Regia: Lisa Brühlmann
Anno: 2017
Paese: Svizzera
Giudizio: 3/5
Mia ha quindici anni e si è appena trasferita con la famiglia a Zurigo, in una nuova casa e in una nuova scuola. Non è facile ambientarsi, e per Mia non lo è nemmeno nel proprio corpo, che sta cambiando rapidamente, spaventandola. Non controlla i suoi istinti, che le fanno fare cose strane, e comincia ad avere dei misteriosi problemi cutanei alle gambe. La frequentazione di Gianna e delle sue amiche, ragazze che passano il tempo a bere e a combinare incontri di sesso via smartphone, la porta a sedare con l’alcool le sue preoccupazioni, ma la trasformazione del suo corpo non si arresta e prende il sopravvento.
Le sirene al cinema negli ultimi anni hanno avuto alcuni adattamenti particolari, chi virato verso l'horror sanguinolento Siren, chi verso una forma ibrida di cinema mischiando tanti generi inserendo addirittura il musical come Lure in un perfetto film d'autore e chi cerca come in questo caso uno sguardo più terra a terra lasciando da parte una certa dimensione della paura esplorando l'horror per un'esamina più intimista e meno d'effetto.
Partendo dall'adolescenza, quel viaggio di formazione che apparentemente sembra l'ennesimo ritratto di una ragazza che inizia la sua spirale verso il degrado, scopre l'alcool, la droga, il sesso, in un quadro nemmeno così variopinto e colorato in un crescendo che impone cambiamenti implacabili come nuovi appetiti apparentemente insaziabili.
La parte del cinema sociale del film è povera, attingendo da una famiglia ambivalente nel decidere di essere onesta o no con la propria figlia circa le sue origini, un male che piano piano aumenta diventando un grido nascosto e disperato che la protagonista cerca di mettere a tacere con le sostanze o con la ricerca dello sballo a tutti i costi (la scena dove viene drogata e imbavagliata da un gruppo di ragazzi ha evidenti richiami al bellissimo Raw della Ducournau in cui anche l'elemento del corpo come luogo di cambiamento volontario/involontario viene reso in maniera abbastanza approfondita).
La malattia interna (se possiamo definirla tale) porta Mia ad essere vista come una diversa, peculiarità che la ragazza nel finale, davvero bellissimo, sposerà senza timore e paura, l'auto accettazione, come dice alla sua migliore amica nell'ultimo dialogo.
La Bruhlmann disegna così Mia nel suo disagio, nel non capire cosa stia succedendo, come lo stesso mondo attorno a lei dai medici agli psicologi, tutti increduli senza riuscire a darle una risposta. Tutto il mondo degli adulti attorno a lei è muto, ma solo gli amici, quelli che valgono, come Gianna sanno capirla. La trasformazione finale nel terzo atto è un vero e proprio tributo alla diversità, senza mai edulcorarla o esagerarne la messa in scena, ma tratteggiandola come un essere prima di tutto umano che non vola, non ha i denti acuminati, non infila la sua delicatissima coda a punta nell'ano di qualcuno.
Mia entra nel suo mondo, esplorandolo e cercando in quella apparente diversità gli spunti per ergersi a diventare qualcosa di nuovo e molto profondo.
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