Un'artista sulla quarantina decide di abbandonare il lavoro e fare la mamma a tempo pieno. Ma dopo due anni di accudimento non-stop del figlio non ne può più: delle notti insonni, delle giornate al parco, dei libri di favole, delle mamme felici che la circondano mentre lei si sente infelicissima, e del marito che, viaggiando molto per lavoro, si presenta solo il weekend, e si aspetta di essere accudito. Lei va in giro con abiti informi e Birkenstock in una spirale di abbrutimento domestico, portandosi ancora dietro l'aumento di peso dovuto alla gravidanza, rimpiange il suo lavoro alla galleria d'arte e i suoi pennelli, e si sente intrappolata in "una prigione costruita da me stessa", perché le norme sociali, le aspettative di genere e la stessa biologia l'hanno costretta a diventare una persona che non si riconosce più - e che nemmeno il marito riconosce, così perennemente arrabbiata e delusa.
Amy Adams deve averci creduto molto in questo film e si vede. Praticamente se lo carica sulle spalle con così tanti stati d'animo che si aggrovigliano nell'arco del primo atto da farla letteralmente trasformare in ciò che le è stato tolto. E' un film con ambizioni morali, etiche, sul controllo, sull'indipendenza, su una parte di femminismo che vuole liberarsi dalla costrizione del dovere di mamma con un figlio piccolo e molto altro ancora. E per un pezzo di film funziona anche molto bene. Poi da quando avviene la metamorfosi mentale grazie ad un libro molto particolare e poi la trasformazione fisica, i bubboni, la coda, e infine la trasformazione in un cane, il film nel suo bisogno di prendere una strada più onirica sembra voler esagerare diventando più animale e meno critica sociale di fatto cancellando quanto di buono visto prima. I litigi poi sono la parte che ho trovato più disfunzionale dal momento che il marito quando non sta via giorni interi per lavoro torna ed è molto premuroso e volenteroso venendo attaccato continuamente per episodi ridicoli