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martedì 20 dicembre 2022

Pleasure


Titolo: Pleasure
Regia: Ninja Thyberg
Anno: 2021
Paese: Svezia
Giudizio: 5/5

Quando la 19enne svedese Linnéa arriva a Los Angeles è convinta di avere le idee chiare: diventerà una star del cinema porno, con il nome d'arte Bella Cherry, e avrà fama e ricchezza. Ma la carriera che le si para davanti non è quella che si era immaginata: non basta essere bella, pragmatica e disinibita, bisogna anche pagare il prezzo ad un'industria dominata e gestita da uomini che non solo impongono il loro sguardo alle "attrici", ma riservano anche un trattamento comprensivo di umiliazioni e violenze che a poco a poco smettono di essere giustificatbili come "recitazione", o peggio ancora come "arte". Dunque a Linnéa toccherà decidere del proprio futuro alla luce delle nuove conoscenze apprese sul campo, e con dolore.
 
Corpi, corpi e ancora corpi. L'esordio di Thyberg senza usare mezzi termini è un capolavoro.
"Il film" sul mondo della pornografia contando che una tematica simile non è quasi mai stata affrontata nel cinema se non attraverso i documentari di AFTER PORN ENDS o brevi intromissioni come il film su John Holmes o la commedia di Paul Thomas Anderson.
Qui c'è quella che inizialmente vorrebbe essere per Linnèa una salita ma diventa giorno dopo giorno una discesa disperata all'inferno dell'industria pornografica vista come una realtà fredda e anonima. Il film testimonia come il voler diventare una ragazza "Spiegler" richieda lo smembramento emozionale di se stessi dalla rinuncia all'identità di genere, riflettendo un sociale privo di illusioni, alla sottomissione ad una gerarchia maschile e quanto è più che mai può diventare sofferto l'accesso alla fama, dove bisogna aumentare il volume dei follower acconsentendo alla mercificazione del proprio corpo abbandonandosi a scene degradanti pur di essere presi in considerazione.
Un film anticonformista che non lesina su nulla senza diventare mai gratuito o cercando di essere stucchevole ma rimanendo un'indagine intelligentemente originale e innovativa.
Alla fine nell'epilogo finale (una scena importantissima dentro la limousine) arrivata al culmine Linnèa fa la scoperta forse più semplice è scontata della sua carriera per cui sa benissimo che non avrà mai nessun potere, nemmeno su se stessa, diventando niente più che un corpo da sacrificare all'industria e allora prende la sua decisione


domenica 20 novembre 2022

Triangle of Sadness


Titolo: Triangle of Sadness
Regia: Robert Ostlund
Anno: 2022
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Carl e Yaya, una coppia di modelli e influencer, sono invitati su uno yacht per una crociera di lusso. Gli eventi prendono una svolta inaspettata quando si abbatte una tempesta e mette a rischio il comfort dei passeggeri.
 
Triangle of Sadness è la dimostrazione del talento e soprattutto della furbizia di Ostlund che con FORZA MAGGIORE e SQUARE aveva già fatto capire la sua politica d'autore con opere ambiziose e complesse.
Quello che per fortuna non ha mai abbandonato la sua poetica e visione d'intenti è una certa ironia drammatica, giocando con quel senso del grottesco che in questo film, la sua opera più complessa e sontuosa, raggiunge il punto più alto.
Il film può tranquillamente dividersi in due capitoli quello sulla nave e quello sull'isola prima del climax finale così come della parte introduttiva per mostrarci il casting e questa giovane coppia di modelli ad inseguire un conceto estetico e una filosofia dove i soldi e la bellezza regolano i rapporti di potere, dove si discute di soldi ad un tavolo del ristorante e dove il concetto di bellezza e fedeltà è sempre discutibile arrivando a squalificare dalla nave un bagnino semplicemente perchè gira a petto nudo e incappa nello sguardo della disinibita Yaya.
Un film per certi aspetti meno complesso dei precedenti, più goliardico forse, più esasperato e prolisso che continua a proporre una galleria di gag alcune d'impatto ed estremamente incisive mentre altre tendono a ripetersi senza misura. Una riflessione sulla ricchezza e sul denaro, sul vendersi, svendersi e concedersi per frivolezze e infine la rivincita degli oppressi. Una metafora sul condizionamento sociale determinato dal denaro che in alcuni casi cerca e vuole essere ammutinato come nel caso del capitano alcolista, un raro americano socialista in mezzo agli europei, che lascia affondare la barca mentre farfuglia di socialismo, capitale, mezzi di produzione.

venerdì 4 febbraio 2022

Blood Paradise


Titolo: Blood Paradise
Regia: Patrick von Barkenberg
Anno: 2018
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

In difficoltà dopo il flop del suo ultimo romanzo, la scrittrice di best-seller di genere crime Robin Richards viene inviata dal suo editore nella campagna svedese per ritrovare l’ispirazione. Lì, da sola, incontra un assortimento di personaggi peculiari, tra cui il suo autista e il suo fan più ossessivo, la moglie incredibilmente gelosa e l’uomo progressivamente più sconvolto che possiede la fattoria di cui è ospite. Totalmente fuori posto nel suo nuovo ambiente – ad esempio, è sempre vestita per la vita glamour della grande città – Robin scopre quanto pericolosi possano essere questi strani tizi.
 
Blood Paradise fin dalla scena iniziale propone un certo tipo di cinema indipendente coraggioso e pieno di idee con una protagonista esageratamente attraente e tutti i topoi di genere che lo rimandano ad un thriller, una dramedy con tinte grottesche, attimi di non sense, personaggi assurdi che sembrano usciti da un Polanski allucinato con il suo CHE?.
Blood Paradise è fresco e vitale come i luoghi che assapora, le campagne immerse nella natura in una Svezia quanto mai insolita con paesaggi magnifici popolati da bifolchi e perversi di ogni natura.
Un film che rincorre una certa idea di cinema di genere, dove i cambi repentini sono una scelta che Barkenberg segue pedestremente come il cambio di vita tra la grande città e la campagna, il lusso e la vita quotidiana contadina. Tutto questo porta la razionalità di Robin a esplodere mano a mano che i personaggi attorno a lei sembrino volerla possedere a tutti i costi.
Ironico, con scene e sequenze indimenticabili, con alcuni grossi passi falsi nel terzo atto dove viene aggiunto tanto, troppo, soprattutto con delle scene "torture" che a conti fatti non hanno molto senso e non danno polso aggiungendo poco e male alla storia.
Un film misteriosamente sconosciuto che spero venga, come molti suoi simili, distribuito il prima possibile.

mercoledì 2 giugno 2021

Koko di koko


Titolo: Koko di koko
Regia: Johannes Nyholm
Anno: 2019
Paese: Svezia
Giudizio: 3/5

Una giovane coppia perde la propria bambina di 8 anni in seguito ad una reazione allergica, proprio nel giorno del suo compleanno. Per l’occasione le avevano regalato un carillon che non avrà mai la fortuna di scartare.
 
Koko di koko è un altro film a tratti bizzarro sfruttando l'elemento spazio temporale come un vortice di umiliante terrore psicologico. Scopriamo questa coppia disfunzionale (soprattutto lei) che in seguito alla perdita della bambina dopo tre anni decidono di andare in campeggio in un posto osceno nel mezzo del nulla senza nemmeno aver ben chiaro come mai siano finiti lì.
E da qui o da lì inizia il calvario, l'inferno dove un triangolo composto da due bifolchi e un vecchio intrattenitore giorno per giorno umiliano la coppia uccidendoli in modi diversi. Nyholm trasforma un horror anche se sembra più grottesco e onirico ( come la dissolvenza a disegni composta da un trio simile a ornamento di un carillon che una bambina osserva da una vetrina) rispetto a un horror vero e proprio con disamina sul disagio sociale cercando di rappresentare e dare una metafora della perdita rappresentandola come un orrore ancestrale. Il tempo diventa un'arma scaraventando i suoi personaggi in un loop, al fine di esplorare il dolore in tutti i suoi terribili aspetti e ondate di disagio senza fine. In uno scenario da incubo che si ripeterà sei volte con alcune variazioni, come altrettante reazioni dell'inconscio (impotenza, senso di colpa, solitudine, ecc.) murati nel loro isolamento Nyholm cerca in tutti i modi di non farci empatizzare con i protagonisti, anzi facendoceli odiare, come una delle scene più forti quando Tobias dalla sua tenda guarda le torture alla moglie rimanendo impassibile senza fare nulla.

giovedì 26 dicembre 2019

Aniara


Titolo: Aniara
Regia: Pella Kågerman e Hugo Lilja
Anno: 2018
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Un'astronave che trasporta dei coloni su Marte viene buttata fuori rotta, costringendo i passeggeri ossessionati dal consumo a prendere in considerazione il loro posto nell'universo.

Dalla Svezia arriva uno sci-fi low-budget di quelli che non si dimenticano. Un vero viaggio nell'orrore, un film di un enorme impatto emotivo in grado di metterci di fronte tutte le paure sopite di fronte allo spettacolo e le incognite dell'universo. Un film disturbante e inquietante, rivelatore di un dramma profetico per l'attuale situazione in cui stiamo vivendo fregandocene del domani ma insistendo a distruggere il presente.
Un film carico di incertezze e di pessimismo cosmico che non regala nulla, senza dover fare ricorso a sensazionalismi o happy ending astuti per mettere d'accordo il pubblico. Qui la profezia è quella dell'autodistruzione, di un universo in cui sguazzare dove perdiamo completamente le nostre coordinate, azzerandoci e costretti a reinventarci attraverso pratiche, filosofie, religioni, orge, esecuzioni. Dove basta un incidente improvviso, un cambio di rotta, una fuga dal nostro idilliaco paradiso per far sì che la situazione possa degenerare nella violenza, nella perdita dei valori e di ogni inibizione. Visto che bisogna morire in una zona remota da cui è impossibile tornare indietro tanto vale lasciarsi andare in una sfrenata ricerca del piacere passionale e di ogni gratificazione possibile.
Un astronave che si perde in una rotta che sembra non finire mai, un giro attorno ad un pianeta senza poter mai attraccare, una parabola della morte, della filosofia dell'ansia che non accenna mai a fermarsi facendoci sprofondare in un limbo di psicosi.
“Aniara” nome di un poema fantascientifico scritto nel 1956 dallo svedese Harry Martinson (futuro Premio Nobel per la letteratura) si divincola dagli altri film sci-fi moderni, scegliendo una rotta più estrema, azzardando un discorso molto realistico per un ipotetico futuro, scegliendo infine una deriva claustrofobica e nichilista che sembra sondare perfettamente lo stato d'animo di alcuni passeggeri, del capitano, della protagonista e della fuga dalla realtà dove le persone possono rivivere le esperienze avute sulla terra dimenticando così l'imminente morte sul'astronave.




domenica 27 ottobre 2019

Draug


Titolo: Draug
Regia: Karin Engman e Klas Persson
Anno: 2018
Paese: Svezia
Giudizio: 2/5

Trama: Svezia, XI° secolo. Un missionario è scomparso nella sinistra foresta di Ödmården e il re invia una squadra di soccorso per cercarlo. Tra i soldati c’è anche Nanna, una giovane donna alla sua prima missione che, rimasta orfana in tenera età, è stata allevata dalla guardia del sovrano. Una volta addentratasi nella fitta foresta insieme agli altri guerrieri, la donna scoprirà che il luogo è in realtà la casa di tenebrose presenze.

Folk horror o horror mitologici. Negli ultimi anni questa tipologia sta tornando in auge da un lato con grosse produzioni (Aster) dall'altro con tanti registi emergenti che provano a cimentarsi con il genere spesso narrando qualche leggenda locale.
Draug significa morto vivente, in questo caso donne, streghe, con in più poteri particolari.
Questo oscuro personaggio viene definito anche con la parola aptrgangr che, tradotto, significa "colui che cammina dopo la morte". Il significato originale del termine era "fantasma": queste creature - che, al plurale, assumono la denominazione di draugar - vivevano nelle tombe dei Vichinghi, diventandone il corpo, secondo quanto credevano i popoli scandinavi. Se un draug era presente in una nicchia, lo si poteva capire a causa di una luce che brillava proprio dal tumulo, una sorta di separatore tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Un Draug, dunque era una entità dalla forza incredibile e dotata di poteri magici che permettevano all'essere di ingrandirsi e rimpicciolirsi a sua discrezione: su di essi era impresso l'odore della decomposizione. Potevano cambiare forma, manipolare il meteo e predire il futuro.
Ora a me spiace per la coppia di registi ma Draug ha tanti difetti nonostante le premesse e alcuni sforzi siano palesi. Partiamo dalla fretta con cui il film è stato girato e si vede, l'improvvisazione di alcune scene, una c.g pessima che nei combattimenti e soprattutto nel trucco dei Draug e in particolare della strega che assale Nanna negli incubi è davvero tremenda senza contare tutti gli scatti con cui le Draug si muovono che ricordano parecchio i j-horror. Cercare a tutti i costi l'esagerazione comporta come in questo caso un abbrutimento soprattutto in quello che doveva essere il vero protagonista del film ovvero queste strane creature e tutta la mitologia che sta dietro.
Con un finale inaspettato e interessante, Draug purtroppo se non fosse per alcuni problemi di tecnica e realizzazione aveva dei buoni spunti vanificati purtroppo anche dagli stessi Draug che non vengono per niente valorizzati e su di loro non si sa quasi nulla.
Un film che come Hagazussa sembra girato con due lire, ma dove in quel caso la strega faceva davvero paura e il cast era decisamente migliore, qui gli attori cercano di mettercela tutta e infine anche il ruolo della protagonista passa in secondo piano, i suoi obbiettivi come altri punti della sceneggiatura sono piatti, relegando tutte le caratterizzazioni ad un accenno senza mai esplorare un po di più le storie.


mercoledì 5 giugno 2019

Fucking Amal


Titolo: Fucking Amal
Regia: Lukas Moodysson
Anno: 1998
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Ad Amal (si legge “Omol”), noiosissimo centro della provincia svedese, vive con la madre e la sorella la bella Elin, quattordicenne insofferente molto ambita dai compagni di scuola che lei però disprezza. Elin passa il suo tempo cambiando spesso ragazzo (alimentando così le maldicenze sul suo conto), sognando rave parties e progettando la fuga dalla “merdosissima Amal” . Una sera finisce per caso alla triste festa di compleanno di Agnes, solitaria ragazza in costante stato di crisi che ha per unica amica una perfida ragazzina paraplegica. A complicare le cose ci sono il travagliato rapporto con i genitori e l’amore segreto per Elin, la quale a sua volta scoprirà di non poter rimanere indifferente.

Fuckin Amal per me rimarrà un film importantissimo come lo è stato CHRISTINA F. per certi aspetti pur essendo meno drammatico e crudele con i suoi protagonisti ma ponendosi come ennesimo manifesto del disagio giovanile in paesi dove il suicidio è tra i più alti al mondo.
Cosa si può fare ad Amal a parte seguire le norme imposte dai genitori e andare a scuola come tutti i coetanei? Bere e drogarsi oppure provare nuove esperienze per non cadere vittima di una depressione assicurata.
L'esordio alla regia di uno dei maestri del cinema svedese post contemporaneo è uno dei più freschi manifesti, attuali, incredibilmente svegli e al passo coi tempi. Il regista urla disperatamente come lo è stato d'altronde tutto il suo cinema a venire (importantissimo), un bisogno di comunicare di sfogarsi, usando le sue protagoniste come vittime di una società e di una comunità che non investe assolutamente su di loro pensando ai propri tornaconti e dimostrandosi di un egoismo senza pari.
L'esordio di Moodysson è già chiaro come anticipatore di messaggi sociali, di un cinema politico e aperto alle differenze, monitorando aspetti poco comuni o che forse non sembrano interessare a molti. Con i suoi film e i suoi documentari, il regista ha fatto parecchio discutere di sè, prediligendo contesti a volte spiazzanti ed estremi come il bellissimo A Hole in my heart oppure omaggiando il punk femminile anni '80 con il divertentissimo We are the beast



giovedì 18 aprile 2019

Border



Titolo: Border
Regia: Ali abbasi
Anno: 2018
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Tina ha un fisico massiccio e un naso eccezionale per fiutare le emozioni degli altri. Impiegata alla dogana è infallibile con sostanze e sentimenti illeciti. Viaggiatore dopo viaggiatore, avverte la loro paura, la vergogna, la colpa. Tina sente tutto e non si sbaglia mai. Almeno fino al giorno in cui Vore non attraversa la frontiera e sposta i confini della sua conoscenza più in là. Vore sfugge al suo fiuto ed esercita su di lei un potere di attrazione che non riesce a comprendere. Sullo sfondo di un'inchiesta criminale, Tina lascia i freni e si abbandona a una relazione selvaggia che le rivela presto la sua vera natura. Uno choc esistenziale il suo che la costringerà a scegliere tra integrazione o esclusione.

Border è quel film che non ti aspetti. Un esperimento che attraversa più generi narrativi, il thriller, il fantasy, l'horror metafisico, cercando al tempo stesso di non perdere mai la sua forza e portando in scena diversi temi ( la diversità, il confine tra umano e sovrannaturale che si assottiglia a tal punto da non riuscire più a distinguere specie e genere, ma anche in parte il folklore locale) e diverse scene originali che visionando più di 4000 film non mi era mai capitato di vedere.
Siamo dalle parti di Alfredson ma anche della polacca Smoczyńska.
Esseri che dominavano questa terra, superstiti, una specie ormai in via d'estinzione che cerca di sopravvivere nascondendosi, una forza sovra umana, un olfatto in grado di sentire una micro sd contenente materiale pedo pornografico, i sessi ribaltati (la scena in cui lei ha un'erezione e penetra lui è assurda) e tanto altro ancora.
Trovare un film che riesca in quasi due ore a tenerti incollato allo schermo nel 2019 non è facile. Abbadi dopo Shelley ci riesce scommettendo su un film insolito, scomodo, con due protagonisti che sono in realtà due troll che scelgono per non vivere in solitudine di dividere appartamenti con bifolchi (Tina) o evitare proprio la specie umana perchè inferiore (Vore)
Verso la fine del secondo atto probabilmente si sono fatti prendere la mano perchè se è pur vero che un tema come quello del giro di pedofili risulta essere un espediente sempre efficace (vedi You Were Never Really Here) rischia come in questo caso di pagarne gli effetti su alcuni espedienti e scelte di scrittura poco efficaci (Vore che lavora per questa rete di pedofili e al contempo nasconde feti nel frigo di altre specie ancora) sembra voler essere troppo ambizioso.


martedì 20 marzo 2018

Sami Blood


Titolo: Sami Blood
Regia: Amanda Kernell
Anno: 2016
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Elle Marja ha 14 anni ma sa già di non voler seguire le tracce della famiglia. Figlia di allevatori di renne della comunità Sami nell'estremo nord svedese, la ragazzina è vittima della discriminazione etnica degli anni '30. Sottoposta alla certificazione della razza per frequentare la scuola riservata solo ai Sami, Elle Marja sogna una vita migliore in cui non sentirsi più diversa. Così, inizia a farsi chiamare Christina, a parlare svedese, trasferirsi in città, allontanandosi sempre più dalla sua famiglia e dalla cultura della sua gente.

Sami Blood è un istant cult. Uno di quei film indipendenti e di rara bellezza che ti rapisce fin da subito per traghettarti verso dei luoghi sconosciuti e ameni di quelli che forse non vedrai mai nella vita ma che almeno vuoi scoprire grazie al cinema.
Un film antropologicamente molto importante che da la possibilità di parlare di un fenomeno che almeno in Svezia ha fatto discutere molto. Sami Blood ci da la possibilità di conoscere una popolazione quella dei Sami (indigeni lapponi) e di scoprire come la discriminazione etnica è un tema presente in tutto il mondo pure nella parte europea più estrema.
Un flash back lunghissimo per un viaggio della memoria che racconta molto più di quello che sembra senza doversi arrovellare dietro troppi dialoghi ma lasciando spesso in risalto le espressioni dure e sofferte di alcune attrici scelte alla perfezione che riescono a dare il giusto risalto soltanto mostrando le loro cicatrici di vita.
Sami Blood è un'altra se vogliamo metafora del western, uno scontro, quello che il cinema non smette mai di fare, tra wilderness e civilisation.
Bisogna ricordare che nel 1909 fu fondata a Stoccolma la Società Svedese per l’Igiene razziale che, basandosi su analisi di tipo antropologico positivistico, identificava nella minoranza etnica Sami (a noi più comunemente nota come lappone) una razza inferiore. I Sami furono relegati da una parte in confini ben precisi, furono sottoposti dall’altra a processi di ‘svedesizzazione’ forzata, orientati all’annientamento della loro cultura tradizionale. Chi tra i Sami volesse integrarsi acquistando o affittando terreni agricoli o proseguendo l’elementare istruzione offerta loro (tagliata espressamente per le loro presunte limitate capacità), era costretto a cambiare identità, assumendo un nome svedese. Contemporaneamente coloni svedesi furono incentivati in vari modi a spostarsi in territorio sami, sempre nell’ottica di una violenta compressione di questa minoranza. Una legge per la selezione della razza (1935) portò addirittura alla sterilizzazione forzata di migliaia di Sami. Orrori di cui sappiamo poco o niente.



mercoledì 15 novembre 2017

Alena

Titolo: Alena
Regia: Daniel Di Grado
Anno: 2015
Paese: Svezia
Giudizio: 3/5

La vita di Alena è tutt'altro che facile. Dal minuto in cui arriva nella sua nuova scuola, Filippa e alcune delle altre ragazze si divertono a prenderla di mira incessantemente. Josefin, la sua migliore amica, non sopporta di vederla soffrire e si prepara a prendere misure drastiche, nonostante sia morta da oltre un anno.

L'esordio di Di Grado è un adattamento di un celebre graphic novel di Kim W. Andersson oltre che essere un piccolo horror indie che tratta molti argomenti. Dal bullismo in questo caso femminile "ben peggiore di quello maschile", alla competizione, alla bisessualità, alla paura di rivelarsi per ciò che si è veramente. Con un bel piano sequenza il regista ci mostra questo nuovo collegio dove Alena sembra già dall'inizio nascondere un segreto spaventoso.
Pur non avendo molti elementi originali, il film regge per un buon impianto di suspance e un'atmosfera che grazie ad una buona fotografia riesce a trovare alcuni jump scared interessanti.
Un film dove la recitazione non è mai sopra le righe e riesce a scorgere alcune caratterizzazioni interessanti che sanno dare spessore al personaggio. Il flashforward iniziale non è male ma diventa prevedibile alla fine del primo atto e il climax finale anche se arriva come un pugno allo stomaco è abbastanza telefonato.
Bella e originale nei titoli di coda, l'idea di continuare a lasciar recitare l'amica della protagonista. Ancora una nota sul fenomeno del bullismo trattato nel film, bisogna ammettere che la scrittura è riuscita a non rendere banale questo fenomeno ma incastrarlo in una fitta rete di personaggi facendo scontrare la giovane mentalità adolescenziale borghese con la regola imposta dalla preside e altri personaggi che costruiscono la galleria funzionale dove far combaciare le storie.
Infine il personaggio di Josefin sembra esssersi ispirato ai J-horror nipponici ma ricorda anche l'horror inglese, sotto certi aspetti, NINA FOREVER.



domenica 20 dicembre 2015

Forza Maggiore

Titolo: Forza Maggiore
Regia: Ruben Ostlund
Anno: 2015
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Tomas e Ebba sono i genitori di Vera e Harry. Tomas lavora molto, dunque questa vacanza sulle Alpi, hotel di lusso e giornate dedicate allo scii tutti insieme, parte con grandi aspettative. Ma accade un imprevisto. Mentre siedono per pranzo ai tavoli all'aperto di un ristorante panoramico, una valanga si dirige a grande velocità verso di loro e pare destinata a travolgerli. L'istinto di Tomas è quello di mettersi in salvo il più in fretta possibile, l'istinto di Ebba è quello di proteggere i figli ed eventualmente morire con loro. La valanga si arresta prima e i quattro rientrano sani e salvi. Ma qualcosa nella coppia si è incrinato ed è una crepa che è destinata ad aprirsi sempre di più.

"Ha preso i guanti e l'iphone" questa potrebbe essere la log-line del film, la frase che meglio lo sintetizza e che Ebba non si stanca di far notare a Tomas come a volerlo etichettare di un egoismo primordiale.
Un film minimale, astuto, con dei dialoghi eccessivamente monotoni e una location fantastica che riesce a far emergere i contrasti tra la vita borghese e la difficoltà a gestire una relazione e a sapersi prendere delle responsabilità. L'ultimo film di Ostlund è disturbante che mette al muro e mina profondamente alcune certezze maschili.
Nessuno dei due per certi aspetti ne esce fuori bene.
Lui sbaglia e preferisce mettere tutto a tacere, lei invece ha bisogno di affondare la lama e cercare spiegazioni sul gesto del marito parlandone con tutti quelli che li circondano dal momento che se l'uonione fa la forza i non detti rischiano di degenerare velocemente.
La suggestione di un incidente scatenante diventa il motore con cui la sceneggiatura trova un binario da sfruttare al massimo. In questo forse i rimandi ad un certo cinema di Bergman ci sono soprattutto nel mettere a nudo le pulsioni profonde dell'uomo a differenza della donna.
Incompatibilità, noia e stress sono elementi che nel film tornano praticamente sempre, sottolineati da alcuni elementi come il lavaggio dei denti e la cura minimale prima di indossare gli sci e iniziare le discese lungo le piste nonchè l'ordine a tavola.
Ostlund, un talento svedese che sembra sfruttare al meglio alcuni strumenti ed elementi del cinema,
è rimasto colpito dai risultati di una serie di ricerche che osservavano un incremento dei divorzi nelle coppie sopravvissute ad un'esperienza fortemente drammatica.
Se poi cerchiamo per un attimo di vedere questi giovani adulti dal punto di vista dei bambini allora il risultato è davvero interessante.





giovedì 22 ottobre 2015

Bikes vs Cars

Titolo: Bikes vs Cars
Regia: Fredrik Gertten
Anno: 2015
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Bikes vs Cars descrive una crisi globale di cui tutti abbiamo il dover di parlare. Il clima, le risorse del pianeta, le città la cui l'intera superficie è consumata dalle automobili, un traffico caotico, in crescita continua, sporco e rumoroso. La bicicletta sarebbe un ottimo strumento per cambiare la situazione, ma i poteri che lucrano sul traffico privato investono ogni anno miliardi in azioni di lobbying e pubblicità per proteggere i loro affari. Nel film incontriamo attivisti e pensatori che lottano per città migliori e che rifiutano di smettere di pedalare nonostante il crescente numero di ciclisti uccisi nel traffico.

Bikes vs Cars: è una guerra o una città? O una guerra quotidiana che attivisti paladini compiono senza mezzi termini lasciandoci anche la vita come spesso capita soprattutto in Brasile.
Bikes vs Cars è un documentario intelligente che approfondisce molto bene il discorso legato a coloro che non possono rinunciare alla bicicletta.
Saggio e mai banale, è un film che prima di tutto ci regala un sacco di preziose informazioni.
Un docu che spazia molto in termini geografici, portandoci da un estremo all'altro, in uno schema corale di racconti e scoperte davvero entusiasmanti.
I temi sono tanti, troppi forse, tutti ancorati grazie ad un credo straordinario che muove i suoi protagonisti a cercare sempre più di scommettere su questo prezioso mezzo.
Il traffico, i problemi climatici legati all'inquinamento, la scarsa pianificazione urbana, una lotta contro una industria automobilistica inarrestabile, sono solo alcuni dei temi sviluppati, certo con molta enfasi e sentimento uniti da una colonna sonora che cerca sempre di emozionare il suo pubblico, a sensibilizzarci su tanti problemi che si nascondono dietro l'industria dell'automobile come ad esempio il fatto che oggi ci sono un miliardo di automobili nel mondo ed entro il 2020, tale numero raddoppierà.
Allo stesso tempo pensare al rovescio della medaglia, ovvero che grazie agli ingorghi nasce la spinta a pensare politiche di mobilità diverse e infine scoprire alcuni luoghi simbolo come Copenaghen o Amsterdam dove il quaranta per cento i pendolari in bicicletta tutti i giorni e dove uno spassoso e autentico taxista che odia i ciclisti, ovvero la maggioranza, cerca di farsene una ragione quotidianamente, sono le strategie su cui il popolo muove il proprio attivismo, le proprie ragioni e i diritti.

Il film di Gertten forse meriterebbe una visualizzazione più vasta, non solo all'interno del Festival di Cinemambiente, ma all'interno anche di prestigiosi festival internazionali.

giovedì 16 luglio 2015

Sound of Noise

Titolo: Sound of Noise
Regia: Ola Simmonson, Johannes Stjärne Nilsson
Anno: 2010
Paese: Svezia
Giudizio: 3/5

Tutto ha origine da due fratelli. Il primo molto dotato, già bambino prodigio, oggi è stimato direttore d'orchestra, il secondo, stonato cronico e insofferente nei confronti della musica (anche a causa di un'infanzia all'ombra del fratellino dotato), è poliziotto. Proprio a lui viene affidato il caso di alcuni misteriosi crimini collegato ad un gruppo di persone che si presentano in ambienti convenzionali per smontarli e letteralmente "farli suonare" utilizzando tutto quello che trovano.

Sound of Noise è un film bizzarro e originale che nonostante il tono spesso sconclusionato credo possa essere menzionato tra i film sul tema musicale più originali mai visti finora.
Con una storia interessante è provocatoria, vuole essere ricordato come una sinfonia anarchica di pace e libertà, tutta dettata da registri musicali senza puntare troppo sui dialoghi.
E'insieme una critica al rumore che ci circonda ogni giorno, all'egoismo e alla tediosa rigidità di alcuni musicisti svedesi e della seriosità che si nasconde dietro la musica colta.
Seppur pervaso da un umorismo solo a tratti veramente comico, come capita spesso per divesi paesi la cui comicità il più delle volte riscontra l'effetto opposto, l'opera prima della coppia di registi è una commedia irrorata da sterzate di freschezza e alcune trovate davvero innovative come le stravaganze legate ai quattro brani di cui il primo e in una sala operatoria in cui i batteristi suonano letteralmente su un paziente oppure il finale con i trattori che devastano la piazza davanti all'Opera.
Il problema però di Sound of Noise è legato in particolare al ritmo che spesso diventa ripetitivo e stancante. Alcune scelte di sceneggiatura proprio perchè non palesate al pubblico, diventano di difficile fruizione e comprensione.
Il cast c'è la mette tutta, contando che gli stessi protagonisti erano quelli del precedente corto della coppia di registi.
Uscito a Cannes, sicuramente farà parlare e sorridere, non verrà ricordato come un filmone, ma allo stesso tempo è un peccato che non raggiungerà mai le sale nei nostri cinema.


Kung Fury

Titolo: Kung Fury
Regia: Dadiv Sandberg
Anno: 2015
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Kung fury, detective della polizia di Miami ed esperto di arti marziali, viaggia indietro nel tempo, dagli anni Ottanta alla Seconda guerra mondiale, per uccidere Adolf Hitler, alias Kung Führer, e vendicare in tal modo la morte del suo miglior amico avvenuta per mano del leader nazista. Un errore nella macchina del tempo lo spedisce però in piena epoca vichinga.

C'è ne fossero di mediometraggi così...
Il fatto che sia stato girato grazie ad una campagna di raccolta fondi sulla piattaforma Kickstarter, credo che sia già sinonimo delle difficoltà produttive per lavori di questo tipo.
E pensare che sono stati raccolti più di 600.000$, questo per dire quanto i nerd e gli amanti in generale dei b-movie e di tutto l'universo che gravita attorno al fantasy, abbiano voluto che questo medio si facesse, assumendosi le responsabilità che potesse diventare una porcata come purtroppo tanti infedeli alla materia lo hanno definito.
Sandberg poi è uno sconosciuto ma di quelli che sanno il fatto suo, mischiando e creando un vaso di Pandora gigantesco che in '30 farebbe allibire molti registi contemporanei soprattutto le produzioni hollywoodiane che con milioni e milioni e centinaia di milioni creano puttanate meno credibili di Kung Fury (tipo TRANSFORMERS o boiate del genere la lista è lunga...)
Il fatto poi di aver attinto alla cultura nordica con un Thor decisamente antiestetico, delle tettone tettesche provocanti, dinosauri, un nerd e un poliziotto Triceratopo contro i nazisti è evidente di un divertimento e di una totale assenza di cercare di prendersi sul serio, ma creando un prodotto divertentissimo e funzionale alla parodia di generi.
Si potrebbe continuare citando un’estetica che rimanda ai film anni ottanta, videogiochi arcade, una computer grafica più che credibile che ha permesso al regista di girare il 90% del film nel suo studio grazie all’uso massiccio di greenscreen.
Non è un caso che abbia ottenuto oltre 10 milioni di visualizzazioni in meno di 4 giorni.

Chissà se Sandberg, con un budget più solido, cosa potrebbe essere in grado di creare...

venerdì 20 febbraio 2015

Racconti da Stoccolma

Titolo: Racconti da Stoccolma
Regia: Anders Nillson
Anno: 2006
Paese: Svezia
Giudizio: 2/5

Quando scende la notte Stoccolma si scopre intollerante e violenta. Dentro le case e fuori, sulle strade, esplode l'odio incontrollato di padri, mariti, fratelli. In una di queste notti si incrociano i destini di Leyla, figlia di una numerosa famiglia mediorientale, cresciuta secondo un rigido codice morale e religioso, Carina, madre generosa e giornalista di talento, umiliata dalle parole e dalle percosse di un marito meschino e geloso, e Aram, giovane proprietario di un locale, innamorato di uno degli uomini della sicurezza. Con modi e tempi diversi, Leyla, Carina e Aram impareranno a difendersi e a reagire ai soprusi. Il mondo è duro con tutte le donne che cercano di adattarlo alle proprie esigenze e alle proprie inclinazioni invece di lasciarsi condizionare dai genitori, dai mariti, dai fratelli o dalla persona amata. 

Che la violenza è una delle cose nascoste fin dalla creazione del mondo c’è lo diceva Rene Girard, probabilmente il massimo studioso mondiale sul tema. 
Ora che la violenza è presente anche in Svezia, non mi stupisce, mentre invece mi stupisce, purtroppo, l’analisi molto macchinosa e piena di elementi squisitamente già visti, con cui il giovane regista sceglie di narrare gli episodi drammatici.
E’ un film che in svariate scene e scelte, mostra purtroppo, una staticità e una ridondanza a sottolineare ed esplicitare alcuni particolari che secondo me andavano messi da parte per puntare verso altri settori. 
Da questo punto di vista ne esce un film che seppur tecnicamente ben fatto, appare insipido (potrebbe sembrare un paradosso vista la crudeltà intenzionale espressa dai personaggi in diverse scene) ma che manca “l’obbiettivo” di descrivere un malessere sociale presente ovunque.

Alla fine mostrando una violenza interna, annidata dentro la comunità come un male inestirpabile e incurabile, Nillson ci dice che non per questo è destinata ad avere il sopravvento sulle sue vittime, eppure, per qualche strana ragione, non sembra convincere la sua presa di posizione.

giovedì 13 novembre 2014

We are the beast

Titolo: We are the beast
Regia: Lukas Moodysson
Anno: 2013
Paese: Svezia/Danimarca
Giudizio: 4/5

Stoccolma, 1982. Bobo, Klara e Edvige sono tre tredicenni che vagano per le strade. Coraggiose e forti ma al tempo stesso deboli e confuse, le ragazze imparano troppo presto dall'assenza dei genitori a prendersi cura di loro stesse e, seppur senza mezzi, decidono di mettere in piedi un gruppo punk in un momento in cui tutti danno il punk per morto.

Lukas Moodysson è in assoluto il regista più interessante che arriva dalla Svezia contemporanea.
Una mente, un regista colto, sempre interessante, un anticonformista che spesso è volentieri scommette sulle ragazze come simbolo di protesta, e che ha dato alla luce dei piccoli capolavori che almeno per il sottoscritto, sono diventati dei piccoli cult.
E'uno dei pochi a riuscire ad intessere di poesia dei drammi lucidi e reali, senza mai compiacimenti e ponendosi sempre dal punto di vista dei personaggi e mai del pubblico.
Dopo una filmografia quasi esclusivamente drammatica e potente, che tratta temi decisamente attuali e significativi nei paesi scandinavi, arriva ad una commedia davvero riuscita in cui il trio delle protagoniste è così funzionale, e loro sono così belle e cariche di quella voglia post-punk che le colloca tra le eroine degli anni '80, a cercare di riscattarsi con la musica dalle piccole-grandi angherie sopportate a scuola.
Ebbene sì la musica, la piena catarsi come insegnava Aristotele.
Sulle note di "Hate the sport", Moodysson converge su un binario gentile e nostalgico, basato su una graphic-novel di sua moglie, e che come sempre vede nell'adolescenza quella serie incredibile di difficoltà e innamoramenti con uno stile toccante e mai così lucido.


lunedì 23 giugno 2014

Microtopia

Titolo: Microtopia
Regia: Jesper Wachtmeister
Anno: 2013
Paese: Svezia
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 3/5

Microtopia è un documentario che tratta di micro abitazioni, downsizing e vivere fuori dagli schemi

Per molti di noi, e da secoli a questa parte, il concetto di casa è legato all’idea di stabilità, sicurezza e permanenza. Ma in un’epoca sempre più caratterizzata dalla sovrappopolazione e dal rapido avanzamento tecnologico, si fa sempre più pressante la domanda di abitazione portatile o comunque di nuovi modelli abitativi. Scopriamo così come architetti, artisti o semplici cittadini stiano cercando di esaudire, a volte in modo assolutamente sorprendente, questo desiderio di flessibilità radicale, grazie anche agli esempi concreti di chi ha scelto una moderna alternativa nomade o chi si è trovato costretto, magari suo malgrado, a escogitare diversi modi di abitare.

Strutturato in diversi paesi, Microtopia sonda le nuove tecniche di alcuni architetti e designer che cercano, studiano e approfondiscono il desiderio e il bisogno di trovare nuovi soluzioni abitative.
Dal Messico si parte con un'idea davvero interessante come quella di legare buste di plastica contenente immondizia e legata sotto un pallet in acqua e muovendosi senza regole tra i mari, oppure costruirsi una sacca di ferro portatile e che si lega facilmente ad un albero rimanendo così sospesi per aria (ottima l'idea se non fosse che la struttura pesa 100kg) e continuando così sperimentando idee a volte un pò troppo fuori portata ma assolutamente interessanti come quella della casa camper con cui andarsene in giro per il mondo.
Microtopia infine esplora come gli architetti, artisti e ordinarie problem-solver, stanno spingendo i limiti per trovare risposte ai loro sogni di portabilità, flessibilità - e della creazione di indipendenza dalla "rete".

martedì 15 marzo 2011

A Hole in my heart

Titolo: A Hole in my heart
Regia: Lukas Moodysson
Anno: 2004
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Un padre deve girare un film porno con l’amico. Quindi contatta un’attrice amatoriale senza prestare attenzione al fatto che in casa abita anche il figlio adolescente.

Visionato durante la retrospettiva sul regista al cinema Massimo di Torino, A hole in my heart è un analisi su un rapporto quasi inesistente in cui padre e figlio sembrano solo condividere uno spazio in una casa cercando di evitarsi il più possibile.
Naturalmente il figlio a differenza del padre rappresenta quel mondo incontaminato in cui vive solo per la musica minimal eccessiva. Il figlio purtroppo ha anche una malformazione all’orecchio che lo rende incapace per il suo aspetto di avvicinarsi alle ragazze e proprio in questa circostanza il ragazzo cercherà di instaurare un rapporto umano con la porno diva che abiterà a casa sua per la durata del film.
Lukas Moodysson è un regista interessantissimo che ha girato ottimi film tutti molto personali e drammatici come FUCKING AMAL, TOGETHER, LILJA 4EVER che trattano di problemi attuali come la prostituzione, la difficoltà a non accettarsi e problematiche simili anche in questi casi legati per la maggior parte ad outsider.
Moodysson ha girato anche degli ottimi documentari in particolare THE TERRORIST su come la polizia nei paesi nordici tratta i giovani no-global.
Il film è come sempre un’analisi sociologica sui rapporti tra individui, sul disagio con cui vivono la quotidianità vista in molti casi come un sacrificio e come una lotta in cui l’importante è riuscire a sopravvivere.
Allucinanti i passaggi come quello in cui il figlio dichiara al padre che scopare in due una donna e in realtà un modo per poter toccare il pene dell’altro e quindi un tipico gesto omosessuale così come è davvero toccante l’amicizia che si instaura tra lei e il ragazzo.
Parecchie scene sono decisamente forti,dure,audaci e assolutamente eccessive nonché necessarie per approfondire il panorama dello squallore non per altro il suo cinema esce da tutti i possibili canoni commerciali e si colloca su un binario indi soprendente che cresce di pellicola in pellicola.
Moodysson attualmente è uno dei migliori registi svedesi che oltre a dirigere, sceneggia con quella profondità che lascerà di certo il segno.