Titolo: Robinù
Regia: Michele Santoro
Anno: 2016
Paese: Italia
Giudizio: 3/5
Un mondo di soldati bambini che
imparano a sparare a 15 anni, a 20 sono killer professionisti e
talvolta non arrivano ai 30. Michele Santoro li incontra e li fa
parlare. Ma non si trovano, come si potrebbe pensare, in qualche area
del continente africano. Vivono e combattono una guerra, che è
arrivata a contare fino a 80 morti, nelle vie e nei vicoli di
Napoli.
Ormai il cinema d'inchiesta non viene
solo più fatto da registi ma anche da ex politici e giornalisti.
La critica più grossa che si può
muovere a Santoro è lo scarso lavoro sugli intenti e sugli
obbiettivi che il documentario si pone. Sembra una videocamera che in
alcuni momenti di nascosto filma dialoghi e monologhi a caso nei
quartieri spagnoli di Napoli, in cui gli stessi intervistati spesso e
volentieri risultano spiazzati, alcuni presi alla sprovvista mentre
altri semplicemente non capiscono se sia una cosa seria o interviste
che magari non verranno nemmeno trasmesse.
Il (macro)cosmo napoletano della
paranza dei bambini quel fenomeno che ha fatto si che la camorra,
soprattutto in zone centrali di Napoli, continui le sue faide armando
minorenni e distruggendo famiglie e quartieri interi ha dalla sua
alcune scoperte e volti che si imprimono nella psiche dello
spettatore con una forza e una violenza tremenda.
Vengono intervistate tante famiglie,
tante persone, tante storie narrate con l’occhio investigativo da
inchiesta e con il giusto tempo filmico affinché vengano esplicate
per bene le condizioni dei ragazzi, la cui unica sfortuna è quella
di vivere in quei territori. Viene raccontato tutto, dal mondo che li
attornia fin dalla nascita, a come vengono attratti dal sistema e
fino alla loro incarcerazione, per i più fortunati che sono in
carcere e che hanno la possibilità di replica.
Le riprese attraversano le case, i
quartieri ma soprattutto entrare dentro Poggioreale per scoprire la
storia di Michele, un ragazzo che va per la sua strada, non
appartiene a nessuna fazione, vuole una propria paranza, riceve
lettere d’amore dalle ragazze in visibilio per lui, incosciente,
sarcastico, sopportando il carcere con disinvoltura sapendo che la
sua unica strada è quella.
L'unica vera domanda e riposta che il
documentario ottiene è anche quella che fa più male, lascia
perplessi e lascia la domanda aperta in questo caso alle istituzioni,
su cosa vogliano fare.
Tutti i ragazzi ribadiscono la stessa
cosa e il dato è davvero inquietante. Il primo a dirlo manco a farlo
apposta è proprio Michele.Ma che futuro può avere un ragazzo
incarcerato a 17 anni, che se va bene esce a 40 anni, quando l’unica
cosa che ha conosciuto è la malavita, come si spaccia, l’estorsione
e la prostituzione? Quale futuro gli si propone se in carcere non
vengono avviati alcuni programmi di recupero, scolastico o di
rieducazione? "Dentro il carcere non avviene nulla e quando
usciremo saremo ancora più cattivi "
Questa frase e questa immagine
dolorante dovrebbe far riflettere e cercare in qualche modo di porre
un rimedio o almeno sperare che in futuro qualcuno riprenda in mano
la situazione cercando di investire proprio all'interno delle
carceri. Robinù così viene chiamato Michele dal padre, rubava ai
ricchi per dare ai poveri, insegnando tra l'altro che proprio in
quelle zone nessuno dei baby aspiranti boss mostra di aver avuto
bisogno dei personaggi della fiction per desiderare di entrare nel
mondo della criminalità più o meno organizzata come dice GOMORRA e
i libri di Saviano.
Robinù è una tragedia in corso
quotidiana, un'emergenza che non si vuole vedere, un documentario
sporco, disorientante, segno di un’esperienza non collaudata e pure
girato con una certa fretta.
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