Visualizzazione post con etichetta Lighthouse. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Lighthouse. Mostra tutti i post

mercoledì 22 gennaio 2020

Lighthouse


Titolo: Lighthouse
Regia: Robert Eggers
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 5/5

Thomas Wake è il guardiano stagionale di un faro sperduto nel nulla, su un'isola battuta da venti e tempeste, nella Nuova Scozia di fine Ottocento, mentre Ephraim Winslow è il suo giovane aiutante, propostosi volontario per le quattro settimane del turno. L'accanirsi del maltempo costringerà i due uomini ad una permanenza ben più lunga del previsto e ad una convivenza forzata che porterà in superficie demoni personali, timori ancestrali e nuove, tormentate pulsioni, in un crescendo di follia e claustrofobia.

Eggers dopo il bellissimo VVitch sceglie un'altra storia insolita, condita da alcuni ingredienti che cominciano a diventare la sua politica di genere, ovvero unire e stravolgere miti, usanze, religioni, profezie, rituali e culti fino a portarci con la bellissima scena iniziale dove i due protagonisti guardano in camera come ad invitarci nel loro personale delirio. Un film completamente allucinato, stratificato e complesso in grado di alzare le vele e dimostrare l'incredibile talento dell'autore coadiuvato da due attori che ci mettono l'anima.
Dafoe come la Swinton d'altronde sono i due attori più poliedrici e camaleontici sulla piazza.
Lighthouse è un horror psichico sulla crescente paranoia che si impossessa dell'animo umano con rimandi kubrickiani sulla solitudine (Shining su tutti), un dramma grottesco che alza sempre di più la posta complice anche l'isolamento e l'alcool che scorre a fiumi e a cui è impossibile sottrarsi, che deraglia, assorbe, limita, esagera, un film pieno e ricco di elementi, di riferimenti letterari (Melville, Woolf, Poe, Lovecraft, Coleridge) di ambienti, suggestioni e luoghi che nella loro solitudine nascondono segreti e significati.
Un film in b/n che sembra bisognoso di citare tantissimi autori che hanno fatto la storia del cinema, nel suo ergersi ad un'estetica d'epoca, espressionista, minimale, in cui la scelta anti-moderna di utilizzare per le riprese il formato 35 mm in b/n accentua ancora di più le somiglianze con il cinema espressionista muto di inizio '900.
Faro come visione, ossessione, ricerca della luce, scontro tra due maschi alfa di cui si sente il bisogno di dominare ed essere dominati, dove in questo scontro avviene una lucida e drammatica analisi delle parti più nere dell'animo umano, della meschinità, dei segreti non detti, e soprattutto dell'impossibilità di redimersi o di salvarsi
Il linguaggio poi assume risonanze molto particolari, suoni misteriosi, accenti che sembravano affondati negli abissi del tempo con un dialetto da contadino canadese nel caso di Ephraim e una pronuncia ed un lessico marinareschi per Tom.
La solitudine, l'alcool, la stretta vicinanza ad un uomo più anziano che detiene il potere portano
Ephraim ad impazzire lentamente in una parabola discendente scegliendo come vittime sacrificali i gabbiani con le dovute conseguenze che diventano visioni mostruose (sirene, tentacoli lovecraftiani, Nettuno) che ad un certo punto diventano quasi caleidoscopiche intrappolando il personaggio in deliranti complotti cercando una via di fuga peraltro impossibile.