Titolo:
Riki-Oh-The Story of Ricky
Regia: Lam Ngai Kai
Anno: 1991
Paese: Cina
Giudizio: 3/5
In un futuro imprecisato le prigioni sono state
privatizzate e quella in cui è ambientata la vicenda è stata affidata al
potente e spietato Sugiyama e al suo sottoposto Cyclops. Dentro al carcere
quattro criminali, grandissimi esperti nelle arti marziali, hanno instaurato un
vero e proprio clima di terrore e con il placet del direttore hanno sterminato
parte dei detenuti più mansueti. Però la situazione cambia con l'arrivo nella
prigione di Riki Oh, un ragazzo di 21 anni condannato a 10 anni per aver
assassinato un boss della droga, il quale gli aveva ucciso la fidanzata. In
poco tempo Riki, grazie alla sua forza sovrumana e alla sua incredibile tecnica
di combattimento, riesce a sgominare prima i quattro criminali più cattivi,
poi, dopo un'estenuante lotta, uccide il crudele direttore, sotto le cui
sembianze in realtà si celava un essere mostruoso. Diventato il paladino di
tutti i detenuti, Riki Oh assume il controllo del carcere per distruggerlo e
dare ai tutti i suoi compagni la libertà.
Il film si basa sull'omonimo manga giapponese Riki-Oh,
creato nel 1988 da Masahiko Takajo e illustrato da Saruwatari Tetsuya.
Il motivo per cui Riki-Oh è diventata una chicca del
cinema di arti marziali degli anni ’90 è sicuramente la brutalità delle scene
di violenza e la grossa vena splatter che sembra configurare tutti i
combattimenti del film.
Al di là della trama che seppur con qualche trovata
interessante è di un piattume inconsistente, Kai sfrutta proprio questa
banalità per cercare di buttare tutto sulle scene di combattimento e
sull’esagerazione più totale in campo di arti strappati e organi usati come
vere e proprie armi.
Uno dei film più trash e da un certo punto di vista,
involontariamente rivoluzionario nella sua presa di posizione. Quello che lo
spettatore vuole vedere e il cammino dell’eroe che come per un Bruce Lee di
serie Z, vede il protagonista combattere in una piramide di forza in cui il
boss finale altro non è che il direttore.
Quest’ultimo poi sembra rubato da una delle tre bufere
del capolavoro di Carpenter GROSSO GUAIO A CHINATOWN.
Tutto il film è costellato da assurdi inimmaginabili come
il training del protagonista che si addestra facendosi tirare delle lapidi
sulla schiena, oppure un certo messaggio sul consumo di droghe e delle
coltivazioni di oppio contro le quali Riki si accanisce con inusitata violenza
e una nota anarchica nel finale in cui con un pugno Riki distrugge il muro del
carcere.
Se si pensa che il regista ha potuto sfruttare tutti gli
eccessi possibili e immaginabili con pochi soldi allora non ci si può esimere
dal definirlo una perla trash del cinema di Hong Kong.