Visualizzazione post con etichetta Documentario. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Documentario. Mostra tutti i post

venerdì 11 agosto 2023

Funeralopolis-A Suburban Portrait


Titolo: Funeralopolis-A Suburban Portrait
Regia: Alessandro Redaelli
Anno: 2018
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Vash e Felce (il secondo trentenne, l'altro più giovane) fanno musica insieme, consumano droghe (eroina compresa) e condividono tutto. Sono cresciuti a Bresso e si sono incontrati grazie al rap e all'esoterismo. La telecamera li segue ovunque senza remore né censure.

Alessandro Redaelli in un'intervista ha dichiarato: "Volevo fare un lungometraggio, e mi dicevo: sono povero e non ho nessuno che mi possa appoggiare, cosa faccio? Un documentario d'osservazione era l'unica opzione". Non sempre questo punto di partenza conduce a risultati apprezzabili. Anzi, spesso accade il contrario. E invece grazie alla liberatoria del gruppo di ragazzi che ha deciso di farsi filmare accettando di portare Redaelli ovunque con loro forse senza sapere a cosa potessero andare incontro è un elemento non così atipico nel cinema ma sempre interessante per gli sbocchi e le testimonianze che può esprimere. E' un film duro, uno spaccato sulle droghe intenso che non censura nulla e mostra tutto da chi si buca nelle vene del collo rimanendo fermo con un ago a guardare la telecamera a abusi di droga di tutti i tipi. Vash e Felce sono due bonci non così poveri ma accomunati da una spregiudicatezza e un desiderio di sperimentare e non lesinare proprio nulla. Alcuni passaggi riescono ad essere veramente catartici come il festino a casa dell'amico dove conosciamo alcuni elementi davvero impressionanti. Il finale nel bosco di Felce, il rapporto coi rave e con i familiari per Vash e poi un b/n che riesce a rendere ancora più impressionanti e d'effetto le scene e le inquadrature. Dialoghi improvvisati, scene tante buone alla prima (altrimenti ci sarebbero stati decine di buchi in più da farsi) e una filosofia nichilista e auto distruttiva che continua a far riflettere

giovedì 15 aprile 2021

Se c'è un aldilà sono fottuto. Vita e cinema di Claudio Caligari


Titolo: Se c'è un aldilà sono fottuto. Vita e cinema di Claudio Caligari
Regia: Simone Isola, Fausto Trombetta
Anno: 2019
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

3 ottobre 2014: ospite del critico Fabio Ferzetti in redazione al quotidiano "Il Messaggero", Valerio Mastandrea dà lettura di un messaggio speciale indirizzato a Martin Scorsese. A nome della crew che sta cercando di mettere in produzione Non essere cattivo - terzo film di Claudio Caligari che fatica ad avere il via - l'attore romano invita il regista a vedere il film di debutto del regista, Amore tossico. La questione è urgente: Non essere cattivo, ultimo dei soli tre film realizzati da Caligari in quasi quattro decenni di attività, è un'opera che "non può aspettare". Non solo per la difficoltà apparentemente incorreggibile, quasi una maledizione, nel riuscire a trovare finanziamenti per le sue sceneggiature, ma perché il regista è gravemente malato. La speranza è che Scorsese riconosca la passione divorante per la settima arte come una malattia familiare e possa correre in aiuto.
 
Commovente questo omaggio ad uno dei miei registi italiani preferiti. Un autore maledetto e un attento e lucido sociologo di un epidemia italiana legata alla droga e una parentesi sui sequestri.
Il documentario in sè cattura le ultime fasi dal casting fatto da Mastrandrea a Marinelli e Borghi, all'anima messa dall'attore romano al servizio del suo fedele maestro, al perseguire un sogno nel cassetto dopo aver scritto moltissime sceneggiature senza essere mai stato preso in considerazione dalle produzioni di allora. Un autore scomodo e per questo tenuto ai margini che con Amore Tossico
 aveva fatto parlare di sè, di ciò che non andava, dove era stato messo in croce dai perbenisti e da una certa stampa di allora che ha continuato con ODORE DELLA NOTTE a descrivere una banda di criminali e infine con un sequel del suo capolavoro ai tempi nostri Non essere cattivo che di fatto sancisce come il problema della droga persista avendo di fatto cambiato solo sostanza ma non gli effetti disastrosi su un ghetto e sui quartieri popolari.
Toccante quando parlano gli attori del suo primo film, quando tra immagini di repertorio conosciamo il cast che promuoveva il film nei festival, quando parla chi lo ha conosciuto, quando Marinelli si commuove, quando Mastrandrea si mette completamente al suo servizio aiutandolo e sostenendolo in tutto; quando Caligari assiste al suo debutto nel cortometraggio sul sociale ascoltandolo mentre parla di lui assieme a Giallini, quando vediamo la scelta del cast del suo ultimo film, quel foglio attaccato alla parete con tutte le pedine che si vanno a comporre.
Se c'è un aldilà sono fottuto. Vita e cinema di Claudio Caligari è un documentario coraggioso che andava fatto, che regala attimi di vero cinema, che detta legge su un autore che avrebbe potuto regalare molto di più se solo avessero creduto in lui..sono tanti i registi italiani ma pochi quelli a cui hanno dedicato e che hanno meritato un documentario come omaggio


martedì 17 novembre 2020

Into the Inferno


Titolo: Into the Inferno
Regia: Werner Herzog
Anno: 2016
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 5/5

Werner Herzog comincia ad interessarsi di vulcani, cinematograficamente parlando, dal documentario "La Soufriére" del lontano 1977. Into the inferno è una summa delle sue varie riprese attraverso il mondo - dall'Australia all'Indonesia, dalla Corea del Nord all'Islanda - alla ricerca dei vulcani più impressionanti del mondo, raccontati non solo nella loro valenza scientifica, ma soprattutto nella loro dimensione magica, e nella loro straordinaria capacità di informare la visione del mondo delle comunità circostanti.

“Si tratta della cosiddetta catastrofe di Toba, l’esplosione di un super vulcano indonesiano avvenuta tra 70 e 80mila anni fa. Fu un evento davvero catastrofico, probabilmente il più potente degli ultimi 500mila anni, di cui è testimonianza diretta un enorme cratere di oltre 100 chilometri di diametro, visibile dallo Spazio, e i sedimenti di polvere e pomice con la stessa datazione rinvenuti in India e persino in Africa orientale. Le conseguenze dell’eruzione non sono state accertate con sicurezza: secondo alcuni, l’evento fu così forte da spazzare via quasi del tutto la specie umana, lasciando in vita solo poche centinaia di persone.
“Comunque siano andate le cose, la nostra specie è ancora qui, ancora viva, il che la dice lunga sulla resilienza dell’essere umano e sulla nostra estrema adattabilità. Per quanto riguarda il futuro, è ipotizzabile pensare che un evento del genere, prima o poi, si ripeta. Naturalmente, la probabilità è molto bassa. Ed è difficile stimare quando succederà – potrebbero passare altri 100mila anni – e quali sono le zone vulcaniche che più probabilmente ne saranno coinvolte”. Oppenheimer
Clive Oppenheimer che però non c'entra nulla con il regista di Act of Killing, è il narratore di questa nuova avventura del famoso e poliedrico artista tedesco.
Sono anni ormai che ringrazio Werner per darmi la possibilità di scoprire le più desolate e inimmaginabili aree geografiche nascoste al mondo per scoprire così qualcosa di nuovo e magico.
Ecco è proprio la magia quella che l'autore riesce sempre a far scaturire dai suoi lavori mettendo al centro la natura e le immagini e lasciando che siano loro a parlare senza interrompere questo straordinario disegno che piano piano si sta cancellando dalla nostra memoria per lasciare spazio a frame e pixel che mostrano una società e una natura sempre più "liquida".
In questo modo possiamo osservare assieme al regista come spettatori e scoprire così assieme a lui, una guida sacra in territori inesplorati, un Virgilio che risponde proprio al nome del famoso vulcanologo citato prima e che non a caso ci accompagna nel viaggio nell'inferno come il titolo.
I vulcani poi da sempre sono stati qualcosa che ha appassionato il documentarista e allo stesso modo la loro natura e la loro furia sono da sempre tra gli spettacoli più maestosi e imponenti che la natura ci abbia dato modo di osservare e temere. Il documentario si apre in chiave interpretativa ad un messaggio globale sempre attuale e importante. Negli ultimi anni le catastrofi e i disastri ambientali stanno diventando argomenti a cui non si presta quasi più attenzione. Da questo punto di vista i vulcani sono dei termometri perfetti misurando lo stato di salute del pianeta. L'opera diventa allora un percorso di spiritualità antropologicamente molto interessante come le leggende narrate dagli indigeni su cosa rappresenti nel loro immaginario il vulcano.
Se la lava "esprime la rabbia dei diavoli" diventando il sangue del pianeta allora la valenza simbolica attribuita a questi fenomeni può diventare un sistema simbolico organizzatore di senso, una cosmologia perfetta e allo stesso tempo un segnale con caratteri divini.
Immagini nitide, scioccanti, alcune di repertorio, di certo nessuna "modificata" con la cg, dimostrano la passione inesauribile di un ultrasettantenne che apparentemente non sembra aver paura di niente.
Dai più strani, giganteschi e leggendari del mondo, veniamo catapultati in Indonesia, nella Corea del Nord, passando per le montagne di Islanda ed Etiopia. Ovviamente come tutti i lavori del regista non manca una parte che introduce e spiega l’aspetto scientifico della questione come dicevo raccontando l’antichissimo legame tra vulcani, mitologia e spiritualità.
"E sono tornato a occuparmi di vulcani, stavolta per sempre. Ma non solo in senso stretto: mi interessa come la vulcanologia si interfaccia con archeologia, matematica, fisica, biologia, storia”. Oppenheimer

lunedì 23 marzo 2020

Hail Satan


Titolo: Hail Satan
Regia: Penny Lane
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

La controversa influenza dei satanisti sulla politica USA

Essere satanisti ai nostri giorni non significa sacrificare cose, o fare atti osceni in luogo pubblico o dover per forza provocare qualcosa nell’altro culturale. Satanisti al giorno d’oggi come si interroga l’attenta Penny Lane può voler dire semplicemente aderire ad un altro culto (che non per questo va condannato).
Siamo in un’epoca in cui il dio delle guerre è la religione e ad oggi ne contiamo qualcosa come più di 4600.
Ora che male può fare un culto che si interroga partendo dalle intuizioni di Milton e il suo profetico Paradiso Perduto sulle origini del dio della materia e del re dei disobbedienti.
In breve, il Satanic Temple o la Chiesa di Satana è un’organizzazione composta da attivisti nonteisti che, pur non credendo nell’esistenza di Satana, almeno una buona parte, prendono la figura di Lucifero come simbolo di un’eterna lotta al sistema opprimente, alla tirannia, alla sovranità arbitraria religiosa che prevede la sottomissione a Dio.
I membri del Satanic Temple si descrivono come pacifisti, convinti sostenitori dei diritti umani (come quelli della comunità LGBTQ) e del pluralismo religioso, a scapito di poche religioni che controllano il mondo.
Se è pur vero che a parte mettere da parte Jex Blackmore e tutti coloro che usano manifestazioni violente per circoscrivere il loro credo, dall’altra parte il documentario traccia alcuni dati di fatto importanti per sostenere la continuità e la fidelizzazione cristiana in America come ad esempio combattere i comunisti visti come il male maggiore in tempo di guerra, oppure sempre per i cristiani alcuni esperimenti nati con il solo obbiettivo di accrescere il numero degli adepti,  come il film i Dieci Comandamenti e altre operazioni semi-reazionarie.
Si ride, non ci si prende troppo sul serio, sentiamo buona parte dei benpensanti e scopriamo tutta la galleria di fesserie prodotte e volute dai media negli anni per avere un nemico in comune: Satana e i loro seguaci.
In realtà il più grande nemico del pensiero libero e delle donne come dimostrano i fatti e sempre stato il Cristianesimo e gli altri monoteismi.
I sette fondamentali “comandamenti” su cui si basa il Satanic Temple sono:
1-One should strive to act with compassion and empathy towards all creatures in accordance with reason.
2-The struggle for justice is an ongoing and necessary pursuit that should prevail over laws and institutions.
3-One’s body is inviolable, subject to one’s own will alone.
4-The freedoms of others should be respected, including the freedom to offend. To willfully and unjustly encroach upon the freedoms of another is to forgo your own.
5-Beliefs should conform to our best scientific understanding of the world. We should take care never to distort scientific facts to fit our beliefs.
6-People are fallible. If we make a mistake, we should do our best to rectify it and resolve any harm that may have been caused.
7-Every tenet is a guiding principle designed to inspire nobility in action and thought. The spirit of compassion, wisdom, and justice should always prevail over the written or spoken word.
Alla faccia dei 10 comandamenti cristiani!

domenica 8 marzo 2020

Selfie

Titolo: Selfie
Regia: Agostino Ferrente
Anno: 2019
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Alessandro e Pietro sono due sedicenni che vivono nel Rione Traiano di Napoli dove, nell'estate del 2014 Davide Bifolco, anche lui sedicenne, morì ucciso da un carabiniere che lo inseguiva avendolo scambiato per un latitante. I due sono amici inseparabili. Alessandro ha trovato un lavoro da cameriere in un bar mentre Pietro, che ha studiato per diventarlo, cerca un posto da parrucchiere. I due hanno accettato la proposta del regista di riprendersi con un iPhone raccontando così la loro quotidianità di ragazzi come tanti altri nel mondo.

«Ho pure provato a spacciare ma non è cosa mia»
Selfie potrebbe sembrare un’operazione furba con lo scopo di inquadrare Napoli e usare due amici fraterni che si filmano tenendo il cellulare in mano senza avere un’idea precisa circa la trama o cosa vogliano dire e fare. Un’idea praticamente a costo zero, un low budget che cerca di trovare elementi e documentare lo stato dei giovani napoletani che ormai soprattutto il cinema identifica sempre più spesso con la delinquenza. Ecco a livello antropologico forse l’aspetto più interessante del film è quello di far vedere la bellezza di alcuni ragionamenti, dialoghi, monologhi degli attori improvvisati e delle numerose comparse che contano diversi minorenni mettendosi spesso in discussione e avendo ben chiaro che tutti dovranno fare una scelta .
Ne esce una descrizione mai banale, una quotidianità fatta di gesti e azioni semplici, dove a fare da sfondo certo c’è sempre una certa identificazione con un mondo marcio e infetto che ha messo le radici nella regione ma che in parte viene smorzato dalle parole degli attori che sanno benissimo cosa succede attorno a loro e come starne alla larga. Un documentario dove filmare vuol dire scegliere da che parte stare, come girare l‘iphone e cosa si vuol inquadrare e cosa invece no. Alessandro e Pietro vivono sempre a stretto contatto, li vediamo mangiare un anguria, camminare per le strade, filmare i propri parenti, ridere, scherzare, mai litigare rimanendo in un Rione dove il caldo imperversa e dove non basta rimanere attaccati in casa davanti ad un ventilatore.
Il film di Ferrente si piazza come un quadro neorealista, un documentario semplice ma originale e onesto nel dare forma e parole ad una città resa celebre solo e soltanto per i fatti di cronaca.

mercoledì 22 gennaio 2020

History of horror


Titolo: History of horror
Regia: Ely Roth
Anno: 2018
Paese: Usa
Stagione: 1
Episodi: 7
Giudizio: 3/5

E'un progetto complesso, didascalico, citazionista, un compendio di tutto quel vocabolario horror che i fan di genere conoscono a memoria e di cui questi episodi contengono quelle rare prelibatezza che in parte ci erano sfuggite.
Siamo di fronte a AMC Visionaries: Eli Roth’s History of Horror, docu-serie tv in 7 puntate facente parte di un nuovo show della AMC, che Roth ha voluto fare a tutti i costi come una sorta di banca della memoria di alcuni grandi maestri, delle loro testimonianze viventi con interviste ai più grandi rimasti e le loro storie, esperienze e curiosità e soprattutto retroscena.
Tanti gli ospiti, da quelli a lungo termine come alle comparse. Nomi sulla bocca di tutti che prevedono scrittori, registi, sceneggiatori, attori, produttori. King, Tarantino, Peele, Blum, Englund, Blair, Zombie, Nicotero, Curtis, Elijah Wood, Landis, Linda Blair, Jack Black, Hedren, etc.
7 episodi per sette tematiche differenti che vanno dallo slasher in due puntate, possessioni demoniache, mostri, vampiri e fantasmi.
History of horror è una sfida in parte vinta se contiamo che progetti di questo tipo sono atipici, quanto allo stesso tempo una carrellata di notizie che tutti i fanatici dell'horror conoscono quasi a memoria fatta eccezione per le curiosità legate a particolari sul set a detta degli autori.
Resta comunque una visione molto convincente, con tanti spezzoni di cult dell'horror, dell'analisi di un sotto genere che piace più alle donne che agli uomini, l'impatto che i singoli aspetti hanno avuto sulla società e sull'immaginario collettivo e che negli ultimi anni è diventato un fenomeno di massa con produttori assatanati e saghe interminabili e opinabili con tanto tempo rubato da saghe come TWILIGHT o THE WALKIND DEAD e in tutto questo, tantissimo cinema che rimane fuori, ai posteri, e che avrebbe dovuto chiamarsi forse History of American horror.
Se si pensa che proprio Roth che ama il cinema di genere italiano e avendo fatto dei remake molto discutibili tenga fuori Bava, Argento, Fulci, Deodato e tanti altri senza stare a pensare al cinema europeo come quello orientale, l'operazione fa storcere il naso sperando che se ci sarà un futuro, verrà analizzato anche un altro continente e il peso specifico che ha comportato in parte per la nascita del cinema horror americano.
Gli episodi hanno comunque un buon ritmo alternando sketch, frasi memorabili, scene indimenticabili e diventate cult per alcuni film, il tutto in una durata di 40'.


domenica 27 ottobre 2019

Fratelli d'Italia



Titolo: Fratelli d'Italia
Regia: Claudio Giovannesi
Anno: 2009
Paese: Italia
Giudizio: 3/5

Uno sguardo alle vite di tre adolescenti di famiglie immigrate in Italia che frequentano un istituto tecnico di Ostia.

Come ti ambienti a Ostia quando sei cresciuto in un paese culturalmente molto diverso da quello d'origine. Tre storie diverse tutte di seconda generazione, dove ormai l'accento romano è sdoganato. La prima se vogliamo è quella che ha più elementi e spunti su cui riflettere. Tra i tanti ambienti ripresi, non solo uno, ma tutta la quotidianità che passa per le istituzioni, la casa, la strada, i ristoranti e le discoteche. Il lavoro è stato reso possibile sicuramente dagli ottimi rapporti che c'erano tra maestranze e i giovani coinvolti nel progetto tutti molto empatici e senza difficoltà a stare davanti alla telecamera, anzi.
La scuola nel rapporto con i compagni e soprattutto nella prima storia con l'insegnante, è quello che ha un valore pedagogico più importante perchè attraverso lo scontro tra docente e alunno capiamo subito un sacco di elementi e il distacco iniziale tra i due porta ad un rapporto di fiducia anche se a volte in maniera troppo banale e telefonata.
Fratelli d'Italia, che pensavo parlasse dei giovani fascisti, ha però degli evidenti limiti se non vogliamo chiamarli problemi. C'è qualcosa in quella quotidianità che emerge dai vissuti dei ragazzi e come si comportano che lascia intendere come il fatto di sentirsi delle star gli abbia sicuramente influenzati nella naturalezza dei gesti mentre dall'altro se il film voleva documentare efficacemente i problemi dell'integrazione e del retaggio culturale dei giovani che vivono, il forte dissidio di trovarsi accentrati fra due culture di fronte al quale reagiscono con la paura o con un atteggiamento ribelle, il risultato è un altro, filmando invece dei ragazzi che dal punto di vista dell'integrazione non hanno problemi, se non con i genitori che chi per la scuola, chi per i valori religiosi si oppongono a questa condotta, trovando nell'ambiente esterno altri collanti sociali.


lunedì 7 ottobre 2019

Lord of Chaos

Titolo: Lord of Chaos
Regia: Jonas Åkerlund
Anno: 2018
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Il diciassettenne Euronymous è determinato a sfuggire all'educazione tradizionale nella Oslo degli anni ottanta. Ossessionato dal voler creare la vera musica norvegese black metal, con la sua band Mayhem, crea un fenomeno utilizzando acrobazie scioccanti che attirano l'attenzione sulla band. Ma, come i confini tra sogno e realtà iniziano a confondersi, cominciano incendi dolosi, violenza e un omicidio che scuoteranno profondamente la nazione.

Lord of Chaos è un'opera pretenziosa che vorrebbe dire e fare e mostrare tante cose, forse troppe finendo, come tante opere simili, con il mischiare tutto in enorme bolla che esplode nel finale nella maniera più telefonata possibile.
E'quasi inopportuno definirlo un brutto film, perchè la regia nella messa in scena è solida con il compito di coinvolgere lo spettatore ma soprattutto scioccarlo, elemento sempre più difficile, soprattutto quando viene spiattellato in faccia allo spettatore ogni possibile scena di crudeltà che non riesce mai ad essere pienamente credibile eccetto forse il suicidio del cantante nel primo atto.
Omicidi, suicidi, automutilazioni, culto del diavolo, atti di cannibalismo, chiese incendiate, omicidi di omosessuali, sesso a profusione, accoltellamenti, neo-nazisti, rese dei conti, ritorno alla normalità dopo aver conosciuto l'altro sesso, il metal come forma di ribellione e diversità e infine la Norvegia che rimarrà pure un paradiso naturale, ma dove il tasso di suicidi con i paesi limitrofi è sempre tra i più alti al mondo.
Documentario, mockumentary, dramma, storia di competizione tra tardo adolescenti, ci sono troppi ingredienti nel film, alcuni decisamente riusciti e ottimi da digerire, altri invece sanno di esercizio di stile, di esagerazione fine a se stessa per diventare una sorta di cult negli amanti del metal. Alla fine la risposta è che Lord of Chaos è un film di finzione dove Akerlung prova a mettercela davvero tutta con la sua opera prima e avendo avuto modo di mettersi alla prova con videoclip musicali.
I Mayhem non li conosco, mentre guardavo il film, ho letto su Wikipedia cosa fosse successo e sembra che le libertà prese da regista e sceneggiatore ne abbiano colorato parecchie dando una loro visione con le loro ipotesi su quanto accaduto edulcorando con molti eccessi diversi passaggi e prove iniziatiche della band (Euronymous che mangia pezzi di cervello del cantante della band che si suicida).

sabato 8 giugno 2019

Lost in La Mancha


Titolo: Lost in La Mancha
Regia: Keith Fulton, Louis Pepe
Anno: 2001
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Nel settembre del 2000, Terry Gillian avrebbe dovuto iniziare le riprese del film "The man who killed Don Quixote", una mega-produzione europea che raccontava le disavventure di un pubblicitario americano capitato, chissà come, nella Spagna del XVII secolo, ed assoldato da Don Chisciotte come novello Sancho Panza. Il film ebbe problemi fin dalla pre-produzione, e naufragò dopo soli sei giorni di lavorazione grazie ad un'incredibile concomitanza di eventi: un uragano che semi-distrusse le apparecchiature, problemi logistici sottovalutati e soprattutto una grave malattia che costrinse il protagonista Jean Rochefort a rinunciare all'impresa. "Lost in La Mancha" è un documentario che testimonia le disavventure occorse al vulcanico regista inglese: nato come innocente "making of", è stato successivamente rimpolpato con interviste, disegni ad hoc ed inserti video (memorabili le poche scene del "Don Chisciotte" che anche Orson Welles provò a girare, ma senza successo); il film, da semplice curiosità sul dietro le quinte di una lavorazione, diventa quindi un importante mezzo per comprendere la magia del cinema, le fatiche della sua realizzazione ed anche quel pizzico di genio e sregolatezza che si nasconde dietro ogni grande impresa.

I making of che poi diventano documentari non sono moltissimi soprattutto quando si parla di grandi registi per progetti prestigiosi. Quando in un'unica parola si arriva ad annusare l'atmosfera che può celarsi dietro un film maledetto e soprattutto dietro il talento di un grande regista come Gilliam allora l'interesse ad avvicinarsi ad un esperimento simile non può risparmiare nessun cinefilo.
Un regista pazzo, per tanti mestieranti, colleghi, produttori. Un personaggio complesso e difficile dal talento naturale innegabile e grande sognatore. Come tanti però è sempre stato molto disturbato nella sua iperattività. Questo segmento montato e filmato da alcuni suoi collaboratori da degli sprazzi importanti per cercare di capire la complessità alla base di alcuni progetti, la sfortuna (che seppur non esiste andrebbe coniata anche solo per i progetti dell'autore), la difficoltà di far girare la macchina cinematografica come si deve e infine la rinuncia, quella che fino alla fine viene scongiurata.
Un viaggio tutt'altro che lezioso o noioso ma invece un dietro le quinte che ci insegna le tante difficoltà logistiche e produttive. Questo folle miscuglio di scene rende perfettamente l'idea di come il cinema non sia quella macchina sempre facile, piena di soldi, con gli attori tutti posati e pronti a mettersi in mostra
Tanti i motivi che hanno concorso al disastro finanziario (32 milioni di dollari) e creativo: la troupe sparsa in giro per il mondo, l'assenza di reale comunicazione tra i vari elementi del cast, un nubifragio a inizio lavorazione, il male alla prostata del protagonista Jean Rochefort, che ha dovuto abbandonare il set, ma su tutto l'incapacità del regista di circoscrivere il suo estro, di dare una forma alla sua potente visione, di sfogare in modo costruttivo il suo ego. Un'ambizione smisurata che coinciderà anche con i suoi film successivi.

venerdì 24 maggio 2019

Sale della terra

Titolo: Sale della Terra
Regia: Wim Wenders
Anno: 2014
Paese: Francia
Giudizio: 5/5

Il film racconta l’universo poetico e creativo di un grande artista del nostro tempo, il fotografo Sebastião Salgado. Dopo aver testimoniato alcuni tra i fatti più sconvolgenti della nostra storia contemporanea, Salgado si lancia alla scoperta di territori inesplorati e grandiosi, per incontrare la fauna e la flora selvagge in un grande progetto fotografico, omaggio alla bellezza del pianeta che abitiamo. La sua vita e il suo lavoro ci vengono rivelati dallo sguardo del figlio Juliano Ribeiro Salgado, che l’ha accompagnato nei suoi ultimi viaggi, e da quello di Wenders, fotografo egli stesso.

Wenders è un po come Herzog.                                                                                                                  Due nomi che hanno fatto la storia. Due registi a 360° che soprattutto negli ultimi anni hanno saputo sposare e incanalare bene la tecnologia nella settima arte.                                           
Dalla fotografia, al 3d, alla capacità di ottenere fondi e permessi quando sarebbero negati a qualsiasi altro essere umano. Questi sono solo alcuni degli aspetti per cui le loro “opere” suscitano e lasciano basiti per l’interesse e i temi che vanno a trattare oltre la delicatezza con cui toccano i sentimenti del pubblico. Il Sale della Terra di cui ci parla Sebastiao Salgado, è un’esperienza durata tutta una vita.    Un percorso e un dovere sociale, dinamico, variopinto, necessario, pericoloso e invidiabile.                  Così, anche se andrebbe scritto un saggio solo sul fotografo e il suo pensiero, è davvero toccante poter avvicinarsi alle mille avventure che lo hanno portato nel momento giusto in alcune parti del mondo in cui la natura e l’uomo continuano a combattere uno scontro che forse non finirà mai.            Dalla violenza, ai volti, al modernismo, fino ad arrivare agli emigrati e poi agli animali, queste sono solo alcune delle tematiche su cui Salgado, con l’aiuto del figlio e con alcuni racconti del padre, crea il suo universo e ci da la possibilità di ammirarlo come quando guardiamo una fotografia e rimaniamo esterrefatti.
Ci si commuove, si spalanca la bocca, si fa fatica ad accettare quello che l’obbiettivo cattura e tutto questo dura il tempo di un film, strutturato, bilanciato e montato in modo semplicemente squisito, come un’opera d’arte che risulterà precisa in tutti i suoi meccanismi.
Salgado diceva che l'uomo è l'animale più crudele, ma capace anche di elevarsi al di sopra di se stesso.

martedì 30 aprile 2019

Off Broom


Titolo: Off Broom
Regia: Roald Zom
Anno: 2018
Paese: Olanda
Festival: Divine Queer Film Festival
Giudizio: 3/5

Rein è il portiere transgender di una squadra di Quidditch, lo sport emergente inventato da Harry Potter. Mentre la squadra si prepara a partecipare ai giochi europei in Italia, Rein racconta il suo processo di autodeterminazione.

La storia di Rein ci porta in Olanda per conoscere questo "ragazzo" ormai nel pieno di una cura ormonale con il preciso compito di cambiare sesso.
E'la sua determinazione a rendere paradossale, quanto curioso, tutto il palcoscenico costruito affianco alla sua vita dove il Quidditch (non sapevo ma esistono davvero tornei europei e mondiali) diventa l'arma per immolarsi e dare così un senso e una continuità alla propria vita.
Lo sport non si gioca da solo. Rein infatti in questa avventura è attorniato da ragazzi e ragazze che come lui stanno cercando di cambiare sesso oppure hanno in comune il gioco creato dalla Rowling.
Il risultato per quanto assurdo (vengono spiegate le regole del gioco) e per quanto innaturale possa essere (vedere maschi e femmine che si rincorrono a cavallo di una scopa può risultare a tratti abbastanza ridicolo) alla fine tutto acquista un senso nella maniera in cui serve a dare speranze.


Passage to Womanhood


Titolo: Passage to Womanhood
Regia: Inaya Yusuf
Anno: 2018
Paese: Malesia
Festival: Divine Queer Film Festival
Giudizio: 4/5

Un gruppo di donne trans musulmane si oppone all’emarginazione sociale in Malesia. Ridefinendo il ruolo femminile nell’Islam, dipingono il proprio ritratto di essere donna.

Il mediometraggio di Yusuf si concentra sulla vita di tre donne e la loro lotta per cercare di sopravvivere in una terra inospitale come quella della Malesia soprattutto per chi ha scelto di diventare trans. Difficoltà, oltre già le normali, ad essere inserite nella società ( ma non accolte), difficoltà a lavoro, per strada con la paura di essere aggredite quotidianamente, con le minacce dei familiari e infine con i propri partner.
Sembra una condanna più che una scelta. Dalle testimonianze delle donne si appura un limite culturale che non sembra voler accennare a nessun tipo di cambiamento.
Il cinema o meglio i documentari servono soprattutto a questo, esplorando terre sconosciute e portarci così alla scoperta di tabò che richiedono ancora tantissimo tempo prima di riuscire ad essere comprese e rispettare così la carta dei diritti umani per far sì che ognuno possa liberamente scegliere di fare quello che vuole con il suo corpo nel paese in cui nasce e cresce.


giovedì 18 aprile 2019

New city maps


Titolo: New City Maps
Regia: Giorgia Dal Bianco
Anno: 2018
Paese: Italia
Festival: Divine Queer Film Festival
Giudizio: 3/5

Nel documentario gli spostamenti delle persone migranti ridisegnano e trasformano le coordinate del paesaggio urbano di Roma a partire dalle relazioni che stabiliscono con lo spazio pubblico

Giorgia Dal Bianco non è una regista, tanto meno una documentarista. E'un'architetta che si è trovata in mezzo a questo notevole e sperimentale progetto a Roma contribuendo a renderla un'opera video. In questo modo è riuscita a far diffondere questo esperimento condotto da lei e l'equipe, con l'intento di fare in modo che magari altri possano prendere spunto da questo progetto e adoperarsi per aiutare a rendere la capitale un posto migliore per i migranti.
Il breve documentario racconta dello spostamento dei profughi di diversi paesi monitorando il fenomeno dei rifugiati e altre tipologie in transito da Roma e le relazioni che questi stabiliscono con lo spazio pubblico.
L’obiettivo è quello di attivare un percorso di riflessione sul fenomeno e diffondere tramite una app e altre tipologie la possibilità di usufruire di un servizio gratuito e fondamentale soprattutto per i nuovi arrivati che muovono i primi passi nella capitale italiana.
New city maps analizza e descrive una geografia dei luoghi frequentati per soddisfare i bisogni primari. Questo flusso, anche attraverso la proliferazione di insediamenti informali nei luoghi dismessi di Roma, genera per forza di cose pratiche adattati (ovviamente va sempre aggiornato), New city maps ci mostra ancora una volta i mezzi e le risorse di chi non smette di mettersi al servizio dei cittadini.

lunedì 11 marzo 2019

Transit


Titolo: Transit
Regia: Mariam El Marakeshy
Anno: 2018
Paese: Grecia
Festival: Divine Queer Film Festival
Giudizio: 4/5

Potenti storie di giovani rifugiat* che hanno rischiato la vita attraversando il mare Egeo verso l’Europa, per rimanere intrappolat* nell’isola greca di Lesbo. Piccole forme di resistenza aprono spiragli di speranza

Co finanziato da un canale televisivo turco, Transit è un documentario scomodo, indipendente e low budget che ha il merito di cogliere alcune testimonianze di tutti coloro che si sono trovati intrappolati nell’isola greca di Lesbo senza aiuti dall'Europa in accampamenti che spesso non hanno nemmeno i servizi principali.
Un luogo che "dovrebbe essere" di transito, dal momento che tanti rifugiati non vedono la Grecia e l'Italia come quella Europa che dovrebbe ospitarli e sistemarli, ma una via di mezzo per l'Europa che significa invece Germania o paesi più industrializzati.
Emergono dettagli inquietanti come i salvagenti consegnati dagli scafisti ai rifugiati che in realtà non sono omologati a norma, ai traumi senza parole delle testimonianze di persone e famiglie semplicemente lasciate lì, in mezzo ad un'isola con sogni, rabbia, delusioni e intenti su un futuro che sembra sempre più abbandonato e reso inconsistente da una politica che si dimentica di loro.

venerdì 8 febbraio 2019

Studio 54


Titolo: Studio 54
Regia: Matt Tyrnauer
Anno: 2018
Paese: Usa
Festival: Seeyousound
Giudizio: 4/5

Il documentario diretto dal regista Matt Tyrnauer racconta l'ascesa e la caduta del famoso club Studio 54, che, alla fine degli anni '70, divenne il locale più famoso della città, segnando una intera generazione. Esso poggia le basi sui ricordi di uno dei due fondatori, oramai anziano.

All’epicentro della New York disco seventies, simbolo di una generazione sempre più alla ricerca di qualcosa di nuovo e travolgente, nasce lo Studio 54, nella Midtown di Manhattan.
Un luogo simbolo, una di quelle realtà che chi è amante del ballo e della disco, avrà certamente sentito nominare almeno una volta.
La Mecca della musica, lo zenit dello sballo, dove tutto era lecito e possibile.
Un luogo divino, un rituale da svolgere più volte possibile, dove instaurare relazioni, lasciarsi andare, abbattere qualsiasi tipo di frontiera mortale e razziale.
Lo Studio 54 è stata semplicemente la più famosa discoteca al mondo, un modello di entertainment studiato nei minimi dettagli per creare un unicum che diventasse il punto di riferimento mondiale per la musica, per l'eleganza e per tutto ciò che è fashion. Studio 54 è diventato presto un'icona in grado di segnare un'intera generazione di target differenti dove quando si ballava semplicemente si abbandonava tutto per lasciare spazio al corpo e all'atmosfera.
Il documentario è folle e scatenato, lasciando lo spettatore in balia di volersi alzare e mettersi a ballare, con uno stile molto americano che racconta la nascita e le difficoltà dei due rampolli ebrei per la loro scalata al successo. Una storia, la loro, correlata di soddisfazioni, scandali, arresti, polemiche, novità sotto ogni punto di vista.
In poco più di un'ora e mezza viene raccontato quasi tutto dagli interni, le code all'esterno, la rigorosa selezione agli ingressi, le grandi star, la musica favolosa, la droga, con un finale in crescendo che accompagna lo spettatore fino al doloroso percorso giudiziario che ha portato poi alla chiusura per problemi fiscali e la morte per aids di uno dei due fondatori.


sabato 10 novembre 2018

I am not a witch


Titolo: I am not a witch
Regia: Rungano Nyoni
Anno: 2017
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

A seguito di un banale incidente nel suo villaggio, la piccola Shula, di 8 anni, viene accusata di stregoneria. Dopo un breve processo e la successiva condanna, la bambina verrà presa in custodia ed esiliata in un campo di streghe nel mezzo di un deserto. Giunta all'accampamento prenderà parte ad una cerimonia di iniziazione dove le viene mostrato il regolamento che scandirà la sua nuova vita da strega. Come le altre residenti, Shula è costretta a vivere legata ad un grande albero dal quale è impossibile staccarsi. La pena per chi disobbedisce sarà una maledizione orribile, che trasformerà chiunque tagli la corda in una capra.

Per chi avesse ancora dei dubbi su come la settima arte riesca a osservare e inquadrare il mondo sotto prospettive e analisi diverse, beh questo come tanti altri documentari dovrebbe per lo meno far riflettere. Sembra una fiaba, un racconto nero, di sicuro un calvario che come a Shula, capita a numerosissime donne e bambine (senza dimenticarci di cosa succede agli albini in Africa) e dove tutto in fondo appartiene alla cultura locale, alla magia, alla potenza della stregoneria e di altri strumenti per legare le masse attorno a un sistema simbolico organizzatore di senso.
Quella che Nyoni racconta o denuncia è una storia straziante che vede questa piccola e straordinaria, nonchè coraggiosissima bambina, diventare la vittima sacrificale, il capro espiatorio, per risolvere dispute e problemi locali legati a tutta una serie di motivazioni che stanno alla base di eventi climatici, mal gestione del paese e un odio spropositato verso ciò che potrebbe cambiare le sorti della comunità.
Bambina o donna, anziana o albina, chiunque si trovi in una situazione di pericolo, in un clima che sembra parossistico dovrebbe aver paura.
Nyoni, pur confezionando un horror per certi versi, ricorre in modo formidabile ad un'ironia impertinente come solo il coro di donne sanno fare, che assume dei tratti da favola surreale e tragicomici sotto vari aspetti.
La burocrazia e le regole delle forze dell'ordine che si scontrano con le regole inossidabili della tribù che è Lei a decidere cosa bisogna e cosa deve essere fatto e come soprattutto "estirpare il male alla radice" della bambina.
Shula appunto accusata di stregoneria, viene nel vero senso della parola “internata” in un campo dove sottili nastri bianchi svolazzanti vengono attaccati come una specie di giogo alla schiena delle donne, come conseguenza di superstizioni troppo ancorate alla cultura locale.
Shula diventa la piccola Giovanna D'arco dello Zambia, come monito di un martirio senza alcuna traccia o intenzione di compassione, con un’inumanità resa ancora più aberrante dal sorriso di chi è convinto della propria legittimità.

Invocation of my demon brother


Titolo: Invocation of my demon brother
Regia: Kenneth Anger
Anno: 1969
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Cortometraggio sperimentale sull'immaginario omoerotico. Contiene alcune scene di performances dei Rolling Stones

Anger da sempre ha cercato di imporsi con una sua precisa e sperimentale idea di cinema.
O meglio una sorta di arte delirante e ossessiva che sembra essere la nota costante della maggior parte dei suoi cortometraggi, con il compito di impressionare, provocare e perchè no, buttare pure qualche seme trattando la magia nera e l'occultismo come tratterebbe Andy Warhol la nuova pubblicità del 21°secolo.
Il risultato ancora una volta mostra gli sforzi, l'eccesso e a volte la deriva attraverso cui l'artista cerca di dare forma ai suoi demoni personali investendoli e caricandoli di significato per impressionare il pubblico come in questo caso Lucifero e Sua Satanica Maestà.
Da sempre fan e succubo di Aleister Crowley che cita e omaggia in diversi lavori, cerca ancora una volta nel suo linguaggio sperimentale, quella misteriosa simbologia esoterica appartenuta al Gran Maestro. In 12' è concentrato tutto il suo universo che mescola musica, Rolling Stones, religione magica, il fondatore della Chiesa di Satana californiana Anton LaVey e il criminale Bobby Beausoleil, complice del pluriomicida americano Charles Manson.
Il corto in sè seppur con un ritmo incredibile e alcuni suoni e mescolanze suggestive soffre come spesso accade nei lavori di Anger di essere troppo confusionario.
Anger appare nei panni di un officiante chiaramente ispirato ad Aleister Crowley




giovedì 18 ottobre 2018

Louisiana


Titolo: Louisiana
Regia: Roberto Minervini
Anno: 2015
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

In un territorio invisibile, ai margini della società, sul confine tra illegalità e anarchia, vive una comunità dolente che tenta di reagire a una minaccia: essere dimenticati dalle istituzioni e vedere calpestati i propri diritti di cittadini.

Il cinema ha ripreso di tutto. Le storie sui tossicci e i film che parlano di dipendenze e di droga ci sono sempre stati, alcuni votati all'intrattenimento, altri ad inquadrare il fenomeno e cercare di analizzarlo in tutte le sue derive in primis dalla frustrazione sociale.
Louisiana arriva tardi da noi, passato in sordina ai festival, ed è un altro documentario dell'ottimo e sconosciuto Minervini che lavora ormai da tempo in America.
Anche lui come tanti della sua generazione si è messo a disposizione dei diseredati per cercare di comprendere un altro aspetto del lato oscuro dell'America.
Qui siamo dentro il Texas rurale, la patria di Lansdale, dove se non fai attenzione alle paludi rischi che qualche coccodrillo venga a mozzarti le palle.
In Louisiana, il regista deve aver conosciuto tanti disperati tra cui una coppia tossicodipendente che vive la giornata, cercando di fare in modo che la dose non manchi mai ma nemmeno il sesso o tutti quei bisogni primari di cui questi disperati cercano di saziarsi continuamente in una consumazioone di corpi e ideologie spicce. La loro è un intensissima relazione dove l'unica pecca potrebbe essere stata quella di non avergli messo in mano un copione dandogli piena improvvisazione e la cosa fino ad un certo punto funziona.
Nella seconda parte invece si sofferma su un gruppo paramilitare, e si fa più esplicitamente politico chiamando in ballo, ma come succedeva già nella parte prima dove un gruppo di anziani col cappello si ritrovano a bere birra fuori dalle loro roulotte e criticare l'attuale amministrazione e politica americana, e le loro azioni da marines.
La parte dei paramilitari per quanto affascinante non allarga più di tanto la vena politica, più che altro si compone di immagini e di monologhi del loro leader che cerca di fare il lavaggio del cervello, fermentando l'ideologia di autodifesa paramilitare a dei giovani smidollati redneck che vivono senza nessuna ambizione ma sempre con il dito sul grilletto.


Devil and father Amorth


Titolo: Devil and father Amorth
Regia: William Friedkin
Anno: 2017
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Il regista William Friedkin ha ripreso il celebre sacerdote Padre Amorth in occasione della pratica di uno dei suoi esorcismi, eseguito su una donna che aveva manifestato comportamenti terrficanti e inspiegabili a livello psichiatrico.

Dura poco più di un'ora il documentario di Friedkin su padre Amorth.
Nasce da un bisogno, quello del regista che aveva diretto il cult L'ESORCISTA, film che scosse profondamente Amorth che anni e anni dopo (circa 40) decide di permettere al regista americano di filmare un esorcismo. Solo per quello dunque documentare un esorcismo perchè in realtà altri motivi non sembrano esserci e appare piuttosto chiaro.
In realtà quello che filma, senza troupe, da solo e con una piccola telecamera, è il nono tentativo di esorcizzare Cristina, una ragazza che abita vicino Roma e che fino al momento, in cui non vediamo realmente che succede, non possiamo renderci conto di cosa abbiamo di fronte.
Partiamo da un piccolo presupposto per quello che è un lavoro senza dubbio interessante ma con molti limiti e un'estetica troppo sensazionalistica.
Friedkin filma un quarto d’ora di questa poveretta seduta su una sedia con il vecchio prete che mugugna preghiere e benedizioni e parla col presunto Diavolo in compagnia di altre persone tra cui tre uomini oltre Amorth che cercano di bloccare la ragazza (uno di questi è il suo ragazzo forse uno dei personaggi più inquietanti del documentario, su cui però non viene fatta luce).
Sospendendo il giudizio, in quanto ateo che non crede in queste cose, ma ne rimane profondamente affascinato, in quanto fatti sociali umani e creati dall'uomo, un paio di momenti in cui mi sono davvero chiesto, come il regista, se quello a cui stavo assistendo fosse del tutto reale sono capitati.
Il problema è che anche la scena di sofferenza in sè risulta per certi versi tragicomica.
In particolare per un effetto anche se poi ho scoperto che è stato modificato in post produzione, almeno lo spero, che riguarda lo sdoppiamento della voce di Cristina.
Friedkin subito dopo l'intervista, fece vedere le immagini a neuropsichiatri, compagnie di psichiatri e altri esperti del settore come anche un vescovo che vedendo le immagini, ci crede, ma dice di aver troppa paura per prendere atto ad un esorcismo o farne uno oppure un'intervista alla buon'anima di William Peter Blatty che non sembra avere molta attinenza.
La comunità scientifica, seppur basita, parla come del resto non poteva non fare, di come alcuni disturbi vengano citati nel Dsm e che hanno dei nomi ben precisi come la trance dissociativa, il delirio e altri stati alterati della percezione. Cristina poi è posseduta da 89 demoni.
Il finale è forse l'artificio che Friedkin per cercare di spiazzare e di lasciare con il fiato sospeso filma una brutta ricostruzione trash dove lui e un assistente di Amorth, che nel frattempo è morto, scappano dalla chiesa dove avrebbero incontrato Cristina con il uomo che per giunta minaccia i familiari del regista.

Terribile il finale ma mai come la figura che è stata di padre Amorth che ha sempre criticato quasi tutto uscendosene con delle frasi memorabili che resteranno come monito per fare chiarezza su un altro personaggio religioso misterioso senza dubbio e di cui a differenza di Friedkin mi è sempre sembrato un altro servo della Chiesa senza particolare verve.

Tempi felici verranno presto


Titolo: Tempi felici verranno presto
Regia: Alessandro Comodin
Anno: 2016
Paese: Italia
Giudizio: 3/5

Tommaso e Arturo scappano nel bosco, la vita sembra andare meglio ma si muore sempre quando meno uno se l'aspetta.

Sembra quasi un film a episodi con storie diverse tenute assieme da un filo conduttore che potrebbe essere proprio l'ambiente o la natura. L'opera numero due di Comodin è una favola surreale in un mondo reale, ma allo stesso tempo incredibilmente arcaico, nelle regole e nelle azioni che svolge la comunità.
Un film indipendente e anarchico, un INTO THE WILD più intelligente, dove la realisticità si pone alla base delle scelte e delle azioni dei personaggi e soprattutto delle storie.
Leggede folkloristiche, una ricerca interiore, un mistero che avvolge la narrazione, la scoperta e la voglia di scegliere una vita in mezzo alla natura con tanto di ritorno alla caccia primordiale e senza apparenti ripari.
La prima storia forse perchè la più folle diventa anche quella con il climax finale più triste.
Mentre nella seconda una donna, forse una specie di martire, che decide di scappare nel bosco e andare alla ricerca del lupo diventa la vittima sacrificale su cui imbastire tutta una serie di congetture e teorie. Proprio quest'ultimo, il lupo, è al centro di miti e leggende dove si narra tra fiction e documentario, realtà e fantasia, racconto e trattato antropologico, di come Ariane sia entrata nel buco senza più uscirne e questo episodio di cronaca ha portato la comunità a credere e creare leggende, tra le quali alcune davvero assurde, come l'unione tra la donna e il lupo.