Titolo: Wolfpack
Regia: Crystal Moselle
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 4/5
I sette fratelli Agulo, di madre
statunitense e padre Inca peruviano, sono cresciuti nel Lower East
Side di Manhattan come su un'isola deserta: per anni infatti hanno
vissuto segregati in casa, uscendo un massimo di nove volte l'anno, e
qualche anno non uscendo mai. Papà Oscar era l'unico a possedere le
chiavi di casa, a decidere come e quando ci si potesse spostare
all'interno dell'appartamento, ad assicurarsi che moglie e figli non
venissero "contaminati" dal mondo esterno. Sui suoi
famigliari l'uomo, seguace del culto Hare Krishna, aveva un potere
assoluto. Del resto per i suoi sei figli maschi e la sua unica figlia
femmina, nonché per la consorte, Oscar era Dio: un dio
intransigente, a volte violento, spesso ubriaco e fuori controllo,
sempre onnipresente.
Wolfpack è una realtà triste,
purtroppo contemporanea ma al contempo estremamente eccezionale.
Un ritratto di una solitudine e di una
libertà negata che lascia increduli.
E'incredibile pensare che al giorno
d'oggi in Occidente alcune realtà possano continuare a persistere.
La storia della famiglia Agulo non è
l'unica, ma al contempo è tra le poche che si ha la possibilità di
osservare all'interno delle mura domestiche.
Infanzia e adolescenza ripresi e
cresciuti in un microcosmo di New York. Casa = prigione.
Un binomio che sembra piacere e
soddisfare solo l'esigenze e gli intenti di un padre depresso e
alcolizzato che vigila e controlla come un despota i suoi figli,
picchiando la moglie e ancorandosi ad un'ideale di fede che non
lascia spazio alla ragione.
Tutti e sette i fratelli sono alienati
(tra questi c'è anche una sorellina, Visnu, affetta dalla sindrome
di Turner e volutamente lasciata quasi del tutto in disparte). Il
cinema diventa allora l'unica possibilità di redenzione o di
astrazione da un contesto che priva di fatto ogni possibilità di
socializzazione e istruzione lasciando tutto sulla creatività e
immaginazione di questi fratelli autodidatti.
I film diventano gli strumenti
attraverso cui conoscere e dare un senso alla realtà e riprodurre le
medesime scene come attori protagonisti di una realtà deviante.
Wolfpack è crudele quanto tenero
nell'approccio con i suoi protagonisti.
La loro sensibilità e bontà, il loro
amore per la conoscenza e la curiosità di dare un senso alle proprie
esistenze. La loro rabbia nei confronti del "dio" padre che
pensa che chiuderli in casa e privarli della libertà sia sinonimo di
salvaguardia e purezza, senza rendersi conto che l'unico canale che i
figli hanno è il cinema con alti tassi di contenuti violenti, sono
solo alcuni dei temi e degli aspetti che la regista approfondisce.
Sembra quasi un esperimento sociale, un
documentario sociologico post-moderno, che pur non trovando sempre
una linearità e una struttura ordinaria di come mettere insieme il
materiale, trova comunque un fatto sociale così innovativo da
risultare un operazione coraggiosa e sperimentale.
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