Titolo: Bad Boy Bubby
Regia: Rolf De Heer
Anno: 1993
Paese: Australia
Giudizio: 4/5
È da trentacinque anni che Bubby vive in una
stanzetta senza finestre, solo, con sua madre e un gatto. La vita in casa
procede tranquilla: Bubby e la mamma fanno il bagno insieme, vanno a letto
insieme e non solo per dormire. Poi un giorno arriva papà e per Bubby non c'è
altra soluzione che ripetere il trattamento riservato al gatto: avvolgere nel domopack
i genitori e farli morire d'asfissia.
Stranamente co-prodotto dalla Fandango, il
film di De Heer, olandese, si ritaglia fin dalla scena madre inziale una sua
particolare atmosfera in cui per tutta una prima e malatissima parte, rimaniamo
semplicemente in uno scantinato fatiscente che sembra riflettere il caos e la
patologia che segue madre e figlio, in un rapporto morboso che non sembra
lasciare spazio al cambiamento, ma riflettendo una silenziosa sintonia di
schiavitù e dipendenza da ambo le parti.
Poi Bobby scopre il mondo e si rivela
curiosissimo di entrarci dentro con tutta la sua carica eversiva, la sua
schizofrenia e la metafora del male sociale che spesso e volentieri è molto più
manifesto nella società che non latente tra le mura di casa, come nel caso di
Bobby, o forse ancora una semplice metafora di un estraneo al progresso della
società.
Un viaggio di formazione tra amicizie
improvvisate, donne con enormi tette, maternage in strutture psichiatriche,
rapine e concerti, e infine lo scontro fede/ragione in due interessanti scene
che non nascondono da parte del regista una certa critica di fondo.
Premiato a Venezia, il film di De Heer, che
non tralascia per tutta la seconda parte una certa ironia, è spiazzante, crudo
e minimale, senza prendere mai strade troppo contorte ma rimanendo quasi una
trip metafisico volutamente provocatorio e gratuito, sgradevole ed eccessivo
con cui l’ottimo interprete segue e da uno sguardo privo di giudizio con quegli
enormi occhioni azzurri che piangono la miseria di questa società.
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