Titolo: Ballata di Narayama
Regia: Shohei Imamura
Anno: 1983
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5
Dal romanzo Le canzoni di Narayama (1956) di Shichiro Fukazawa, già portato sullo schermo con La leggenda di Narayama (1958). Nel Nord del Giappone c'è il Narayama, monte delle querce, sul quale _ secondo un'antica usanza religiosa, dettata dalle dure leggi della sopravvivenza _ ancora nel 1860 venivano trasportati i vecchi di 70 anni ad attendere la morte
Ho scoperto tardi il fascino e il talento visivo che possiede il regista giapponese nel saper cogliere una moltitudine di aspetti naturalistici.
Scomparso nel 2006 ci ha lasciato diverse pellicole da scoprire e riconsiderare negli anni.
Vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 1983, questo film, tratto dal libro Uomini di Tohoku di Shichiro Fukazawa, è un remake dell’omonimo film del 1958 diretto da Keisuke Kinoshita.
Si differenzia tuttavia dal suo predecessore per la messa in mostra, lo stile e il linguaggio.
Aderisce più a una dimensione realistica che ad una onirica e poetica del linguaggio kabuki.
Il Narayama è la montagna dei defunti, su cui gli anziani vengono accompagnati dai figli, per attendere la morte nel silenzio e nella solitudine, una condizione che equivale alla vicinanza con la divinità, mostrando per altro una differente impronta culturale e antropologica della civiltà orientale a dispetto di noi occidentali. Per certi aspetti un discorso molto simile per certi aspetti con altre culture e luoghi come l'importanza e la sacralità per gli hindu nel Gange a Varanasi.
Questo è l’unico elemento poeticamente sublime in un Giappone arcaico e primitivo, in cui l’uomo condivide, con il resto del regno animale, gli impulsi sessuali e gli istinti aggressivi.
La bestialità si manifesta nell’incesto, nella zooerastia, nel linciaggio, nell’infanticidio, che si consumano come riti esoterici, in un’umanità dedita alla vita come ad una caotica lotta contro gli spiriti del male. Il peccato originale si moltiplica, tra gli abitanti di un piccolo villaggio rurale, assumendo in ognuno una forma diversa: ogni individuo ha la propria personale condanna da scontare, e a questa cerca di ribellarsi con tutte le sue forze, senza alcun vincolo morale. La povertà, la malattia, la vedovanza, l’impossibilità di amare sono le disgrazie che rendono l’uomo inquieto e vorace, sullo sfondo di una natura selvaggia che rispecchia in pieno i suoi ancestrali appetiti. a compiere l’estremo pellegrinaggio, è una figura pacificatrice, che sovrintende all’amore e all’odio, conciliando tutti i contrasti nel quadro di una necessità cosmologica. Il suo esempio insegna la rinuncia alla guerra ad oltranza, alla resistenza oltre il limite imposto dal ciclo vitale, e la sottomissione alle leggi dell’universo. Il modo in cui la donna dirige le danze nella sua famiglia terrena è la recita di una ballata di corteggiamento, rivolta alla dimensione superiore a cui sta per consegnarsi spontaneamente.
Un finale sublime ed emotivamente struggente per un'opera che rappresenta alcuni punti fermi del pensiero e della poetica nipponica.
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