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venerdì 24 dicembre 2021

Seven Stages to Achieve Eternal Bliss


Titolo: Seven Stages to Achieve Eternal Bliss
Regia: Vivieno Caldinelli
Anno: 2020
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Una coppia che vive in una cittadina trova l'appartamento perfetto nella grande città, ma c'è un solo problema: l'appartamento è stato teatro dei rituali suicidi di una setta.
 
Sette tappe per raggiungere l’eterna beatitudine passando attraverso la porta scelta dal Santo Storsh. Una horror comedy con toni grotteschi e quasi mai surreali diviso e scansionato in capitoli.
Un film abbastanza assurdo se non fosse che dopo una partenza davvero tragicomica e con una ironia nera sopra le righe ma mai irritante, il film purtroppo non riesca nel terzo atto a mantenere tali premesse mangiando la foglia e piazzandosi come un tentativo interessante ma che poteva essere approfondito meglio. Ormai il tema delle sette è stato argomento di dibattito nel cinema in lungo e in largo. Questo devo ammettere che apre le premesse per una struttura abbastanza atipica e sintomatica delle follie che possono avverarsi. La strizzatina è rivolta a molte new religion e la presenza di un guru come Taika Waititi che con WHAT WE DO IN THE SHADOW è riuscito nel giro di pochi anni a diventare un colosso assoluto per importanza in quella Hollywood che conta ne è la riprova in un ruolo costruito ad hoc. Per quasi tutto il film vediamo una galleria di personaggi uno più assurdo dell'altro suicidarsi o farsi uccidere dalla coppia che dopo l'apparente shock iniziale decide di contribuire aiutandoli a morire nella vasca da bagno preparando un cocktail mortale.
Se ci mettiamo pure un ispettore di polizia completamente sopra le righe che anzichè cercare di frenare il fenomeno cerca solo di farsi produrre la sua sceneggiatura di un film e una proprietaria di casa che non sembra affatto sopresa di questa mattanza, il film prende binari decisamente assurdi che potevano essere ancora più incisivi e meno ridondanti.

sabato 18 dicembre 2021

Archenemy


Titolo: Archenemy
Regia: Adam Egypt Mortimer
Anno: 2020
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Max Fist afferma di essere un eroe che, provenuto da un'altra dimensione, ha perso ogni potere sulla Terra. Nessuno crede però alle sue parole a eccezione di un adolescente di nome Hamster. Insieme, combatteranno contro il narcotraffico locale e il suo malvagio capo criminale noto come il Manager.
Mortimer è uno di quei registi che vogliono lasciare il segno con opere suggestive e particolari e soprattutto progetti perlopiù indipendenti. Dopo DANIEL ISN'T REAL e SOME KIND OF HATE al suo terzo lavoro, Mortimer punta sul progetto più costoso e ambizioso.

Un super eroe del futuro alcolizzato che passa il tempo a parlare con se stesso e barboneggiare cercando un obbiettivo dopo che la sua nemica storica sembra intrappolata in un limbo spazio tempo prima di poter raggiungere anch'essa la Terra. Diciamo subito che ci sono degli elementi interessanti, l'anti eroe ormai sbiadito, dei gregari che sono costretti a barcamenarsi con lavori sporchi al soldo di spacciatori, una società ormai devastata dal degrado. Se ci mettiamo pure a livello tecnico delle interessanti trovate e una fotografia che satura e desatura tutto quando non si accende di colori caldi e intensi allora a livello estetico il film è ben improntato.
Il problema è una non storia lenta e noiosa dove quando Max imbraccia il suo vero obbiettivo, salvare i due fratelli dagli spacciatori, sembra cadere tutto in una balla colossale dove non c'è niente di nuovo a livello narrativo, lo sviluppo è prevedibile e macchinoso e il finale lascia interdetti come se Mortimer avesse voluto sconvolgere con un colpo di scena lasciando invece un altro tediosissimo luogo comune. Se l'intento del regista, a detta sua, è quella di creare un vorticoso universo cinematografico condiviso, una porta tra le dimensioni, sembra più facile a dirsi che a farsi. Su tre film, due ne ha sbagliati, lasciando il film sulla schizofrenia come la cosa migliore che gli sia venuta.




sabato 14 marzo 2020

Daniel isn’t real


Titolo: Daniel isn’t real
Regia: Adam Egypt Mortimer
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Luke, studente universitario dal passato difficile e disturbato, subisce un violento trauma familiare che lo spinge a riportare ‘in vita’ Daniel, il pericoloso amico immaginario che aveva da bambino e che da tempo ormai aveva obliato. Carismatico e pieno d’energia, Daniel torna così subdolamente nella sua quotidianità, deciso più che mai ad aiutare Luke nel realizzare i suoi sogni, guidandolo però inesorabilmente ai limiti della sua sanità mentale, in una disperata lotta per mantenere il controllo della sua mente e della sua anima.

Daniel isn’t real ha un primo atto incredibile dove dosando gli ingredienti Mortimer riesce ad intrappolare diversi temi e scene da manuale come quella in cui rinchiude Daniel nella casa di bambole con quelle luci e quell’atmosfera molto suggestiva e originale. Il tema del doppio è stato affrontato in varie maniere nel cinema con risultati altalenanti ma diverse pillole indimenticabili e alcuni cult indiscutibili.
Questo film non è nessuno dei due. E’un pregevolissimo horror che fa perdonare al regista Some kind of hate il suo esordio che mi aveva davvero convinto poco. Qui gli effetti fanno molto, la vivida realizzazione visiva e sonora, le gelatine che sparano colori a profusione quali il rosso e il viola ad annunciare l’arrivo di qualcosa di brutto, l’uso della c.g in maniera quasi mai debordante, mostri e creature che sembrano risvegliare l’abisso del male. Il film alterna thriller psicologico con body horror, dove il sangue e le scene di violenza non mancano, la patologia come si è appresa (la madre forse..)rimane la grande incognita soprattutto contando come è stato giocato male il ruolo dello psicologo che dovrebbe aiutare il protagonista e noi del pubblico ad avere qualche elemento in più. Trauma, malattia mentale, realtà di un opposto che non potrà morire mai ma come un alieno cambia di corpo in corpo scegliendo identità fragili da eludere e controllare. E poi c’è l’entrata a straforo proprio nel corpo di Luke, il quale coincide con il secondo atto (verso la fine) e pone altri dubbi e perplessità spostando le interpretazioni verso viaggi della follia poco comuni anche se a volte pasticciati.
Il ritmo vola senza fare guizzi particolari, solo verso il finale, prima del climax comunque interessante, il film svela le sue carte diventando a tutti gli effetti un horror viscerale dove secchiate di sangue e colori tingono la scena infilando mostri e trasformazioni corporee a profusione. Buona la prova di Patrick Schwarzenegger, meno quella di Miles Robbins.
Speriamo comunque che la SpectreVision di Frodo continui a regalarci buoni prodotti

domenica 8 marzo 2020

Color out of space

Titolo: Color out of space
Regia: Richard Stanley
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

La famiglia Gardner si è appena trasferita nella campagna del New England quando un meteorite si schianta nel loro giardino. Tutto ciò che li circonda si tinge di strani colori che nascondono inquietanti misteri.

Negli ultimi anni Lovecraft è sulla bocca di tutti. In un certo qual modo viene citato e omaggiato in svariati horror quando si accenna anche solo ad un tentacolo o ad una vaga allusione circa l’orrore cosmico.
Mancava nell’ultima decade un film che si confrontasse direttamente e apertamente con lo scrittore di Providence. Per cui ci troviamo tre nomi Whalen, Noah e Wood di cui l’ultimo è il famoso attore che negli ultimi anni sta ritrovando una spiccata voglia di investire su progetti horror indipendenti e complessi.
I primi due invece negli ultimi anni hanno prodotto film molto anarchici e grotteschi come MandyCootiesGreasy Strangler. David Keith aveva già provato nel 1987 con Fattoria Maledetta a cimentarsi con l’opera complessa sviluppando un film sofisticato per l’epoca dove “Vermi, putrefazioni, bubboni e ogni tipo di elemento rivoltante facevano da contraltare a un inizio che scorre apprezzabilmente pur con qualche sbando alla regia”. Era un esperimento interessante con un budget abbastanza limitato e uno studio meno accurato per quanto concerne la fotografia e l’atmosfera che invece in questa pellicola fanno da padroni infarcendo il film con tinte violacee e fucsia ed esseri purulenti e tutto il sangue nero dello spazio possibile.
Trasformazioni fisiche ed esterne, una natura che diventa extraterrestre, corpi deturpati e con escrescenze che si insinuano dappertutto, una cometa che infetta un pozzo che infetta l’acqua che trasforma una famiglia e la loro casa in una tana di presenze immonde e orrori indicibili.
Color out of space si dipana ovunque accresce le sue radici del male verso un finale estremo e splatter dove gli umani perdono e il male ottiene i suoi frutti facendoli implodere nei corpi devastati di ognuno dei presenti. Un film sulla trasformazione che avviene dall’esterno ma che contamina tutto ciò che può esserci di buono e allo stesso tempo sprigiona e rende manifesti sentimenti repressi e una voglia incontenibile di esplodere. Stanley che ho sempre apprezzato anche nei primi lavori e in tutto ciò che ha fatto (assolutamente sì anche Isola perduta nonostante l’abbiano cacciato dopo una settimana) ha creato b-movie a gogò di cui questa è la parte più putrida, la vera radice da cui speriamo che rinasca con una nuova filmografia votata all’horror puro e a quell’indicibile, quella scommessa che si pensava già persa, ovvero di riuscire a trasporre l’opera come se fosse una sorta di maledizione a cui tutti erano condannati. Stanley ci è riuscito addirittura infilando un attore come Cage che non ha cercato di mettersi in prima linea ma ha saputo rimanere in disparte e dare modo all’atmosfera di essere l’unica protagonista.

venerdì 12 ottobre 2018

Toad Road


Titolo: Toad Road
Regia: Jason Banker
Anno: 2013
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

La storia sconfina la linea di demarcazione tra il documentario e la narrazione per creare un ritratto inquietante sul consumo di droga nella cultura giovanile, durante un terrificante evento soprannaturale sulla famigerata strada del New Jersey, Toad Road: il sito di una vera e propria leggenda urbana sul cancello per l'inferno

James viene condotto dallo psicologo per raccontare cosa è successo.
La prima frase che gli rivolge lascia intendere che ha deciso di recarsi lì solo ed esclusivamente perchè altrimenti suo padre non gli paga i soldi e l'affitto in una guest house dove si sballa con i coinquilini. Fin qui non ci sarebbe molto da obbiettare. Tutti l'abbiamo fatto e tutti ci siamo divertiti sguazzando tra alcool e droghe. Magari ecco non proprio tutti.
Il problema è quando una cosa che ci piace diventa ingestibile e su cui la nostra determinazione e il nostro controllo non sembrano poter fare più nulla.
La scena nella grotta dove Sara prova i funghetti e sta male e piuttosto realistica e per chi ha mai provato quell'esperienza e Banker direi proprio di sì, viene raccontata proprio come qualcosa che gli è, ci è, successa.
Un thriller quasi un horror se a senso parlare o cercare di dare un genere al film che sicuramente drammatico lo è a dismisura. L'horror ovvero il dramma forte e proprio nella scelta nella disperazione nelle azioni e nei dialoghi di questi giovani che assieme formano un nutrito gruppo capeggiato da James il leader cazzaro che deve fungere da guru delle sostanze e che inavvertitamente provoca e danneggia alcuni del gruppo come la fragile Sara.
I film sulla droga possono essere drammi estenuanti capace di portare lo spettatore ad una prova, quasi un esperimento per cercare di salvarsi.
Sembra per certi versi di vedere IDIOTI di Trier dove la recitazione è assente, vige l'improvvisazione e anche i dialoghi sembrano avvenire per caso con un'idea di fondo.
Eppure questa scelta non semplice appare funzionale come per catapultare non tanto verso una psicologia del personaggio ma verso una strana e non meglio precisato insieme di cose che questi ragazzi fanno con l'elemento comune della sostanza.
Un film estremamente indie e low-budget che cerca una sua filosofia specifica nei paesaggi, nella natura rigogliosa e pericolosa e nei gesti insoliti e stupidi, ma che abbiamo fatto tutti.
Quella di Toad Road è una leggenda americana piuttosto famosa, originaria di Hellam Township, Pennsylvania. Ce ne sono diverse versioni in circolazione, tutte, comunque, sono concordi su un fatto: quel misterioso sentierino che si districa tra i boschi è la via diretta per le sette porte infernali. Chi lo imbocca è destinato a varcare la soglia dell’abisso e non rivedere mai più la luce...

martedì 25 settembre 2018

Mandy


Titolo: Mandy
Regia: Panos Cosmatos
Anno: 2018
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Red e Mandy vivono soli in una casa nel bosco. La loro tranquilla vita familiare viene sconvolta quando, durante una passeggiata nella foresta, Mandy viene notata da Jeremiah, l'inquietante leader di una setta deviata di cultisti. Deciso a trattenere la ragazza nella setta, l'uomo ne organizza il rapimento. Dopo aver provato inutilmente a resistere al brutale assalto dei rapitori, Red e Mandy si risvegliano legati e imbavagliati in mezzo agli adepti del culto. La situazione precipita quando ai due ostaggi viene iniettata una sostanza altamente allucinogena, che trasformerà la loro prigionia in un incubo.

Mandy è l'eccesso, la straripante colata di colori, frattaglie, sangue, musiche che predominano e che danno la possibilità al camaleontico Cage di esagerare in uno dei ruoli migliori di tutta la carriera.
Un film che se ne fotte della trama prendendola solo come pretesto per immergersi in una prima solitudine cosmica per arrivare a diventare un revenge movie assatanato con alcune creature che sembrano uscire dalle pagine di Barker e diventare una nuova squadra di cenobiti che fanno molta più paura del gruppo di satanisti presente nel film.
Una mattanza di insanità e sangue, l'equivalente cinematografico di uno strambissimo trip lisergico di due ore, di puro montaggio a base di heavy metal e satanismo ma anche citazioni letterarie come il libro e le strane e ambigue simbologie alla base, le doppie lune, etc.
Bisogna essere bravi a saper vendere fumo e questo gli americani e soprattutto Cosmatos lo sa benissimo vista la sua filmografia.
Il risultato è una fiaba nera, un horror indie e atipico dove l'esperienza e il modo di raccontare diventa l'essenza del film.
Soprattutto lo stile e ripeto gli eccessi risaltano e prendono le redini del film sin da subito intuendo bene che non ci troviamo di fronte a qualcosa di standard perlomeno nell'uso dei mezzi tecnici, di una fotografia coloratissima e sempre estrema con dei colori saturi che ci immergono nell'incubo vissuto da Red.
Una psichedelia a livelli bassi ma con un tasso di adrenalina molto alto e con una curiosa voglia di rompere alcuni schemi in un mix di generi dove sembra esserci quasi tutto e che sembra più che altro essere un concertone metal che non ha bisogno dal secondo atto in avanti di essere del tutto coerente.

mercoledì 15 febbraio 2017

Greasy Strangler

Titolo: Greasy Strangler
Regia: Jim Hosking
Anno: 2016
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Il film racconta la storia di Ronnie, un uomo che gestisce un tour di Disco Walking assieme al figlio Brayden. Quando una donna sexy e affascinante prende parte al tour, comincia una competizione tra il padre e il figlio per attirare le attenzioni della donna. Nel frattempo un maniaco viscido e disumano soprannominato ''The Greasy Strangler'' si aggira per le strade di notte a strangolare innocenti.

Esercizio di stile, hipsterata doc, viaggio di nozze weird, trashata mega galattica? Innanzitutto bisogna fare una premessa su coloro che hanno reso possibile questo film che altrimenti non avrebbe mai preso vita (sono sicuro che qualcuno sperava che non si facesse). Infatti dietro a questa produzione troviamo Tim League di Drafthouse Pictures, il regista di culto Ben Wheatley e l'attore Elijah Wood.
Greasy Strangler è un po di tutto e niente di tutto questo. Un film che da spiegare non si può, bisogna vederlo apprezzarlo o detestarlo senza esitazioni.
Un indie disgustoso e offensivo, maniacalmente divertente, anomalo e strano come il regista alla sua opera prima che confeziona qualcosa di non solo bizzarro ma una prova d'amore per John Waters e Lloyd Kaufman e tanta altra scuola.
Abbiamo padre e figlio che fanno schifo oltre ogni modo, forma e misura. Il loro bisogno di provocare e inondare lo spettatore con dei dialoghi che sembrano un'ammissione di negligenza e omosessualità repressa è sintomatico per un film che proprio non riesce ad essere preso sul serio.
Allo stesso tempo è così confezionato bene che ogni accessorio è studiato così ad hoc e impreziosito con dei colori sgargianti e dei contrasti che bilanciano tutto lo scenario che non è mai improvvisato come potrebbe sembrare.
Greasy Strangler oltre ad essere una commedia horror è un'esperienza da fare sobri, vomitando scemenze e depositando resti fecali di un abominio alimentare trattato senza nessun riguardo e con uno schifo cosmico che non vedevo da un pezzo. Il film comunque non è affatto stupido ma si traveste in questo modo per cercare nei suoi silenzi e nelle espressioni luciferine e autistiche dei suoi personaggi, un'alienazione dalla società post-contemporanea e un inno all'anarchia più pura e dura dove padre e figlio combattono per chi ha il cazzo più duro e si fa valere a letto.
Il finale forse è la parte peggiore in cui il regista vuole dare con una metafora un significato alla lotta di questo improbabile duo inserendo un paio di scene che non giovano come dovrebbero e che sembrano dare complessità e intenti politici a un prodotto che vale la pena che voli basso per non rovinare quella componente grassa e cangerogena di cui Ronnie è succube e dipendente.



mercoledì 18 novembre 2015

Cooties

Titolo: Cooties
Regia: Cary Murnion, Jonathan Milott
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Un misterioso virus colpisce una scuola elementare isolata, trasformando i bambini in età pre-adolescenziale in selvaggi senza cervello. Un improbabile eroe deve guidare una banda di insegnanti nella lotta contro i mostruosi scolari.

Gli allevamenti intensivi sono sempre più nascosti e fanno sempre più schifo. Sapere che le carni che mangiamo vengono trattate senza nessun ritegno e rispetto è cosa nota a tutti.
Se la sofferenza degli animali, in questo caso dei polli e infatti di pollo fritto si tratta, potesse esprimersi, le conseguenze sarebbero le più oscene ed estreme.
I bambini ormai da anni sono stati presi di mira dalla cinematografia come metafora di un infanzia perduta, una vendetta contro il mondo degli adulti che non si prende più cura di loro, contro un sistema che li usa soltanto come merce e che gli abbuffa di antibiotici e tante altre schifezze.
Se pensiamo a pellicole interessanti su come i bambini prendano altre sembianze (dovute a svariati motivi) i rimandi possono essere IL VILLAGGIO DEI DANNATI, ma molto di più MA COME SI PUO' UCCIDERE UN BAMBINO del '76, vero cult e capolavoro del genere, oltre ad essere un precursore quasi assoluto sul tema.
Perchè comunque è di virus che si tratta, in cui questi bambini diventano voraci di carni umane e estremamente animaleschi, senza arrendersi di fronte a niente e nessuno.
L'opera prima della coppia di registi sponsorizzata dal protagonista Elijah Wood, è un mix di orrore e commedia, un impianto con un ritmo furibondo e tanta ironia, pieno di disgusto e violenza, oltre che mettere in atto una carneficina in cui i bambini vengono letteralmente presi, picchiati e infine maciullati.
Dosando tempi comici e uno stile colorato pastelloso, il duo firma un film divertente e violento, con un concept e una produzione azzeccata, anche se purtroppo con pochissime e risicate idee di sviluppo che fanno sì che la struttura narrativa sia ampiamente prevedibile.


martedì 29 settembre 2015

A girl walks home alone at night

Titolo: A girl walks home alone at night
Regia: Ana Lily Amirpour
Anno: 2013
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Nella città fantasma iraniana di Bad City, un posto che puzza di morte e solitudine, i depravati abitanti non sono consapevoli di essere inseguiti da una vampira solitaria.

All'appello mancava una vampira iraniana col velo che gira su uno skateboard.
Dopo otto cortometraggi, finalmente la regista persiana nata in Inghilterra e trapiantata negli States, firma il suo esordio con un notevole film di genere che contamina il noir, il dramma e lo spaghetti-western, strizzando l'occhio all'horror ma solo perchè tratta dei signori della notte.
Una giustiziera armata di denti che si nasconde dietro gli abiti locali, che incontra e decide il destino degli aguzzini presenti nella città.
Un film in b/n con molti silenzi e un'atmosfera insolita e citazionismi a raffica, mescolando e sapendo ottenere un dramma insolito con un happy-ending, un viaggio di iniziazione con delle musiche e alcuni balletti molto coinvolgenti e soprattutto l'amore che non conosce regole neppure per i vampiri.
C'è molto nel film della Amirpour, giovane e motivata che riesce a cogliere numerosi aspetti della sua protagonista e del resto dei personaggi rimanendo sempre molto attenta ai dettagli e sensibile in ogni aspetto che tratta.

Ed è un film che ha sicuramente avuto molte difficoltà essendo di fatto low-budget. Ad esempio tra i produttori c'è Elijah Wood, il film poi sembra essere stato girato nei dintorni di Los Angeles, è di fatto una produzione americana fatta da attori iraniani.

sabato 27 giugno 2015

Open Windows

Titolo: Open Windows
Regia: Nacho Vigalondo
Anno: 2014
Paese: Spagna
Giudizio: 2/5

Nick è un ragazzo fortunato. Jill Goddard, la più eccitante attrice sulla terra, sta romuovendo il suo ultimo film e Nick ha vinto come primo premio di un concorso on-line una cena con lei. Ma sul più bello una telefonata di un certo Chord lo informa che l'appuntamento è stato cancellato. Una terribile verità viene pian piano a galla, rivelando che tutto è stato organizzato da Chord e che Nick è solo un ingranaggio di un piano ben più grande.

Una storia sulla rete e il potere dilagante della tecnologia mediatica caotica e a tratti confusionaria.
Se non fosse stato per il cast, Maskell forever (anche quando partecipa a film senza senso), Wood e la porno-attrice che non sa recitare, Sasha Grey, e un nome promettente come quello del regista Vigalondo, non credo avrei fatto la conoscenza di Open Windows.
L'inizio è già profetico di un ritmo penetrante quanto però inconsistente.
Passa da un estremo all'altro, da un trailer, a una presentazione, ad un pc e poi a telecamere e media dosati in dismisura senza riuscire mai a dimostrare una coerenza narrativa.
Possiamo definirlo un cyber-thriller anche se a tratti vorrebbe essere una riflessione sul potere dilagante dei media e delle web-cam senza però averne il polso, soprattutto da quando entrano in scena gli omicidi che purtroppo uccidono il film a tutti gli efffetti.
La faccia da disadattato Wood forse comincia ad essere pedante, Maskell funziona sempre come pazzo e il team francese di hacker sembra una parodia di un film di Gilliam di serie b.
Quello di Vigalondo è un incubo informatico vuoto e dilaniato da una fretta di mostrare più che creare che ne sancisce il limite più grosso, minando completamente la comprensibilità di quello che sta succedendo.
Ed è un peccato perchè il film partendo in maniera quasi soddisfacente dal punto di vista dell'atmosfera a dispetto del problema legato alla trama (davvero pedante l'incipit iniziale), poteva essere una critica interessante sull'eccesso d'informazione e lo spionaggio domestico.