Titolo: Lighthouse
Regia: Robert Eggers
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 5/5
Thomas Wake è il guardiano stagionale
di un faro sperduto nel nulla, su un'isola battuta da venti e
tempeste, nella Nuova Scozia di fine Ottocento, mentre Ephraim
Winslow è il suo giovane aiutante, propostosi volontario per le
quattro settimane del turno. L'accanirsi del maltempo costringerà i
due uomini ad una permanenza ben più lunga del previsto e ad una
convivenza forzata che porterà in superficie demoni personali,
timori ancestrali e nuove, tormentate pulsioni, in un crescendo di
follia e claustrofobia.
Eggers dopo il bellissimo VVitch sceglie un'altra storia insolita, condita da alcuni ingredienti che
cominciano a diventare la sua politica di genere, ovvero unire e
stravolgere miti, usanze, religioni, profezie, rituali e culti fino a
portarci con la bellissima scena iniziale dove i due protagonisti
guardano in camera come ad invitarci nel loro personale delirio. Un
film completamente allucinato, stratificato e complesso in grado di
alzare le vele e dimostrare l'incredibile talento dell'autore
coadiuvato da due attori che ci mettono l'anima.
Dafoe come la Swinton d'altronde sono i
due attori più poliedrici e camaleontici sulla piazza.
Lighthouse è un horror psichico sulla
crescente paranoia che si impossessa dell'animo umano con rimandi
kubrickiani sulla solitudine (Shining su tutti), un dramma grottesco che alza sempre
di più la posta complice anche l'isolamento e l'alcool che scorre a
fiumi e a cui è impossibile sottrarsi, che deraglia, assorbe,
limita, esagera, un film pieno e ricco di elementi, di riferimenti
letterari (Melville, Woolf, Poe, Lovecraft, Coleridge) di ambienti,
suggestioni e luoghi che nella loro solitudine nascondono segreti e
significati.
Un film in b/n che sembra bisognoso di
citare tantissimi autori che hanno fatto la storia del cinema, nel
suo ergersi ad un'estetica d'epoca, espressionista, minimale, in cui
la scelta anti-moderna di utilizzare per le riprese il formato 35 mm
in b/n accentua ancora di più le somiglianze con il cinema
espressionista muto di inizio '900.
Faro come visione, ossessione, ricerca
della luce, scontro tra due maschi alfa di cui si sente il bisogno di
dominare ed essere dominati, dove in questo scontro avviene una
lucida e drammatica analisi delle parti più nere dell'animo umano,
della meschinità, dei segreti non detti, e soprattutto
dell'impossibilità di redimersi o di salvarsi
Il linguaggio poi assume risonanze
molto particolari, suoni misteriosi, accenti che sembravano affondati
negli abissi del tempo con un dialetto da contadino canadese nel caso
di Ephraim e una pronuncia ed un lessico marinareschi per Tom.
La solitudine, l'alcool, la stretta
vicinanza ad un uomo più anziano che detiene il potere portano
Ephraim ad impazzire lentamente in una
parabola discendente scegliendo come vittime sacrificali i gabbiani
con le dovute conseguenze che diventano visioni mostruose (sirene,
tentacoli lovecraftiani, Nettuno) che ad un certo punto diventano
quasi caleidoscopiche intrappolando il personaggio in deliranti
complotti cercando una via di fuga peraltro impossibile.