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lunedì 30 luglio 2012

Cosmopolis


Titolo: Cosmopolis
Regia: David Cronemberg
Anno: 2012
Paese: Canada/Francia
Giudizio: 4/5

Cosmopolis racconta la storia di un giovane manager multimiliardario, Eric Packer, che attraversa New York nella sua limousine, deciso ad andare nel suo vecchio quartiere per farsi tagliare i capelli. Nella sua auto superaccessoriata e computerizzata in costante contatto coi mercati azionari, l'uomo fa riunioni di affari, si sottopone ad approfondite visite mediche, costantemente protetto da guardie del corpo che sanno che uno stalker potrebbe ucciderlo.

Assolutamente e rigorosamente atipico.
Cosmopolis potrebbe essere come un viaggio dell’eroe da cui si dipanano due messe in scena.
Una è funzionale, attuale, rivoluzionaria, quasi utopica e per certi versi controcorrente.
L’altra invece è un po’ troppo minimale, fredda, ermetica, troppo intellettuale oltre che difficilmente leggibile a una prima analisi e complessa proprio nella sua dichiarazione di intenti.
Il risultato finale comunque c’è ed è, ancora una volta, piuttosto notevole.
Probabilmente per gli affezionati di Cronemberg questo potrebbe essere visto come uno dei suoi film più difficili e, infatti, è così.
Tratto dall’omonimo romanzo di De Lillo che ha spiazzato descrivendo una realtà quanto mai burrascosa, Cosmopolis è proprio quel microcosmo in cui la società vorrebbe imprigionare ogni essere umano o forse, come uno specchio, l’esatto opposto.
Il vuoto e l’orrore nonché la noia e la consumazione e mercificazione dei corpi che avviene all’interno della limousine (limousine che è anche l’impermeabilità alla realtà, un monolite d’acciaio capace di proteggere l’individuo dalla massa) è la perfetta sintesi dell’immaginario borghese che in questo modo si sente snaturato dalla società riuscendo a vedere gli altri senza essere visto. Toccare e giudicare senza essere conosciuto e prendendo di tutto un pezzo senza venire mai a contatto di niente.

Se poi attualizziamo il contesto con tutto ciò che ha comportato la nascita del movimento Occupy Wall Street, Anonymous e tutto il resto, allora il film sembra documentare in modo infallibile la crisi del sistema capitalistico e quasi la paura e la fuga di massa dei broker e degli imprenditori o del “golden boy”della finanza, in strade che sembrano vuote o abbandonate da una popolazione che appare e scompare quasi come un’orda pronta a prendersi la rivincita non appena vede una valvola di sfogo come il presidente degli Stati Uniti.

Il cast è stata una scommessa e se anche uno gode vedendo la Binoche anche solo per cinque minuti, oppure il sempre buon Giammatti, il Patterson di turno risulta azzeccato come dandy borghese e improntato solo su se stesso e l’immagine che sfoggia di sé, ma dall’altra fa i conti con un ruolo complesso. Forse quello che diceva Cronemberg sul modus operandi rispetto alla catarsi dell’attore la dice lunga.
Patterson ha ammesso che appena pensava di capire cosa stesse succedendo durante la scena allora il regista ribaltava tutti gli intenti spiazzando completamente l’enfasi dell’attore. Se quindi Patterson ha recitato al di fuori del personaggio allora la scommessa del regista è stata vinta.

Siamo in piena attualità hi-tech senza troppi rimandi alla fantascienza come per EXISTENZ ma più al dramma della contemporaneità come invece succedeva per CRASH.
L’angoscia, la paura di non sentirsi adatto, il bisogno di emanciparsi dalla società, la difficoltà a cercare di leggere la realtà fuori dal finestrino e le ossessioni tipiche che ritornano (il barbiere dall’altra parte della città, l’inquietudine che opprime il protagonista, la paranoia ingigantita dall’insicurezza).
A tutto questo il regista canadese ha saputo dare una sua interpretazione analizzando e per certi versi psicanalizzando il tessuto sociale e le sue trasformazioni e individuando in un giovane rampollo tutti i drammi e tutte le fragilità a cui non si da mai peso.