Titolo: Zero Theorem
Anno: 2013
Paese: Usa
Giudizio: 3/5
Qohen Leth è un eccentrico e solitario genio dell'informatica che vive in un mondo orwelliano dominato dalle grandi corporation e soffre di una profonda angoscia esistenziale. Sotto il controllo diretto di una misteriosa figura nota solo come "Il Management", Qohen lavora senza sosta per risolvere lo "Zero Theorem", un problema matematico che potrebbe finalmente rivelare se la vita ha un qualche significato e senso. Il lavoro solitario svolto dall'uomo nella cappella abbandonata dove abita viene interrotto dall'arrivo di Bainsley, una giovane bellissima donna, e di Bob, il figlio adolescente del Management.
Gilliam, regista poliedrico e sempre molto interessante, arriva con questo ambizioso Zero Theorem alla fine della "saga" distopica iniziata con BRAZIL nel '85.
Gilliam và detto è uno dei registi più coraggiosi al mondo a cui è successo di tutto e di più (e davvero non sto scherzando). Avere quindi avuto voglia di cimentarsi su un nuovo progetto molto difficile non è stato di certo facile.
Coadiuvato da un attore perfetto e da un cast funzionale, l'ultima pellicola del maestro, ha dal canto suo una travolgente carica eversiva e un impianto scenografico low-budget, ma non per questo limitato nelle sue incredibili trovate e guizzi artistici.
Nel suo ultimo film i temi e gli argomenti si intrecciano come tanti fili di un'unica matassa anche se alcuni più di altri si impongono come il bisogno per l'uomo, fallita la tecnologia, di approdare sulla sfera spirituale, e come diceva McLuhan, una predilezione dell'uomo verso la tecnologia per rimpiazzare le facoltà primarie, quindi "staccando la spina si stacca l'esistenza".
Infine il vuoto cosmico visto come un'ideal-tipo e molto altro ancora dal protagonista, quasi una nuvoletta dove andarsi a rifugiare senza essere disturbati.
Potrei ancora aggiungere l'agorafobia appena ci si disconnette dalla rete, il lavoro visto come un'incredibile giocattolone 3d dalla sua postazione in cui sistemare parti mancanti per creare un'unico grande complesso che non si sà a cosa servirà o che effetti produrrà, e poi la paura dell'altro e della socializzazione in generale.
La personalità ambigua di Qohen è una perfetta metafora di colui che non riesce a sforzarsi di recitare e indossare maschere come fanno tutti, un'ambiguità davvero difficile da inquadrare, che se da un lato gestisce con i numeri, le formule e quant’altro, dall’altro la sua fede cieca nella "chiamata", la sua ossessione, che qualcuno lo chiami al telefono di casa (e solo a quello) per informarlo circa il senso della sua vita (citazione in parte anche del corale MONTHY PITON-THE MEANING OF LIFE)
Chi ruota attorno a lui sono tutti personaggi pazzeschi, quasi degli attori sociali che non riescono più a saper dare speranza e volto ad una società.
Dalla Dr Shrink Rom alias Tilda Swinton che quando toglie la parrucca e canta un brano hip-hop, è la ciliegina sulla torta, assieme agli altri che si ritagliano ruoli caricaturali deliziosi e interessanti.
Un altro aspetto che mi ha fatto riflettere del film credo sia il dolorosissimo finale, forse uno dei momenti più intrisi di uno spirito cinico, così come una buona parte del soggetto che cerca di spiegare il teorema 0, ossia la prova che l’universo è inutile e che un giorno avverrà il big bang al contrario.
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