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giovedì 17 gennaio 2013

Shotgun Stories

Titolo: Shotgun Stories
Regia: Jeff Nichols
Anno: 2007
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Son, Boy e Kid Hayes sono stati abbandonati dal padre quando erano ancora piccoli e sono cresciuti con il ricordo di un padre ubriacone e collerico e dalle ossessive recriminazioni della madre che li ha sempre colpevolizzati per l'abbandono dell'uomo. Tuttavia, negli anni l'uomo è riuscito a rifarsi una vita diventando un onesto lavoratore, ha sposato un'altra donna, ha avuto altri quattro figli cui lui ha dato il nome e la rispettabilità negati a quelli nati dalla sua precedente unione. Per questo, alla morte del padre, Son, Boy e Kid non esitano a presentarsi al funerale per infangarne il nome e ricordare a tutta la comunità il suo peccato di gioventù. Tra i campi di grano e le distese polverose dell'Arkansas inizia quindi una violenta faida tra le due famiglie del defunto.

Perdere tutto alimentare una faida o salvare il presente e scommettere su quello che si ha e che non si è ancora perso?
Il fatto poi che nel film le armi arrivino dopo, quasi verso la metà, perché come dice anche Son è meglio non averci a che fare, prediligendo qualche sana scazzottata, è uno dei motivi, tra gli altri, per cui ho così amato questo film.
Ma parliamo di un binomio funzionale al cinema ora più che mai. Nichols e il suo pupillo feticcio Shannon.
Il primo è un regista giovane, bravo, che nella sua opera prima riesce già a delineare dei tratti distintivi del suo cinema e questo è un punto mooolto importante. Il secondo è un attore che non c’è bisogno di presentare visto il suo talento straordinario. Si sono unite dunque l’autorialità e la consapevolezza con la naturalezza e l’enfasi.
Shotgun è davvero una sorpresa perché dice e racconta pochissimo ma filtra tanta di quella roba che non bastano pagine di recensioni.
L’Arkansas di Nichols sembra quasi una sorta di Texas. La provincia americana appare sempre più disarmante, più sola che mai, abbandonata da dio e dagli stessi abitanti che vivono quasi neutralizzati da una modernità che appare inadeguata alle loro monotone vite.
Una narrazione lenta e patinata ma allo stesso tempo suggestiva e che riesce a essere descritta con quegli occhi languidi di uno Shannon particolarmente ispirato.
Ancora una volta il pesante retaggio culturale legato a una figura estrema ed estranea come quella del padre diventa necessario per capire meglio come due facce della stessa medaglia possano essere portati al conflitto. Una vita condotta da tre fratelli che si sono scelti un’altra vita contando solo su loro stessi (i nomi hanno poi un’importanza ben precisa Son, Boy e Kid) così come la meccanicità delle azioni coincide con una realtà ciclica e immutabile.