mai così squallido e interessante e una crew di attori che sanno dare carattere ai personaggi, facendo ridere e lasciando basiti allo stesso tempo. Si ride e molto, è una visione oscena repellente e volgare, si rimane spiazzati e in alcuni casi inebetiti. Ci sono una miriade di elementi interessanti e originali e ancora una volta non ci si capacita di come questo film non sia stato distribuito da noi o se è passato nei cinema sarà stato in sordina per qualche giorno.
Cinema indipendente, atipico, grottesco, che viaggia e spazia tra i generi riuscendo ancora una volta a dimostrare come il bisogno e la capacità di saper scrivere una storia, siano di fatto gli elementi essenziali in un film.
Sembra di vedere l'isola del dottor Muroe o Isola perduta, ma qui gli esperimenti trovati in cantina, cercando di far accoppiare più specie possibili, hanno un che di reale senza mai entrare nella fantascienza ma portando a galla dilemmi di ordine etico.




mercoledì 10 luglio 2019

Domino


Titolo: Domino
Regia: Brian De Palma
Anno: 2019
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Un poliziotto danese vuole vendicarsi dell'omicidio di un suo amico e collega e cerca l'appoggio dell'amante dell'amico deceduto, anche lei poliziotta. L'uomo cui i due danno la caccia è però un infiltrato della CIA che sta cercando di sgominare una cellula dell'ISIS.

Bastano un paio di carrellate e un piano sequenza per indovinare la regia dietro questo interessante thriller di spionaggio che dalla sua cerca di confrontarsi con alcune tematiche attuali.
Domino è stato bistrattato all'unisono da pubblico e critica, senza nessun tipo di riserva ma anzi definendo ormai la capacità del maestro sulla strada del tramonto quando invece la tecnica rimane rigorosa e sinonimo di garanzia.
Sono stati tanti, troppi forse i problemi con la produzione europea denunciata dall'autore che nonostante tutto ha saputo portare a termine un film che a livello di stile, tecnica e prova attoriale riesce a mantenersi più che buono grazie anche ad un buon utilizzo delle musiche nelle scene clou del noir.
Con una produzione problematica e sotto finanziata, l'ultima opera del regista americano è stato girato nell'estate del 2017 ed esce ora in una versione troncata a seguito di una disputa tra De Palma e i suoi produttori.
La lotta dell'Europa contemporanea contro il terrorismo soprattutto dal secondo atto, diventa un'operazione quasi mediatica dove le parti coinvolte si inseguono in maniera innaturale con alcune logiche predominanti disfunzionali o per lo più banali contando che la materia ormai quasi tutti sembrano conoscerla abbastanza bene. Quello che il film poteva fare meglio e che per fretta o per divagazioni della sceneggiatura non ha saputo cogliere, ma il tentativo c'era, era fare una comparazione tra i media e le loro tecniche impiegate. Di come ormai nel 21° secolo la propaganda dell'Isis sembra avere più lo scopo di pensare alle immagini fatte per colpire il pubblico e suscitare paura piuttosto che mostrare i problemi politici e storici che hanno fatto sì che si creassero i gruppi terroristici. Ad un tratto l'indagine perde peso e il resto del tempo i due agenti sembrano passarlo intrattenuti da video su youtube, droni, web cam piazzati sopra le mitragliatrici, etc


mercoledì 20 febbraio 2019

House that Jack Built


Titolo: House that Jack Built
Regia: Lars Von Trier
Anno: 2018
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Usa Anni '70. Jack è un serial killer dall'intelligenza elevata che seguiamo nel corso di quelli che lui definisce come 5 incidenti. La storia viene letta dal suo punto di vista che ritiene che ogni omicidio debba essere un'opera d'arte conclusa in se stessa. Jack espone le sue teorie e racconta i suoi atti allo sconosciuto Verge il quale non si astiene dal commentarli.

Sbaglio o Von Trier sta piano piano diminuendo il tasso di violenza presente nei suoi film.
Sembra un assurdo ma mi sembra proprio che le storie siano sempre più indirizzate sulla descrizione del microcosmo in cui vivono i personaggi e non invece il mondo esterno da cui è meglio stare alla larga. Allora è meglio costruirsi una sorta di tana, di caverna, di rifugio fatto con i corpi delle persone dove nascondersi e raggiungere l'Ade, il centro della terra, il paradiso che forse tutti venerano perchè dimostra di non essere poi così noioso.
Le opere di Lars Von Trier non lasciano scampo. Volente o no, sono esperienza che cambiano, che ti sconvolgono, che ti lasciano qualcosa prima di dilaniarti e poi quando hai smesso di vederle dopo giorni e giorni vengono a bussarti alla porta con l'espressione da pazzo furioso che solo un attore pazzo come Dillon può regalare in questo modo.
Un'opera che si prende i suoi tempi, racconta ciò che vuole come gli pare, non ha nessuna regola da seguire ma si sviluppa con l'umore variabile del suo indiscusso autore centrando il bersaglio.
In un'epoca sempre più promotrice del remake, della mancanza di originalità, dei film fatti per piacere agli stessi registi, per compiacere il pubblico, in anni dove l'estetica ha preso il posto della storia ovvero il cuore del film, abbiamo un Jack post contemporaneo che sfugge ad ogni sorta di decifrabilità per fare semplicemente ciò che gli pare seguendo un suo iter a tratti bizzarro.
I traumi sembrano essere il vaso di Pandora del regista da cui emerge sempre tutto e in quanto tali, bisogna soffermarsi inquadrarli, guardarli attentamente, dando nomi e cercando di analizzarli rimanendo però distanti per non farsi male.
Le opere dell'autore sono dei transfert psicoanalitici, in grado di generare dubbi e paure, di ampliare fenomeni complessi e ridicolizzare i buoni costumi o la morale di una società sempre più senza valori.
Lars Von Trier è uno dei registi più capaci, violenti e complessi della sua generazione. A parte qualche deviazione non sbaglia mai e la risposta è perchè ha molto da dire al di là di come venga recepito da pubblico e critica.
Dimenticavo l'addio di Bruno Ganz in questo film davvero fondamentale
Questo film è straordinario, rigoroso, essenziale, malato, ipnotico, celebrale, stralunato, folle, maniacale, ossessivo, perciò ancora una volta la risposta è: Sì.

sabato 15 dicembre 2018

Guilty


Titolo: Guilty
Regia: Gustav Moller
Anno: 2018
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Asger Holm è un agente di polizia che si è messo nei guai e per questo è stato confinato a rispondere al numero d'emergenza insieme a più anziani colleghi. Vive questo lavoro con insofferenza e agitazione, anche perché l'indomani lo aspetta il processo che deciderà della sua carriera. Quando riceve la telefonata disperata di una donna che dice di essere stata rapita, Asger decide di mettersi in gioco e fare il possibile, fino a scavalcare le regole, per non tralasciare alcuna possibilità. Il suo desiderio di redenzione si incaglia però in un caso che è molto più complesso di quello che sembra e le sue buone intenzioni rischiano di avere effetti controproducenti per sé e per gli altri.

Avete presente quella che forse negli ultimi anni è stata la sfida di diversi registi di girare un film in un'unica location con un attore e un telefono?
Locke in peso minore Compliance. L'esordio di Moller però ha su tutti una marcia in più. L'abilità del regista e dello sceneggiatore è stata in primis quella di ovviare verso il poliziesco che dalla sua riesce sempre a cogliere un intrattenimento maggiore viste le tematiche approfondite e se poi aggiungiamo un dramma famigliare con colpo di scena finale azzeccatissimo, una colpa inconfessabile, una lotta contro il tempo e un attore che ci crede fino alla fine abbiamo risposto a quasi tutte le domande. Un agente che ad un certo punto agisce senza seguire il protocollo finendo per prendere sul personale una vicenda, dove proprio il regolamento impone un certo distacco e una distanza, quando vengono alla luce alcuni particolari inquietanti diventa davvero difficile saper mantenere.
Un racconto minimale e originale che dimostra ancora una volta, è lo farà sempre finchè c'è del talento in giro e soprattutto delle buone idee, che è ancora possibile vedere delle scene di un film senza che siano state girate, solo attraverso le doti attoriali del suo protagonista. Una menzione particolare alla soundtrack dove il sonoro riesce a cogliere tutte quelle sfumature che servono ad ampliare la suspance della vicenda.







domenica 30 aprile 2017

Bridgend

Titolo: Bridgend
Regia: Jeppe Ronde
Anno: 2015
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Sara e suo padre si trasferiscono in una città colpita da un'ondata di suicidi di adolescenti. Quando la giovane si innamora di Jamie, anche lei diventa inspiegabilmente preda della depressione che minaccia di inghiottire tutti.

Bridgend è un film drammatico che tocca un tema attuale (il rituale nei suicidi) prendendo spunto da fatti di cronaca realmente successi. Suicidi in serie, sub cultura, una chat segretissima, una piccola cittadina inglese e il passato che torna sono solo alcuni degli ingredienti che l'esordiente danese Ronde analizza e mette in scena per descrivere un microcosmo difficilissimo e contorto.
Il branco, le sue leggi, la leadership, la giovane protagonista che ritorna nella città d'infanzia, il padre sbirro messo da parte dal gruppo di pari di Sara.
Bridgend è un film anomalo e minimale. Descrive seguendo minuziosamente i suoi protagonisti all'interno di una realtà drammatica da cui non sembra esserci salvezza.
I protagonisti sono membri di una piccola micro comunità nella società e non fanno altro che bere, picchiarsi, scopare e urlare a squarciagola nel bosco per ricordare i loro amici morti.
Una prova d'iniziazione che prevede il sacrificio finale. Il capro espiatorio, Jamie, è la vittima sacrificale, tutto ma proprio tutto sembra venir citato dal regista se non fosse che nel secondo atto perde quasi tutta la sua atmosfera e l'indagine si perde diventando una sorta di meta riflessione su alcune ansie giovanili senza riuscire a trovare originalità e spunti di interesse.
Un film che parte benissimo per poi lasciarsi andare. Un finale solenne quanto prevedibile, sopratutto dal momento che Ronde ama il lieto fine, e una scelta d'intenti che farà storcere il naso a molti ma che in fondo getta le reti per un ottimismo di fondo che andrebbe sostenuto in tempi come questi in cui la fragilità dell'io degli adolescenti in generale ha toccato dei picchi che nessuno pensava possibili.
Con Bridgend, il regista Jeppe Rønde ha investito la sua esperienza di documentarista in un dramma sulla vera storia di una cittadina nel sud del Galles. Ancora oggi, Bridgend viene tristemente associata ai tragici suicidi che hanno avuto luogo lì tra il 2007 e i giorni nostri. Per ragioni ancora inspiegabili, 79 giovani di età compresa tra i 13 e i 17 anni si sono tolti la vita. Rønde affronta l’argomento abilmente.
Dal punto di vista della regia c'è tanta telecamera a spalla, il montaggio e le musiche sono le parti più curate, il cast fa il suo dovere senza guizzi di nessun tipo e la prima e l'ultima scena rimangono le immagini più belle e affascinanti di tutto il film.



sabato 28 gennaio 2017

Shelley

Titolo: Shelley
Regia: Ali Abbasi
Anno: 2015
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Louise e Kasper sono una coppia sposata che è pronta ad avere un figlio, ma Louise scopre con dolore di non poterne avere.
Alla fine la donna, in preda alla disperazione, decide di suggellare un patto con la sua cameriera rumena, Elena, che accetta di portare in grembo il figlio di Louise come madre surrogata in cambio di una grande quantità di denaro . Ma la vita che cresce dentro Elena prende forma troppo velocemente, colpendo la vita di ognuno come una forza maligna pronta a distruggere ogni cosa.

ROSEMARY'S BABY a quasi cinquant'anni dalla sua uscita continua ad essere il punto di riferimento di tutta quella branchia di cinema che tratta il tema della gravidanza e della possessione.
Nell'epoca dei drammi sempre più intimi, Shelley riesce a trovare un prezioso spazio mischiando dramma e orrore legato alla paura della nascita e del travaglio accompagnato ad un lavoro autoriale che sfruttando l'archetipo dell'horror mostra e allarga i confini sui rapporti sociali complessi
Due protagoniste che si dimostrano all'altezza delle parti in particolare Ellen Dorrit Petersen, BLIND, un volto che ha la capacità di perturbare la scena diventando impossibile da dimenticare.
L'altro culturale come strumento per ottenere i propri fini, da un lato la ragazza madre di Bucarest che diventa la madre surrogata, dall'altro la famiglia da preservare, l'invidia, l'incubo di non poter dare alla luce il proprio bambino.
Shelley, un nome emblematico che vorrebbe citare apertamente l'autrice di Frankenstein, ci porta nuovamente in una Danimarca rurale, tra campagne e spazi spogli e solitari, un paese e un territorio su cui ultimamente ci sono stati importanti passi in avanti sul cinema di genere.
Diretto poi da un regista iraniano, il film dalla sua ha una messa in scena lenta e patinata, tanta telecamera a mano, una location, tre attori, un'atmosfera che cerca a dare sempre più ambiguità e mistero alla storia e ancora la natura come paesaggio e come scenario dove consumare il dramma.
L'elemento che funziona maggiormente nel film è proprio l'orrore che lo spettatore percepisce consumandosi lentamente, lasciando sempre una sorta di vaga impressione che da un momento all'altro debba succedere qualcosa di deflagrante. Qui lo spettatore viene colpito maggiormente rendendosi conto della realisticità e della sofferenza legata alle azioni della sua protagonista e dell'attualità per certi versi della tematica trattata.

L'invidia poi nelle sue forme più becere e a volte istintive, fa tutto il resto restituendo al film il dramma e allo stesso tempo uno scontro tra due donne e il loro istinto di sopravvivenza.

martedì 27 dicembre 2016

A Conspiracy of Faith-Il messaggio nella bottiglia

Titolo: A Conspiracy of Faith-Il messaggio nella bottiglia
Regia: Hans Petter Moland
Anno: 2016
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Carl Mørck, un ex detective della omicidi costretto a lavorare sui cold case del Dipartimento Q della polizia di Copenaghen, si ritrova a dover far luce sullo strano caso di un messaggio in una bottiglia a lungo dimenticato in una stazione di polizia nella più profonda Scozia. La prima parola del messaggio è "aiuto", scritta in danese e con il sangue. Mørck e la sua squadra realizzano che proveniva da parte di due fratelli, tenuti prigionieri in una darsena in riva al mare. Individuare chi siano i due, capire perché nessuno ne ha denunciato la scomparsa e scoprire se siano ancora vivi, diventeranno i principali obiettivi di Mørck.

Facendo qualche ricerca sono venuto a sapere che questo A Conspiracy of Faith non è l'unico capitolo bensì il terzo episodio della serie Department Q di Zentropa Entertainments, tratta dai thriller di Jussi Adler-Olsen – il quale ha registrato 207.669 presenze durante il suo weekend di apertura, diventando il primo film locale nella storia a superare le 200.000, ovvero a ottenere il record di incassi in Danimarca, una buona notizia sul cinema di genere e sul noir europeo che negli ultimi anni ha saputo consolidarsi ancor più con titoli scomodi e suggestivi come Treatment con cui questo A conspiracy of Faith ha diverse analogie.
E'un noir danese cupo e sofferto, in cui niente è lasciato al caso. Gli ingredienti del film anche se non del tutto originali riescono a coinvolgere grazie ad una buona scrittura, la rigorosa messa in scena e il cast azzeccato. Ingredienti che fanno sempre breccia nella psiche dello spettatore come i rapimenti di bambini, la corsa contro il tempo, i fanatismi religiosi, un killer che non è il classico stereotipo e via dicendo, fino fascinazioni diaboliche e le ambientazioni costiere contando anche che i paesaggi del nord della Danimarca sono piattissimi
Le atmosfere nordiche è l'ottima caratterizzazione dei personaggi, dalla rodata complementarietà fra la coppia protagonista fino a dei buoni colpi di scena, danno la prova di come questo thriller insolito e inedito in Italia, riesca ad andare al di là del tipico prodotto di genere.






martedì 13 dicembre 2016

What we become


Titolo: What we become
Regia: Bo Mikkelsen
Anno: 2015
Paese: Danimarca
Giudizio: 2/5

L'idilliaca estate dei componenti della famiglia Johansson termina bruscamente quando una violenta epidemia di influenza colpisce mortalmente le persone. Le autorità mettono in quarantena il loro quartiere e ben presto la popolazione è in preda al panico. La situazione ben presto sfugge loro di mano e la famiglia è costretta a difendersi dall'attacco selvaggio di un'orda di assetati di sangue.

La Danimarca si è sempre rivelato un paese fertile per il panorama horror. Quasi tutte opere indipendenti ma in grado di trattare varie tematiche e cercare di ridare enfasi ad alcuni stereotipi del genere come ad esempio l'ottimo When animals dream sulla malattia che va a braccetto con la licantropia oppure il trip pubblicitario sul cannibalismo di Neon Demon.
Mikkelsen sceglie gli zombie, un tema abusato nell'horror e che sembra aver ormai esaurito tutti gli spunti possibili. Il film infatti è molto classico sia come struttura che per l'attenzione a dosare gli elementi gore e vari altri effetti rendendolo meno splatter ma con una peculiare attenzione rivolta alle caratterizzazioni dei personaggi e la lunga distruzione di questa famiglia che sembra uscire dalla pubblicità del Mulino Bianco.
Fino alla metà del film infatti si intuisce che sta succedendo qualcosa ma non si vede affatto, rendendo e aiutando a costruire l'atmosfera e l'ansia che da lì a poco prevarrà su una sorta di home-invasion dove la famiglia cercherà di sopravvivere come può.
Quindi l'horror danese che sembra in tutto e per tutto più un dramma che altro aggiunge uno zombie movie a una tradizione che puntava più su altri sotto filoni dell'horror.
Forse l'unica perplessità è quella legata ai tempi che in un horror possono essere fondamentali o compromettenti. In questo il film paga un'eccessiva descrizione e il lento crescendo di inquietudine domestica fino all'apparizione del primo zombie che arriva a quasi un'ora dall'inizio del film contando che la durata totale è di ottanta minuti.

domenica 18 settembre 2016

Comune

Titolo: Comune
Regia: Thomas Vinterberg
Anno: 2016
Paese: Danimarca
Giudizio: 2/5

Copenaghen 1975. Erik ed Anna, architetto e insegnante lui e conduttrice di TG lei, hanno una figlia adolescente e si trovano ad ereditare una casa molto grande. Anna ha un'idea e spinge il marito ad accettarla: invitare alcuni amici a vivere con loro dando origine a una comune. Ben presto il gruppo si forma e si dà delle regole non sempre rispettate da tutti ma fra riunioni, pranzi e feste di Natale le cose sembrano funzionare. Fino a quando una nuova persona entra nella vita di Erik mutandone le prospettive.

Vinterberg pur essendo un regista danese tra i più famosi e i più interessanti (andatevi a vedere quasi tutti i suoi film) rievoca in forma nostalgica ma anche dura e impietosa, una parte della sua vita vissuta dai 7 ai 19 anni all'interno di una comune.
Era un'altra generazione e ora questa formula di convivenza in tempi moderni sembra essere tornata di moda, più negli altri paesi che nella nostra penisola.
Il regista decide di rievocare quel tempo proprio negli anni della sua esperienza, provando a trarre ispirazione da uno spaccato di verità che però alla fine dei conti è tutto tranne che naturale. Artificiale direi.
Risulta a tratti eccessivamente e singolarmente noioso, prendendo i vari personaggi nonostante alcune ottime performance, e spostandosi su monologhi noiosi e troppo intimisti che però a differenza di altri registi, non riescono a scavare a fondo.
Poi il regista si sofferma solo su alcune coppie e non da spazio a tutti.

I problemi e i dissidi più che interni alla Comune sono esterni, momenti e concatenazioni troppo irritanti e un climax finale che suona quasi ridicolo.

lunedì 18 luglio 2016

My hottest year on earth

Titolo: My hottest year on earth
Regia: Halfdan Muurholm
Anno: 2016
Paese: Danimarca
Festival: Cinemambiente 19°
Giudizio: 3/5

Il 2014 è stato probabilmente l’anno più caldo nella storia del Pianeta. Un meteorologo danese decide di lasciare il lavoro con l’idea di viaggiare intorno al mondo per incontrare coloro la cui vita è cambiata completamente a causa di uno dei recenti eventi climatici estremi. Si parte così dalle Filippine devastate da Hayan, il peggior tifone che si sia mai abbattuto sull’arcipelago, per continuare nell’Inghilterra colpita dalla più grave alluvione degli ultimi settant’anni e giungere in Bangladesh, in cui i migranti per cause climatiche sono milioni. L’ultima tappa è la Florida, dove l’innalzamento del livello del mare mette in serio pericolo uno dei paesi più ricchi del mondo

Muurholm come quasi tutti i registi dei documentari vari che circolano per il Cinemabiente o i vari festival, è il protagonista narrante delle vicende. Gira e studia, osservando e monitorando i cambiamenti climatici ponendo spesso domande ai singoli cittadini per fare delle comparazioni rispetto agli ultimi anni e gli incidenti che si sono verificati.
E'un mediometraggio scioccante e di attualità che ancora una volta sottolinea l'emergenza climatica in atto e ormai quasi impossibile da bilanciare.
Il dato certo è che tutti questi fenomeni non riguardano solo più i paesi del terzo mondo ma stanno mandando in cancrena ormai tutte le aree geografiche del mondo.

venerdì 20 febbraio 2015

When Animals Dream

Titolo: When animals dream
Regia: Jonas Alexander Amby
Anno: 2014
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Marie, single, giovane e bella, vive con i suoi genitori in un remoto villaggio di pescatori sulla costa occidentale della Danimarca. Sua madre è costretta su una sedia a rotelle e al silenzio a causa di una malattia sconosciuta, un mistero familiare, questo, che il padre si rifiuta di spiegare alla figlia. Ma presto la giovane sviluppa sintomi strani e mentre si sta pure innamorando, scopre di aver forse ereditato dalla madre la “malattia” che la sta portando ad una trasformazione spaventosa generatrice di paura e odio negli abitanti del villaggio

Peccato. Un’occasione sprecata quando le basi per fare un bel film c’erano tutte.
Il problema dell’opera prima del regista presentato a Cannes, è quello, pur con una storia interessante, in cui la licantropia è una sorta di conseguenza legata a disturbi del sangue o di malattie sconosciute, di procedere con una narrazione lineare troppo stereotipata, in cui davvero quello che manca più di tutti sono proprio i colpi di scena.
Se da un lato il cast, le location, la fotografia e l’atmosfera, rendono il film davvero apprezzabile, lo stesso non si può dire per lo script, debole e troppo prevedibile. 
La metafora e la critica che forse stavano più a cuore per Amby, ovvero una società colta nelle reazioni alla paura dell’altro e in una fantomatica caccia alle streghe (prima la madre e poi la figlia), non riescono mai ad essere così incisive come ci si sarebbe aspettati, rendendo ancora più convenzionali alcune scelte narrative.
E’un film cupo e violento, elegante e che prende in prestito l’horror per raccontare in fondo un dramma sociale, ma alla fine pur con una minimalità che ho trovato esteticamente toccante, il film è davvero troppo prevedibile.

sabato 14 febbraio 2015

Mele di Adamo

Titolo: Mele di Adamo
Regia: Anders Thomas Jensen
Anno: 2005
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Adam, neonazista appena uscito di prigione, deve trascorrere un periodo di recupero in un vicariato di campagna, sotto la tutela di Padre Ivan, curioso e inquieto parroco protestante. Dovendo indicare un obiettivo finale della sua permanenza, Adam dichiara di voler realizzare una torta di mele con i frutti di un albero che cresce vicino alla chiesa.

L'essenziale è invisibile agli occhi vorrebbe poter dire Padre Ivan anche se è lui stesso per primo a non distinguere in modo lucido la realtà. Le mele di Adamo, primo lungometraggio dello sceneggiatore di NON DESIDERARE LA DONNA D’ALTRI, è una riflessione e una lunga analisi, che traspare quasi tutta da importanti dialoghi tra due individui apparentemente inconciliabili, sul potere della fede o meglio di come la fede viene strumentalizzata dai suoi “servitori”.
Un film in cui i corpi si prestano a una lunga battaglia che se da principio sembra vedere vittima e carnefice, man mano diventa più complesso e metafisico, storpiando solo in alcuni momenti la realtà e inserendovi degli elementi assolutamente irreali o poco chiari, in cui a pagarne le spese più grosse è purtroppo il climax finale che non riesce ad essere in linea con il resto del film.

La provocazione iniziata da Padre Ivan che poi si sposta su di lui da parte di Adam, non si riduce alla manicheistica questione se il male provenga da Dio o da Satana, invece la possibilità di scelta che ci riguarda tutti, tendando di sopravvivere ignorando la realtà (Ivan) oppure cominciando a guardarla con altri occhi (Adam), e in tutti e due i casi affidandosi ad un sistema simbolico organizzatore di senso (che vale per la religione come per le ideologie).

Dopo il matrimonio

Titolo: Dopo il matrimonio
Regia: Susanne Bier
Anno: 2006
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Jacob vive da molti anni in India, dove ha iniziato e abbandonato diversi progetti di volontariato, è stato lasciato dalla donna che amava e ha disperatamente tentato di sfuggire alla sua condizione di alcolizzato e dimenticarsi della sua anima perduta. Costretto a tornare in patria per ottenere una cospicua donazione che gli permetta di continuare a occuparsi dell'orfanotrofio dove si è ritagliato il ruolo di buon samaritano, Jacob ritroverà un pezzo del suo passato che inevitabilmente gli cambierà la vita.

Certo la Bier è una di quella registe da tenere sott’occhio per diversi motivi. A parte il fatto d’essere la regista più celebre della Scandinavia, sicuramente è una a cui piace raccontare piccole storie personali, tragiche e commoventi, che cercano sempre più di apportare alcuni importanti tasselli e soprattutto di convergere verso uno stile proprio riconoscibile dopo pochi film.
Con un cast notevole in cui brilla Mikkelsen e Lassgard, cambi di location, un’attenzione in particolare per gli sguardi e i silenzi che nascondono monologhi e forti sentimenti, la Bier ancora una volta con astuzia mischia le carte del melodramma per un’idea in realtà molto semplice e ingannatrice, con alcune forzature per dare maggior enfasi al climax finale del film.
Continua nella ricerca tra paesaggi e attori, il bisogno della regista di mostrare le incompatibilità umane, adulti che si comportano e atteggiano peggio dei figli, doppi giochi e una paura di perdere le persone care. Partendo e ritornando a Mumbai coi Sigur Ros, la Bier torna sui suoi temi cari allargandoli dalla paternità, alla famiglia, all’amore, alla responsabilità e infine il sacrificio ma interpretandolo in modo diverso e maturo, un elemento intrinseco nelle vite e nelle scelte di tutti.
E lo fa ancora una volta con quel suo stile teso, debitore in parte di una scuola europea del caro Lars, usando molto la telecamera a spalla con uno stile nervoso, che punta molto su primi e primissimi piani che rivelano difetti del volto e sentimenti pronti a esplodere.

L’elemento comunque che si apprezza di più e la scelta di puntare sui sentimenti senza però essere sentimentale e retorico, ma anzi a testa alta,  far vedere dei personaggi che nonostante gli errori e le scelte sbagliate, continuano a portare avanti i loro obbiettivi.