Titolo: Blade Runner 2049
Regia: Ridley Scott
Anno: 2017
Paese: Usa
Giudizio: 4/5
L'agente K è un blade runner della
polizia di Los Angeles, nell'anno 2049. Sono passati trent'anni da
quando Deckart faceva il suo lavoro. I replicanti della Tyrell sono
stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Niander Wallace e ha
convinto il mondo con nuovi "lavori in pelle": perfetti,
senza limiti di longevità e soprattutto obbedienti. K è sulle
tracce di un vecchio Nexus quando scopre qualcosa che potrebbe
cambiare tutte le conoscenze finora acquisite sui replicanti, e
dunque cambiare il mondo. Per esserne certo, però, dovrà andare
fino in fondo. Come in ogni noir che si rispetti dovrà, ad un certo
punto, consegnare pistola e distintivo e fare i conti da solo con il
proprio passato.
Blade Runner 2046 bisognerebbe cercare
di guardarlo senza troppe pretese cercando di dimenticare per un
attimo che la macchina hollywoodiana sta cercando di puntare sui vecchi cult per vedere se con le tecniche digitali odierne possano
accadere i miracoli. Dal punto di vista della c.g mi verrebbe da dire
certo che sì, per quanto concerne la storia e la sceneggiatura nì.
Blade Runner è solenne e distopico.
Minimale e patinato all'inverosimile. Apocalittico e cinico.
Villneuve rimane uno degli unici insieme forse a Cuaron a poter
cercare di dare carattere, sostanza e atmosfera al film
strutturandolo con la sua politica da autore e riuscendo ad affinare
ancor meglio la tecnica. Un'opera che per diversi punti e davvero
inquietante mostrando come forse finiremo e tracciando alcuni squarci
che la politica del Cacciatore di Androidi di Philip K. Dick si è
sempre rivelata profetica sotto certi aspetti e sembianze. La società
nel 2049 è ben peggiore di quella di Deckard mostrando ancora una
volta come un abominio, ovvero dove finisce il confine tra
l’obbedienza androide e la ricostruzione di un’identità creata
dal nulla ma settata con l’innesto di ricordi artificiali e
soprattutto se tutto ciò viene lasciato in mano a un essere non
meglio definito come Wallace.
Villneuve dicevo rimane uno dei registi
più importanti di questa generazione e non parlo solo per la
diversità nei generi in cui spazia senza difficoltà, non sempre
firmando dei filmoni come accade per Sicario
che risulta per assurdo forse il suo film meno convincente.
Sin dall'inizio del film, lo script a
quattro mani di Fancher e Green, le location e le scenografie di
Dennis Gassner fanno da padrone insieme alla fotografia
dell'immancabile Deakins, le impalcature visive, la musica di Hans
Zimmer e Benjamin Wallfisch che sembra ricordare la fine del mondo,
portando a riflettere sui gesti compiuti dai vari replicanti e anche
qui alcune inquietudini filosofiche che come per Alien-Covenant
lasciano perplessi e non trovano sempre risposte.
Era il novembre del 2019. Il cacciatore
di replicanti Rick Deckard e Rachael provavano a fuggire da un
destino segnato. Qui scopriamo che quanto successo dopo è ancora
peggio. Il colpo di scena su K che scopriamo assieme a lui è una di
quelle magie che il regista spesso conferma nei suoi film regalando
dei climax importanti anche se allo stesso tempo in alcune scelte
come il finale ad esempio appaiono abbastanza macchinose e forse poco
avvincenti. L'aspetto però più conturbante e che Villneuve ha
invece deciso di intraprendere, secondo me facendo un mezzo errore, è
stato quello di voler rendere più dirette questioni, filosofiche e
non, che nel precedente film rimanevano sospese, rischiando a volte
di palesare troppo senza lasciare quell'aura di dubbio.
Qui c'è di nuovo l'amore ma anche il
contatto e la paura di rimanere soli. Nel film di 30 anni fa, la
storia concedeva meno cercando di lavorare di sottrazione e
imbastendo di fatto una log line molto breve in cui de facto un
cacciatore di replicanti doveva svolgere il suo lavoro mentre qui
oltre quel lavoro, il nostro agente K scopre il disegno che sta
dietro la svolta che rischia di cambiare le sorti del pianeta.
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