Titolo: Cosmopolis
Regia: David Cronemberg
Anno: 2012
Paese: Canada/Francia
Giudizio: 4/5
Cosmopolis
racconta la storia di un giovane manager multimiliardario, Eric Packer, che
attraversa New York nella sua limousine, deciso ad andare nel suo vecchio quartiere
per farsi tagliare i capelli. Nella sua auto superaccessoriata e computerizzata
in costante contatto coi mercati azionari, l'uomo fa riunioni di affari, si
sottopone ad approfondite visite mediche, costantemente protetto da guardie del
corpo che sanno che uno stalker potrebbe ucciderlo.
Assolutamente e
rigorosamente atipico.
Cosmopolis
potrebbe essere come un viaggio dell’eroe da cui si dipanano due messe in scena.
Una è funzionale,
attuale, rivoluzionaria, quasi utopica e per certi versi controcorrente.
L’altra invece è
un po’ troppo minimale, fredda, ermetica, troppo intellettuale oltre che difficilmente
leggibile a una prima analisi e complessa proprio nella sua dichiarazione di
intenti.
Il risultato
finale comunque c’è ed è, ancora una volta, piuttosto notevole.
Probabilmente per
gli affezionati di Cronemberg questo potrebbe essere visto come uno dei suoi
film più difficili e, infatti, è così.
Tratto
dall’omonimo romanzo di De Lillo che ha spiazzato descrivendo una realtà quanto
mai burrascosa, Cosmopolis è proprio quel microcosmo in cui la società vorrebbe
imprigionare ogni essere umano o forse, come uno specchio, l’esatto opposto.
Il vuoto e l’orrore nonché la noia e la consumazione e
mercificazione dei corpi che avviene all’interno della limousine (limousine che è anche l’impermeabilità alla
realtà, un monolite d’acciaio capace di proteggere l’individuo dalla massa)
è la perfetta sintesi dell’immaginario borghese che in questo modo si sente
snaturato dalla società riuscendo a vedere gli altri senza essere visto.
Toccare e giudicare senza essere conosciuto e prendendo di tutto un pezzo senza
venire mai a contatto di niente.
Se poi attualizziamo il contesto con tutto ciò che ha
comportato la nascita del movimento Occupy Wall Street, Anonymous e tutto il
resto, allora il film sembra documentare in modo infallibile la crisi del
sistema capitalistico e quasi la paura e la fuga di massa dei broker e degli
imprenditori o del “golden boy”della finanza, in strade che sembrano vuote o
abbandonate da una popolazione che appare e scompare quasi come un’orda pronta
a prendersi la rivincita non appena vede una valvola di sfogo come il
presidente degli Stati Uniti.
Il cast è stata una scommessa e se anche uno gode vedendo
la Binoche anche solo per cinque minuti, oppure il sempre buon Giammatti, il
Patterson di turno risulta azzeccato come dandy borghese e improntato solo su
se stesso e l’immagine che sfoggia di sé, ma dall’altra fa i conti con un ruolo
complesso. Forse quello che diceva Cronemberg sul modus operandi rispetto alla
catarsi dell’attore la dice lunga.
Patterson ha ammesso che appena pensava di capire cosa
stesse succedendo durante la scena allora il regista ribaltava tutti gli
intenti spiazzando completamente l’enfasi dell’attore. Se quindi Patterson ha
recitato al di fuori del personaggio allora la scommessa del regista è stata
vinta.
Siamo in piena
attualità hi-tech senza troppi rimandi alla fantascienza come per EXISTENZ ma
più al dramma della contemporaneità come invece succedeva per CRASH.
L’angoscia, la
paura di non sentirsi adatto, il bisogno di emanciparsi dalla società, la
difficoltà a cercare di leggere la realtà fuori dal finestrino e le ossessioni
tipiche che ritornano (il barbiere dall’altra parte della città, l’inquietudine
che opprime il protagonista, la paranoia ingigantita dall’insicurezza).
A tutto questo il
regista canadese ha saputo dare una sua interpretazione analizzando e per certi
versi psicanalizzando il tessuto sociale e le sue trasformazioni e individuando
in un giovane rampollo tutti i drammi e tutte le fragilità a cui non si da mai
peso.