Siamo a Mashhad, seconda città più grande dell'Iran e importante sito religioso. Nel 2000, un serial killer locale inizia a prendere di mira le prostitute per strada, strangolandone diciassette dopo averle attirate una ad una a casa sua. La stampa lo chiama "il ragno", e tra i giornalisti che coprono il caso c'è Rahimi, una donna che viene da Teheran e si mette sulle tracce dell'assassino. L'uomo si rivelerà essere Saeed Hanaei, ex-militare convinto che Dio gli abbia affidato la missione di liberare la città dalle donne indegne che vendono il proprio corpo.
Dopo Shelley e Border, il regista iraniano naturalizzato danese se ne esce con il film più tosto e maturo della sua breve carriera che sicuramente non avrebbe potuto girare in altre circostanze.
Un film apertamente politico su una delle realtà più retrograde e maschiliste della politica iraniana, la donna ancora oggi perseguitata e presa a frustate nelle piazza principali.
Un film coraggioso che parla di un caso di cronaca ormai passato alla storia ma anche e soprattutto di prostituzione, tossicodipendenza e processi. Girato in Giordania per ovvi motivi e destinato a far parlare e discutere di sè, il film è uno spaccato reale diviso in due parti che racconta l'assurdo di come per un fanatismo religioso si possa arrivare a commettere dei crimini a danno di prostitute sole, malate e trattate come esseri inferiori dalla società. Abbasi sembra concentrarsi su tutte le contraddizioni che regnano nel paese mettendo in scena l'arretratezza culturale di un regime teocratico che tende a sminuire e reprimere la figura femminile tollerandola solo in mezzo alle strade per umiliarla maggiormente. Dall'altro senza intervenire su un problema grosso che arriva dall'Afghanistan che si chiama eroina in una città piena di sciiti e cosiddetta Santa che mitizza i discorsi di odio degli ayatollah dove il fanatismo religioso giustifica e sostiene il machismo istituzionalizzato nella società iraniana
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