Visualizzazione post con etichetta Torino Film Festival. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Torino Film Festival. Mostra tutti i post

domenica 24 dicembre 2017

Most Beautiful Island

Titolo: Most Beautiful Island
Regia: Ana Asensio
Anno: 2017
Paese: Usa
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 3/5

Le disavventure di una spagnola squattrinata che accetta, una sera, un lavoro ambiguo: andare, elegante, a una festa per farsi guardare. Ma la festa conduce a una stanza misteriosa.

Quando si dice metterci l'anima nelle cose.
Ana Asensio ha lasciato Madrid per la Grande Mela cercando fortuna. Infine è tornata in Europa a dirigere quest'opera prima. Ana Asensio è la regista e l'interprete di questo film. Ana Asensio è belllissima oltre che dotata di empatia e di una mimica facciale che dice tanto senza bisogno di molte parole.
Cosa fare per procacciarsi dei soldi? Fin dove si è disposti ad arrivare? L'assunto dell'esordio della regista spagnola è semplice quanto interessante e ricco di possibili e diverse interpretazioni.
Qui è la discesa negli inferi, quelli veri con rimandi a REPULSION e EYE WIDE SHUT (in piccola parte). Una condizione di povertà dove ancora una volta le "minoranze" sembrano vengono prese di mira e scelte da un addescatrice in un circolo vizioso di ricchi pronti a spendere qualsiasi cifra per l'ultima e bizzarra moda che si consuma in alcune cantine segrete.
New York non è Madrid sembra dire la Asensio. La grande mela è una macchina del fumo consumistica con tanti colori e alcuni possono accerare così tanto da portare ad azioni estreme raccogliendo il meglio e il peggio del genere umano.
Senza stare a fare spoiler perchè tutto il film è costruito sul climax finale, si vede o meglio si capta tanto quanto la regista si racconti attraverso le immagini. Non ne ha fatto mistero contando la sua esperienza vissuta in prima persona e sofferta quando era un'immigrata in un paese poco accogliente. Nel film li ha plasmati nella struttura di un thriller che segue la protagonista nei suoi tentativi non solo di sopravvivere, ma di sfuggire ai suoi fantasmi e soprattutto a stravolgere e rivoluzionare le catene con cui le donne di solito vengono imprigionate ma senza fare ricorso al revenge-movie o a stragi senza senso.

Da questo punto di vista il film vince il traguardo più grosso. La rivoluzione di Ana è più complessa, più variegata, sa di non avere possibilità contro il nemico e così decide di attaccarlo seguendo un'altra strategia.

Riccardo va all'inferno

Titolo: Riccardo va all'inferno
Regia: Roberta Torre
Anno: 2017
Paese: Italia
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 2/5

In un Fantastico Regno alle porte di una città di nome Roma, vive in un decadente Castello la Nobile Famiglia Mancini, stirpe di alto lignaggio che gestisce un florido traffico di droga e di malaffare. Qui, Riccardo Mancini è da sempre in lotta con i fratelli per la supremazia e il comando della famiglia, dominata dagli uomini ma retta nell'ombra dalla potente Regina Madre, grande tessitrice di equilibri perversi. Tornato a casa dopo un lungo ricovero in un ospedale psichiatrico, Riccardo inizia a tramare per assicurarsi il possesso della corona, assassinando chiunque ostacoli la sua scalata al potere.

"L'unico perdono possibile resta sempre la vendetta"
Riccardo va all'inferno è uno dei film trash italiani più costosi degli ultimi anni.
Al TFF come sempre nella sezione After Hours il pubblico sembrava "domandarsi il perchè" dopo la prima del film. Qualcuno rideva, qualcuno agitava la testa confuso come per chiedersi cosa avesse visto, ma l'atmosfera generale era di stupore anche se in senso negativo.
E'difficile cercare di essere critici e seri con un film che diciamoci la verità "si prende sul serio" pur non riuscendoci. Torre vuole portare la tragedia quella shakespiriana di Riccardio III ai giorni nostri. Vicende di mafia mischiate in un mondo che prende prestiti un po ovunque dal cinema e inserisce un nutrito cast di attori che pur scimmiottando e recitando sopra le righe, riescono almeno a creare un'impalcatura che per certi versi regge la tragicommedia.
C'è da dire che non è mancato il coraggio alla regista. Di questi tempi in cui è sempre più difficile provare il cinema di genere in Italia, quest'opera al di là dei pregi e dei difetti ha coraggio da vendere. Alcuni momenti e squarci che la scenografia disegna sono interessanti come il Regno del Tiburtino, il bestiario periferico, alcuni settings visionari, i mascheroni che sembrano uscire da Trash Humpers, ma poi tutto comincia a diventare tessera di un mosaico non suo dai costumi e una vena dark che sembra uscire da DARK CITY, un'amore incondizionato per Terry Gilliam, la cura Ludovico Bis di ARANCIA MECCANICA, etc
Quello che non regge è il taglio da musical che in diverse parti spezza quanto di buono e orrorifico l'atmosfera e il ritmo cercavano di fare, in alcuni momenti davvero noiosi e in cui per quanto Ranieri si sforzi di dare dignità e spessore al personaggio, assume in dei momenti un taglio farlocco e volontariamente o involontariamente comico.
Nel cast Sonia Bergamasco riesce ad essere utilizzata bene con un personaggio, una genitrice mefistotelica, che seppur già visto ha i suoi momenti di svago e di potenziale originalità. Camei a volte non sfruttati a pieno come quello della Calderoni e di Frezza purtroppo potevano regalare qualcosa di più.
Come film corale, revenge-movie e dramma grottesco Riccardo non sempre vince alternando momenti statici e tragicomici con altri in cui allo sforzo non è conseguita la riuscita.
L'unico successo al di là del coraggio, è che questo è il più bel film della regista finora.
Nel suo disordine e caos, nella sua ossessione per il corpo e la mutilazione, per i freak e quanto di più storpiato e deturpato, quest'opera con tutti i suoi infiniti limiti ha qualcosa di affascinante.



mercoledì 20 dicembre 2017

Revenge

Titolo: Revenge
Regia: Coralie Fargeat
Anno: 2017
Paese: Francia
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 3/5

Jen, una lolita dei giorni nostri, viene invitata da Richard, il suo ricco amante, alla tradizionale battuta di caccia che l’uomo è solito organizzare con due amici. Lontana da tutto e immersa nello spettacolare scenario del Grand Canyon, la ragazza diventa presto preda del desiderio degli uomini e la gita prende una piega inaspettata…

«Si trattava davvero di simbolizzare la mutazione di un certo modo di rappresentare la donna al cinema, troppo sovente vista come semplice comprimario o come oggetto sessuale da svestire o sminuire. Inizialmente il film gioca con questo tipo di rappresentazione, spingendola però all’estremo fino a sfociare nella sua controparte brutale. A quel punto la protagonista diventa la vera figura forte del film, una supereroina donna e il motore dell’azione». Dopo la Ducournau ecco un'altra regista da tenere d'occhio.
Un Rape & Revenge frizzante e iperbolico di una bellezza visiva incredibile con una fotografia immensa che riesce a mettere in risalto anche le formiche che rosicchiano la ferita di Jen quando cade nel precipizio. Revenge semplicemente spinge l'accelleratore al massimo tra estetica patinata e gore spinto a manetta. A parte che l'opera prima di Fergeat sembra essere la risposta a quella parte dell’universo femminista che si limita a indignarsi o a protestare sui social media senza poi fare nulla di concreto. Qui la Lolita, una bellissima modella italiana poco conosciuta, si stacca il tronco dal corpo e cicatrizza tutto con la lamiera incandescente di un barattolo per citare RAMBO tra i più depredati all'interno delle ampie citazioni che la Farget non nasconde.
Revenge scorre davvero che è un piacere e deflagra in un duello finale tra il maschio Alfa e la rinata Femmina Alfa tecnicamente sopraffino ed esplicito oltre ogni misura dove uno dei traguardi più grossi riusciti alla regista è stato quello di riuscire a caratterizzare molto bene i protagonisti (4 per tutto il film) e a renderli, soprattutto gli uomini e soprattutto gli ultimi due arrivati a far così schifo e dare un quadro di quelli che sono ne più ne meno gli intenti borghesi e dove in tutto ciò finisce la donna. In questo la villa di Richard è perfetta per sintetizzare un sistema fasullo, superficiale, intriso di ipocrisia e alimentato da sopraffazione e violenza dove il trio, chiaramente, non poteva che essere fatto da cacciatori armati fino ai denti, nonché morbosi, corrotti e codardi.
Jen imbraccia il fucile e il deserto fa tutto il resto...


Beast

Titolo: Beast
Regia: Michael Pearce
Anno: 2017
Paese: Gran Bretagna
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 4/5

Una giovane donna si innamora di un uomo con il quale spera di poter scappare dalla sua famiglia. Ma sull'isola avviene un omicidio.

"La sinfonia tragica di un’anima interessata a cambiare il proprio destino ma che non riesce a liberarsi da questa macchia che la segue ovunque"
Beast ha qualcosa di fresco e travolgente. Un'aura strana, che sembra unire una narrazione classica appartenente al passato con una nutrita serie di elementi originali e cambi di struttura che portano il film a ottenere alcuni importanti colpi di scena e un climax finale potente e incisivo.
Giovane il regista, come tanti altri anche quest'anno al Tff. Prima di uscire dalla sala ha detto di non confonderlo con il protagonista vista la somiglianza.
Il co protagonista di Beast è un "cacciatore" che arriva dal mare salvando la sua bella da un corteggiatore molesto e inizia una fuga d'amore dimenticandosi della realtà di una famiglia, quella di lei, ambiziosa e borghese. I sentimenti di lei e di lui proprio perchè selvaggi e incontrollabili ad un certo punto esplodono. Da quel punto in avanti l'elemento più bello e quello con cui il regista mescola le psicologie dei due protagonisti senza mai farci capire chi nasconde cosa e dove si trova davvero la natura selvaggia di ognuno di noi. In più proprio questo legame sembra ribadire cosa può succedere se lasciamo fuoriuscire la parte messa in ombra da un'immagine costruita su misura degli altri come in questo caso la rigida madre di Moll.
Un film semplice tutto ambientato nella selvaggia e claustrofobica isola di Jersey, un'opera prima vibrante che riesce a raccontare bene tante cose, con uno spirito libero e ambiziosamente anarchico per certi aspetti come le scelte e le azioni dei due bravi e giovani protagonisti.
Un esordio che vive di sentimenti ed emozioni arrivando ad un finale che quasi esplode nel terreno fertile dell'horror accendendo tutti quei toni cupi e ancestrali che Pearce ha aspettato e centellinato per far deflagrare in quella morsa finale.



Sequence Break


Titolo: Sequence Break
Regia: Graham Skipper
Anno: 2017
Paese: Usa
Festival: 35°Torino film Festival
Giudizio: 2/5

Un arcade game abbandonato in una vetusta sala giochi comincia piano piano a influenzare la mente di un giovane tecnico appassionato di videogame vintage e della sua ragazza.

Quest'anno il Tff ha omaggiato l'horror con alcune pellicole anni '80 come non si vedevano da un pezzo. Quest'anno più che mai si è arrivati al fenomeno del revival e del trend del revisionismo cinematografico più spinto che mai.
Vhs, sinth, macchine del fumo, atmosfere cupe, gelatine coloratissime, tutto ma proprio tutto fa tornare la mente ad una nutrita serie di film "omaggio" dove questa seconda opera di Skipper più di altri sembra proprio voler a tutti i costi confrontarsi con Cronemberg e Stuart Gordon.
Skipper è giovane, la sezione After Hours non poteva sposarsi meglio e la presentazione del suo film è stata semplice, sincera e divertente. D'altro canto per chi non lo conoscesse fa parte di un nutrito gruppo di nerd che avevano dato vita al coraggioso indie, anch'esso horror e anch'esso nostalgico Beyond the gates (purtroppo un altro film davvero ben fatto con una sceneggiatura che sfugge dalle mani degli sceneggiatori finendo ad avere alcune buone intuizioni). Il problema grosso di Sequence Break è quando mischia sentimenti e paura, riuscendo fino al secondo atto a muoversi tutto sulla pungente atmosfera di Hughes e scomparendo dietro a una fotografia che riesce bene a dare quel senso di macabro soprattutto nelle parti più legate alle scene di body horror con cui il regista vuole più che mai confrontarsi ma senza avere quell'esperienza e quel talento che non è detto che non arrivi.
Ci sono tanti elementi che cercano di funzionare in modo troppo macchinoso dall'arrivo della ragazza che sembra telefonata per come si innamora subito del protagonista fino al nerd che ha la possibilità di svoltare, il negozio che sta per chiudere e l'arrivo di questo gioco destinato a destabilizzare tutto e tutti.
Il problema grosso dell'opera di Skipper è che non avanza mai, non si spinge più in là del dovuto rimanendo un indie nerd che guarda più alla commedia nera che non alle macchine del PASTO NUDO. Skipper ha cercato di tirare fuori piccoli gioielli tecnologici cercando di rivangare la fusione macchina-uomo ma senza riuscire a chiudere con delle immagini che come alcuni cult ti rimarranno sempre impresse.

Casting

Titolo: Casting
Regia: Nicolas Wackerbarth
Anno: 2017
Paese: Germania
Festival: 35°Torino film Festival
Giudizio: 4/5

Nell'anniversario della nascita di Fassbinder, la televisione tedesca decide di realizzare il remake di Le lacrime amare di Petra von Kant e le candidate al ruolo della protagonista si succedono davanti a una regista inflessibile, che continua a scartarle tutte nonostante manchino pochi giorni all'inizio delle riprese. Speranze e inadeguatezze, isterismi e illusioni del dietro le quinte, con al centro la frustrazione dell'attore di secondo piano che ha accettato di far da spalla alle candidate per i provini.

Ci sono film che riescono ad essere sorretti da alcune grandi prove attoriali.
In questo caso recitazione e improvvisazione per dirla con le parole del regista presente in sala.
Un regista/attore che ha scritto e diretto questo ammirevole film che cerca di raccontare il dietro le quinte muovendosi su piani emotivi e fragilità da entrambe le parti (regista, attrici, maestranze, produzione). Attori ma soprattutto attrici, donne che riempiono la scena mettendo a volte il povero Gerwin in difficoltà tra la vergogna e la sua totale esposizione e flessibilità alle richieste di Vera.
Un film che mano a mano che prosegue diventa sempre più stimolante nel mostrare la tensione e i gradi di potere (la scena con l'attrice famosissima che minaccia la regista è pura estasi chissà se sarebbe piaciuta a Fassbinder), la rabbia e poi il perdono, la voglia di credere in un progetto al di là delle incomprensioni e del proprio orgoglio che sembra essere alla base di quasi tutte le scelte delle protagoniste. Tutti temi, plot e dialoghi che Wackerbarth riesce a mescolare al meglio rimanendo tra l'altro per quasi tutto il film in un unico interno sfruttando lo stesso spazio che di solito viene adottato per i provini anche quelli "improvvisati".
Andreas Lust, dopo il bellissimo e intenso Robber torna a dare un interpretazione forte e celebrale, una caratterizzazione e un personaggio complesso e importante, che pur sembrando marginale diventa testata d'angolo per far intuire tutte quelle problematiche che stanno alla base di un attore e una natura quanto meno incline a cercare di fare sempre la differenza come in questo caso.



giovedì 14 dicembre 2017

Les Affames

Titolo: Les Affames
Regia: Robin Aubert
Anno: 2017
Paese: Canada
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 4/5

Un gruppo di sopravvissuti deve affrontare un'apocalisse zombie nelle campagne del Quebec, tra boschi, prati, e case isolate.

Les Affames è l'ennesimo film di zombie che racconta l'itinerario di un gruppo di sopravvissuti.
L'idea è praticamente quanto di più comune abbiamo visto negli ultimi anni e fin qui sembrerebbe un film come un altro se non fosse che Aubert sembra essersi studiato attentamente ogni inquadratura. Il ritmo nonchè l'azione divora letteralmente i protagonisti, gli zombie e gli spettatori. Con alcune leggere tamarrate come la mattanza di Celine che senza stare a spoilerare è pura adrenalina al femminile con un finale nel bosco che provocherà qualche lacrimuccia.
Les Affames più si narra e più assume contorni e intenti sempre più interessanti in primo luogo da un'atmosfera tesa e rarefatta, in cui sembra esserci sempre uno strato di nebbia come a lasciare tutto in uno stato di sospensione. Esistenzialista, grondante sangue e con livelli di gore molto alti, ad un tratto c'è un vero e proprio geiser di sangue, il film riesce come dicevo a non sembrare ripetitivo, visto il tema, non è un caso che sia canadese dal momento che molti registi indipendenti, soprattutto nell'horror post contemporaneo vengono proprio da quei territori inesplorati e intatti.
Dicevo che l'atmosfera ma anche il senso di sconforto prevale tra tutti, i dialoghi ridotti, il passato che non emerge se non da espressioni intrise e colme di sofferenza con diversi momenti costellati da battute sferzanti e intrise da un ferocissimo humour nero.
Il film ad un tratto, dal secondo atto in avanti, prende una piega vagamente surreale con i non morti che costruiscono un vero e proprio totem che ricorda quanto di più bello scritto dal sociologo francese Durkheim sull'argomento.


Beach Rats

Titolo: Beach Rats
Regia: Eliza Hittman
Anno: 2017
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Beach Rats è la storia di Frankie, un giovane bello e alla deriva che trascorre le giornate con gli amici del quartiere, una periferia in cui domina il machismo. Il ragazzo è sessualmente confuso ma sa che la soluzione non è la condivisione bensì la mortificazione.

"Se lo fanno le donne è sexy, se lo fanno gli uomini è gay" il gesto ovviamente è quello di baciarsi...
Beach Rats è un film vibrante, minimale e molto passionale che racconta il coming out di un ragazzo in una situazione tutt'altro che semplice in un gruppo di pari che non sembra comprendere la sua scelta (che poi sarà davvero tale?)
Proprio da questo spunto il film ad un certo punto si smarca in maniera funzionale, dal secondo atto, facendo intendere un campio di prospettiva, proprio visto dagli amici (sul cyber-bullismo), che la sceneggiatura decide di non seguire concentrandosi in tutto e per tutto su Frankie.
Interessante come il regista segue assiduamente il suo protagonista senza di fatto staccarsi mai da lui ma diventandone un prolungamento tra le chat room in stanza alla scoperta di qualcosa di nuovo, alle timide ritirate con la "ragazza" dovendo dimostrare agli altri la sua scelta sessuale.
Un film che non ama e non predilige particolarmente i dialoghi preferendo i silenzi e gli sguardi assorti come a dare una spiegazione di quanto avviene.
Un tipico indie da festival, un film con tematiche queer che riesce a colpire per la sua profondità partendo dalla routine quotidiana dei ratti da spiaggia finendo per incupire sempre di più, domandandosi con delle trovate quasi pasoliniane e con uno stile secco e asciutto cosa fare della propria vita e di quanto è importante l'apparenza ai giorni nostri per i giovani.

Un film che parla di omosessualità trovando aperture nuove senza regalare nulla, senza esagerare con i sentimenti, tant'è che alcune scene riescono ad essere abbastanza crude e dotate di delicatezza, trovando a mio dire una contro tendenza su come vengono analizzati i valori e le scelte che portano il protagonista a prendersi le sue responsabilità sapendo dove lo porteranno...il futuro non sarà roseo

Firstborn

Titolo: Firstborn
Regia: Aik Karapetian
Anno: 2017
Paese: Lettonia
Festival: 35°Torino film Festival
Giudizio: 2/5

I coniugi Francis e Katrina vivono un momento di difficoltà perché non riescono ad avere figli. Un giorno vengono presi di mira da un delinquente che umilia Katrina e poi li rapina. Per smarcarsi dalle accuse della moglie, che gli rimprovera di non aver reagito, Francis si mette sulle tracce dell’assalitore e durante una colluttazione ne causa la morte. Francis riesce comunque a dimostrare la propria estraneità al fatto e per di più, poco dopo, Katrina gli annuncia di essere incinta. Qualcosa però non torna in questa apparente felicità, e ben presto un pacco anonimo lo conferma.

La tragedia di un uomo ridicolo. Firstborn si interroga o meglio interroga gli uomini su una situazione piuttosto peculiare e che tendiamo a sottovalutare: la debolezza e il sentimento di impotenza soprattutto se non riusciamo a difendere nostra moglie dall'attacco di un ragazzo più giovane.
L'anno scorso il timido Karapetian approdava al festival con il suo Man in the Orange Jacket un revenge-movie appena interessante che serviva al regista per cercare di affinare un suo stile personale. Questo suo terzo lungometraggio sembra proprio cercare di arrovellarsi ancora di più nella psicologia del suo protagonista, cominciando in maniera anche delirante a mischiare realtà, sogno e paranoie. Il problema è quando la trama comincia a non funzionare diventando macchinosa e piena di buchi. Il dato peggiore è che il film avendo pure pochissimi personaggi riesce a perderseli come lo strano tipo nel bosco che rimane lì senza un senso compiuto, il secondo tentativo di saccheggio da parte del piccolo ladruncolo stona di fatto senza aggiungere nulla a parte i dubbi.
Pur cercando di creare momenti di pathos, ritmo, lentezza e alcuni disarmanti momenti di quasi non sense (la creatura dai sei occhi rossi) le scene di sesso, il fantasma che scompare e riappare con o senza stampelle, il film deraglia precipitosamente come nella paranoia del protagonista (poteva essere interessante questa sorta di limbo in cui veniamo proiettati assieme a lui).
Purtroppo è un film che non è riuscito a darsi sostanza cercando di creare un'atmosfera rarefatta e solo in pochissimi casi funzionale allo stile che il regista ha cercato di dare al film.
Peccato perchè lo sforzo del cast non era affatto male, il protagonista ha una ghigna che lo fa sembrare realistico al punto giusto creando in più momenti un'imbarazzante empatia con lo spettatore.




Bamy

Titolo: Bamy
Regia: Jun Tanaka
Anno: 2017
Paese: Giappone
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 2/5

È da tempo che Ryoa vede con i propri occhi degli oscuri fantasmi: sul posto di lavoro, nelle stanze della propria casa, alle spalle della sua preoccupata ragazza. Fumiko, compagna del giovane Ryota e presto sua sposa, non riesce a comprendere l’atteggiamento distratto di quell’inquieto fidanzato, sempre con la mente volta da un’altra parte e in grado di discolparsi solamente attraverso incomprensibili scuse. Le cose per il ragazzo sembrano però cambiare grazie all’incontro con Sea Kiruma, anche lei afflitta dall’incomprensibile sciagura legata ai fantasmi e per questo occasione per Ryota di sentirsi meno incompreso. Ma i rapporti tendono ad essere fragili, e un destino superiore sembra intento a disegnare per il protagonista percorsi differenti.

L'immagine che più mi è rimasta impressa di questo film è quella d'apertura.
Per un attimo ho avuto le vertigini sperando di trovarmi di fronte a qualcosa di nuovo, un autore che nei suoi silenzi sapesse comunicare meglio di molti altri registi mischiando thriller, dramma psicologico e j-horror. Così non è stato.
Saliamo su un ascensore che sembra arrivare fino in cima al cielo. Qui sale una persona e poi l'ascensore scende e il film è un po tutto così.
A parte questo breve intro, il film del regista nipponico e alquanto strano o meglio singolare nel girare su se stesso con queste visioni che non fanno neppure paura ma anzi sembrano una sorta di strana convivenza tra fantasma e protagonista per non si sa quale strana ragione.
Ad un certo punto i personaggi attorno a lui e la ragazza cominciano a preoccuparsi...ed era ora forse...è così anche il pubblico che sembra assolutamente distante da questo film indipendente e senza degli intenti precisi o degli obbiettivi che possano risultare almeno interessanti comincia a chiedersi se non sia tutto un sogno del regista ma il piano metacinematografico qui non c'entra proprio nulla (purtroppo).
Qui predomina il vuoto in una sorta di film personale, un esercizio di stile, anche se la tecnica (ottimi alcuni movimenti di macchina) sembrano in alcuni casi amatoriali.

L'ascensore iniziale non sembra salire da nessuna parte. Ombrelli che volano da soli, poteri sovrannaturali che avvengono senza nessun motivo, la capacità di vedere i fantasmi che rischia di diventare quasi tragicomica o trash come in alcune scene (quelle sul posto di lavoro per cui Ryoa si rifiuta di salire sui container perchè lì seduto c'è il fantasma che lo fissa). Con pochissimi soldi, circa seimila euro, Tanaka ha voluto realizzare questo film molto personale, troppo forse, sul legame fra amanti predestinati in un percorso lento e noioso che non rimarrà impresso a nessuno.

Beau soleil interieur

Titolo: Beau soleil interieur
Regia: Claire Denis
Anno: 2017
Paese: Francia
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 3/5

Artista parigina insicura dei propri mezzi ma di indubbio fascino, Isabelle, divorziata, è alla ricerca dell'amore che finalmente potrebbe assicurarle una vita rassicurante.

L'ennesimo film della Denis si avvale di un'altra sacerdotessa del cinema francese dopo la Huppert.
Juliette Binoche appare sempre più affascinante ed elegante col passare del tempo che per lei sembra essersi fermato e il pubblico non può che trarne gioia.
Il cinema della Denis tratto da un racconto "Frammenti di un discorso amoroso" di Roland Barthes è un film ricco di sfumature che potrebbe non finire mai addentrandosi in quelle lande scoperte e infinite dei rapporti di coppia, problematiche sentimentali indagate già in tanto cinema francese che riescono per qualche strana ragione a riuscire ad assorbire il pubblico pur trattando temi e scene di vita cui è facile assistere nel quotidiano.
Ci sono alcuni momenti che per qualche strana ragione mi sono rimasti impressi come l'insistenza finale del monologo di Depardieu, la scena di sesso della protagonista con l'ex marito e il "dito", eppure quel tormento e quella inadattabilità a qualcosa di continuativo e stabile sembra essere da un lato il punto fermo degli intenti del film ma anche il suo punto debole dal momento che ad un tratto pur avendo Isabelle come punto di riferimento, ilpersonaggio tende aad essere come la macchina sfuggevole, come lo schema corale che in alcuni casi si impossessa della pellicola passando in una rapida galleria di personaggi, amanti, ex, giovani intelettuali spensierati e infine quella strana voglia di ricominciare tutto da capo.

Alla fine Isabelle sconta da sola le sue pene, paga con il sesso e attrverso i corpi trasmettendo vibrazioni positive ma anche ansie e una fragilità mai così moderna come capita in questa società liquida.

sabato 9 dicembre 2017

Crescent


Titolo: Crescent
Regia: Seth A.Smith
Anno: 2017
Paese: Canada
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 3/5

Una casa grigia si erge isolata su una costa. Una donna sola e devastata dal dolore vi si è rifugiata con il suo bambino di due anni. Dipinge, cura il bambino, passeggia in riva al mare. Di notte, dall'acqua emergono figure minacciose che la chiamano. Incubi o fantasmi concreti di un passato non sepolto. Sospeso tra surrealismo lynchiano e orrore psicologico, un racconto tormentoso sulla fatica di vivere.

Quando sento che figure minacciose emergono dall'acqua penso all'orrore cosmico, ai fomori, Oannes oppure al bellissimo film di qualche anno fa al Tff e sempre nella sezione After Hours Evolution.
Crescent è un film d'atmosfera e di colori che si mischiano l'uno con l'altro per creare quelle contaminazioni che la protagonista cerca di portare avanti, in particolare la tecnica della marmorizzazione, tecnica di arte vista che ben si presta per sottolineare gli stati di sospensione spiritica dei protagonisti.
Una pausa. Un momento di riflessione per se stessi e per starsene in pace e tranquillità con il piccolo nascituro a poche ore dal funerale del marito/padre.
Ci sono luoghi però che richiamano il passato e soprattutto i fantasmi che esso provoca e in tutto ciò l'acqua, un certo tipo energia rilasciata dall'oceano, può ridare enfasi e vita a chi non c'è l'ha.
In tutto questo Beth cerca di dare una spiegazione ad alcuni strani e anomali eventi soprattutto di notte che la portano a diventare paranoica, sonnambula e mettere da parte il piccolo Lowen in quella che a tutti gli effetti risulta come un "limbo" che rischia di imprigionare le anime perse in attesa di raggiungere un luogo definitivo.
Proprio quando ci avviciniamo all'orrore che è però più legato all'inquietudine di aver paura che il bambino possa farsi del male da solo rispetto a Beth e alla ricostruzione di un passato/presente che si miscelano. Una contaminazione che proprio come i colori, trova in questa tecnica pittorica suggestiva che richiama tanto la video arte con alcuni eccessi di cura estetica davvero impressionanti oppure di questi strani ospiti tra cui una sorta di guardiano con una ghigna e una trasformazione finale funzionale e che richiama le creature degli abissi per non parlare dell'uomo pitturato o dell'uomo paguro.
Un film disturbante, minimale, che ripeto fa dei suoni e dell'atmosfera il suo punto di forza, rimanendo derivativo quando cerca di spiegare troppo o di svelare tutti coloro che emergono dall'acqua per una sorta di sacrificio finale.



Kuso

Titolo: Kuso
Regia: Flying Lotus
Anno: 2017
Paese: Usa
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 3/5

Flying Lotus, musicista e rapper californiano, debutta con un film che non mancherà di far scalpore. In una Los Angeles post-Big One, seguiamo le vite parallele di alcuni sopravvissuti, tra insetti giganteschi e da incubo, decomposizioni organiche, ossessioni scatologiche, mutilazioni genitali. Un body horror ossessionato dalla pop art, che cita, ingloba, digerisce ed espelle il cinema di Cronenberg, Tsukamoto, Korine, Švankmajer, i Quay Brothers.

Notte horror al Torino Film Festival.
Quello che avviene in Kuso si può riassumere più o meno così: Los Angeles. Una ragazza afroamericana strozza il proprio fidanzato ricoperto di pustole e poi gli spalma lo sperma sul viso. Un uomo deforme affetto da una grave patologia gastrointestinale viene umiliato a scuola, scappa e incontra una creatura boschiva composta da un ano e una lingua. La nutre con le proprie feci, facendole crescere una testa. Una bionda con dermatite seborroica scopre di essere incinta, ma i suoi due amici a forma di televisori pelosi le strappano il feto (e se lo fumano). Una donna orientale striscia in una fogna cibandosi di insetti quando viene risucchiata in un universo psichedelico. Il dottor George Clinton alias il cantante dei Funkadelic defeca una scolopendra grande come un’astice su un paziente del suo studio medico. Tutto ciò è la conseguenza di un terremoto che si è abbattuto sulla California, a quanto pare.
Kuso sin dalle prime inquadrature e dall'orrore (anche se è più lo schifo che genera) mi ha ricordato un altro film malato agli stessi livelli se non di più ovvero Where the dead go to die.
Di nuovo un artista come nel film sopracitato che si interessa alla settima arte con un susseguirsi di scene, gag, vignette, tutte molto sinistre e macabre finalizzate a dare peso e consistenza a tutto lo schifo e lo squallore che cerchiamo di non vedere. Mascheroni, tute, make-up esageratissimo, scene raccapriccianti e grottesche con guizzi gore e una visceralità di fondo che da quell'inquietudine finale ad un film strano, complesso, singolare, sperimentale, scomodo e politicamente scorretto, ma più di tutto fine a se stesso, un esercizio di stile auto celebrativo come nuovo maniaco della psiche.
Un film per pochi disegnato da chi non vuole piacere alla massa (direi che su questo non c'è bisogno di stare a dilungarsi) sapendo bene di rischiare di essere mal interpretato soprattutto nel senso e negli intenti con si muovono alcuni personaggi e nella fattispecie alcuni intenti.
Kuso è un contenitore di immagini estremamente sgradevoli”, una schifezza che striscia nei liquami più infetti e purulenti e gratta tutto il marcio peggiore che si possa trovare.

Al Sundance il pubblico è scappato via...

Daphne

Titolo: Daphne
Regia: Peter Mackie Burns
Anno: 2017
Paese: Gran Bretagna
Festival: 35°Torino film Festival
Giudizio: 3/5

Daphne ha capelli rossi e anni ardenti che spende facendo sesso con gli sconosciuti e bevendo troppo, di tutto. Una notte, durante una rapina in un drugstore, assiste all'aggressione di un uomo che soccorre e poi archivia come i bicchieri e gli amanti occasionali. Fatta la deposizione in centrale, una poliziotta la informa che ha diritto all'assistenza psicologica. Daphne ci pensa su e poi decide di incontrare un terapista. Ma rielaborare i traumi non fa per lei, il matto è lui e se ne va. Fuori, in giro a tirare coca, a insultare i colleghi, a respingere la madre, Joe che la ama e David che vorrebbe solo conoscerla.

Daphne è una lezione di cinema furbetta e che sembra non andare in nessun dove all'apparenza.
Un film che sottolinea la monotonia, la quotidianità del voler rimanere come si è perchè tanto è così che vanno le cose. Sotto un'apparente superficialità e mondanità, la protagonista in realtà è più sensibile e profonda di quanto non sembri e i suoi gesti e le sue espressioni danno conferma durante l'arco della narrazione.
Rapporti superficiali, il sesso al posto dell'amore, il sogno di non poter o non voler mai avere una relazione stabile, una mamma che sembra lo specchio della figlia e una fatica a prendersi le proprie responsabiluità scappando appena di fronte si trova uno specchio come le sedute dallo psicologo.
Infine per equilibrare tutto e mettere a tacere i demoni personali, l'alcool, vero farmaco capace di sedare ogni male interiore all'apparenza, diventa la soluzione al problema.
Per 90' è tutto così passando dalla tavola calda (il lavoro) al pub (incontri occasionali) lo studio (psicologo) la casa (la mamma come amica/vicina) poi l'incidente scatenante (l'accoltellamento) e infine il cambiamento (il buttafuori).
Alcune scelte che potrebbero essere intellettualmente stimolanti come la lettura di Slavoj Žižek appaiono abbastanza slegate e lasciate al caso dal momento che vediamo la protagonista leggere il libro dello psicoanalista sloveno nel letto mentre ride e citarlo con un amico che non riesce a pronunciarne bene il nome (mi aspettavo un'analisi maggiore).
In tutto questo come dicevo prima la sbronza colossale in pieno giorno e l'espressione corrucciata come di chi è cresciuta prima degli altri sono gli immacabili effetti che non possono mancare a dare tono e risalto alla commedia.
Il regista quando ha presentato il film in concorso al Torino Film Festival a parte essere molto giovane è parso molto divertito. Quello che è riuscito a descrivere e raccontare meglio è proprio la situazione di post-contemporaneità in cui vive Daphne ovvero "tempi di crisi economica, dove le personalità si sfrangiano, rasentano l’instabilità, vivendo così intensamente e allo stesso frammentati da affezionarsi a un modello-non modello di vita in cui tutto è fra parentesi, rinviabile, rivalutabile, soggetto ad accettazione e successiva, rapida fuga". In questo forse un regista appunto giovane ha trovato il modo più alla mano per descrivere una tappa dell'età che ci vede protagonisti e con il bisogno di comunicare a nostro modo le mille difficoltà quotidiane.

Ecco Daphne in questo, anche se frammentato, sembra esserci riuscito.

venerdì 8 dicembre 2017

Tokyo Vampire Hotel-Season 1

Titolo: Tokyo Vampire Hotel-Season 1
Regia: Sion Sono
Anno: 2017
Paese: Giappone
Festival: 35° Torino Film Festival
Serie: 1
Episodi: 9
Giudizio: 3/5

Tokyo, 2021. Manami vorrebbe festeggiare il suo compleanno, ma la celebrazione si trasforma in una carneficina. Quel che Manami non sa è che è l'unica sopravvissuta a recare in corpo sangue dei discendenti di Dracula, estromessi dal mondo secoli prima da un'altra casata di vampiri rumeni

L'incipit della serie tv di Siono sui vampiri voluta e prodotta ad alto budget da Amazon prime Giappone risulta un compendio di svariate tematiche del regista nipponico che ovviamente vanno sempre nelle direzioni preferite dal divario tra nuove e vecchie generazioni, alla religione vista attraverso le sue diverse forme e strutture, l'identità di genere femminile, la mattanza finale e l'esagerazione gore nonchè il mondo yakuza sminuito o esageratamente pompato (al pari del cinema di Miike Takashi).
In 142' Sono prova, senza riuscirci sempre, ad omaggiare i signori delle tenebre contando che nel sollevante non sono mai andati così di moda. Dopo un recente passaggio in Romania, l'outsider ha voluto intraprendere questa ennesima sfida vincendola anche se con immancabili esagerazioni e dilungamenti nella trama che sanciscono alcuni limiti soprattutto di trama.
L'incipit è un surplus di citazioni da i J-Horror a Cronemberg a piene mani (BROOD su tutti).
Unire dunque vampiri orientali e rumeni dalla sua ha sicuramente decretato alcune scelte di fatto funzionali che hanno contribuito a rendere ancora più suggestivo il casting ma in alcuni momenti mostra le sue perle derivative soprattutto nel finale che sembra esageratamente tirato via per chiudere una mattanza che sembrava non aver fine (i vampiri non muoiono facilmente soprattutto quando gli scarichi addosso una scarica di pallottole...) e ad un certo punto liberata la vera anima della protagonista, l'unica soprtavvissuta, il film diventa exploitation puro al cento per cento.
Ancora una volta protagoniste sono loro, il genere femminile a 360°.
Le sexy teenager sono ancora una volta al centro dell'inquadratura: tartassate, desiderate, a(r)mate, mutilate, vilipese e ricoperte di sangue.
Dovevano dargli più tempo. Sono come dicevo in questa fruizione spensierata non riese purtroppo a caratterizzare molto bene i personaggi (la protagonista ad un certo punto sembra soppiantata dal suo mentore K intenta a dividersi tra i discendenti di Dracula e le origini degli Yamada del clan Corvin).
Rimane come sempre un’idea visiva molto nipponica che l'autore e la sua politica non ammette tagli e censure esagerando e mostrando tutto senza problemi e senza badare alla censura con fusioni di mitologie e look diversi , mostrando lotte di vampiri di diverse dinastie è uno scontro senza senso, che trae la sua vitalità proprio dall’esibizione della morte e dal suo annullamento (si muore e si ritorna senza troppi problemi).
TVH segna la quarantottesima regia di Sion Sono in soli trent'anni in un twist che non accenna ad esaurire la vena artistica e grandguignolesca del regista che tra massacri seriali, decapitazioni, sgozzamenti, sventramenti, amputazioni e fiumi di sangue, sembra continuare a divertirsi molto e a fare ovviamente di testa sua mischiando carte, regole clan di vampiri e clan di yakuza vampirizzati.

Ancora una volta quando ci si trova di fronte ad esperimenti simili, la sospensione d'incredulità deve andare a farsi fottere, spegnendo il cervello ma nemmeno così tanto come mi aspettavo dal momento che la metaforona politica non è affatto male come quella della Dieta e di un certo governo e politica giapponese fine a se stessa e ad auto sostenersi che è la prima ad essere odiata dai signori della notte.

They

Titolo: They
Regia: Anahita Ghazvinizadeh
Anno: 2017
Paese: Usa
Festival: 35° Torino Film Festival
Giudizio: 3/5

J. è un adolescente che non sa decidersi riguardo alla propria identità sessuale e, per questo, prende degli ormoni che ritardano la pubertà, sperando di trovare una risposta nel mentre. Una telefonata del medico che lo/a segue, però, segnala la necessità di interrompere la cura, per via di un valore delle ossa che può farsi pericoloso: a J. non restano che un paio di giorni per decidere di sé. Intanto i genitori sono fuori casa e con lui/lei (in famiglia si è scelto di adottare un neutrale "loro") c'è la sorella maggiore, di passaggio con il suo futuro marito.

Il primo lungometraggio della regista iraniana ha diversi elementi di interesse parlando di identità di genere raccontando una storia piuttosto complessa.
La prima riflessione è sicuramente legata ad aver trattato una tematica che negli ultimi anni sta uscendo sempre di più, superando ormai quei tabù che fino a qualche anno fa avevano una certa timidezzae paura del pregiudizio per parlare di tematiche così nuove e "scomode".
Senza mai di fatto mostrare il problema reale in sè, la regista non fa dell'identità di genere una questione sociale ma solo e soltanto una scelta personale, intima, privata monitorandola dall'esterno in uno schema corale abbastanza riuscito ( e parlo ovviamente della sorella maggiore e il compagno iraniano). Un film lento e suggestivo, con tanti colori e fiori che sembrano alternare le giornate di J. nella serra, giornate assorte nei suoi pensieri, sicura, matura e decisa a portare avanti la sua causa senza mai scoraggiarsi. Funzionale l'attrice che comunica la sua scelta e allo stesso tempo risulta così strana e incomunicabile esprimendo tutto con uno sguardo.
L'unico punto se vogliamo debole è la delicatezza che va a pari passo con una regia minimale e patinata, una scelta che rallenta il ritmo del film in più parti lasciando ai gesti e agli sguardi le risposte alle tante e complesse domande di chi gravita attorno alla protagonista.
Lasciando diversi personaggi silenziosi, taciturni, i dialoghi cercano comunque di ironizzare almeno quando passiamo nelle scene con la sorella e il compagno che sembrano tra gli unici in grado di ironizzare ed empatizzare con la scelta di J.
Interessante l'ambiente sociale, i pari della ragazzina, che leggono positivamentente l'obbiettivo della loro compagna senza nessun pregiudizio ma anzi avendone pieno rispetto, questo come a lasciar intendere che spesso i ragazzini sono neutrali senza aver ancora l'ombra di quei pregiudizi trasmessi dagli adulti.
La sceneggiatura ad un certo punto non è più narrativa ma mostra vetrine diverse dove predomina soprattutto nel secondo atto la coralità della gente in transito dei parenti, tra identità e appartenenze culturali diverse.
Un film che posa molti aspetti personali della regista assieme ad un tema forte e un viaggio di formazione di una protagonista giovane e concentratissima.
Forse l'elemento più confuso al di là degli obbiettivi dei co-protagonisti può essere legato alle scelte etiche che portano una dodicenne ad assumenere farmaci che ne impediscono la maturazione sessuale e il film in questo risparmia un'analisi accurata per lasciare invece spazio alla mimica e alle espressioni di stupore e rammarico di J.






Al massimo ribasso

Titolo: Al massimo ribasso
Regia: Riccardo Jacopino
Anno: 2017
Paese: Italia
Festival: 35° Torino Film Festival
Giudizio: 3/5

Uno spregiudicato quarantenne vive garantendo l'assegnazione delle aste alla malavita. Non si sa come, ma conosce sempre l'offerta più bassa, il che inquina il mercato e manda in rovina cooperative e piccoli imprenditori. Ma un giorno si trova di fronte alla questione, squisitamente etica, della scelta. Cinema civile, coraggiosamente prodotto da una cooperativa sociale torinese, con il sostegno della Film Commission Torino Piemonte.

Al massimo ribasso è il secondo lungometrgio prodotto dalla cooperativa Arcobaleno di Torino con il sostegno della Film Commission Torino Piemonte e Rai Cinema dopo l'indie e l'esordio di 40%.
Un noir o meglio un fanta-noir con un piede nella critica alle gare d'appalto truccate e con una realisticità che abbraccia il cinema d'autore e una sotto-storia che strizza l'occhio al cinema di genere senza però renderlo esageratamente inverosimile ma dotandolo di una metafora di fondo importante.
Il risultato del secondo film di Jacopino è per certi versi bizzarro. Di sicuro a livello tecnico il film vanta un salto di qualità in avanti notevole per quanto concerne la messa in scena, la fotografia, il montaggio e la post produzione. Anche per quanto concerne il cast il film ha voluto puntare su volti leggermente più noti anche se sempre presi dall'hinterland dell'indie torinese.
Eppure se da un lato 40 % aveva quella vena e quel taglio così indipendente e quasi "amatoriale" vinceva sicuramente sotto il punto di vista empatico, elemento che questo film sembra dimenticare pur appartenendo e rispettando le regole del noir che di fatto non abbracciano appieno sentimenti ed emozioni per rendere quel taglio più cupo e freddo.
In fondo sono scelte e così anche i raccoglitori della Cartesio vengono sostituiti con attori improvvisati o figuranti che seppur in gamba (ma non tutti di certo) non lasciano quelle emozioni e quel senso di realisticità e amatorialità che hanno saputo rendere al meglio mostrando tutte le loro fragilità in momenti di cinema popolare molto forte e toccante.
Al massimo ribasso è la condizione o meglio la metafora che per chi lavora come il sottoscritto e tanti altri all'interno delle cooperative, scoprendo di giorno in giorno quanto queste realtà spesso rischino di venir sostituite da società senza più avere quello spirito umano con cui è nata l'idea stessa di cooperativa.
Arcobaleno-Segnali di senso aggiunge un'altra tacca al panorama del cinema indipendente italiano, dimostrando coraggio, mettendosi in gioco con un film forte, duro nel suo voler essere politico e di genere, vincendo sicuramente alcune sfide come ad esempio una maturità tecnica, perdendo però quella semplicità e armonia che ha fatto diventare 40% una piccola chicca dell'indie italiano tutto virato al sociale.




Cured


Titolo: Cured
Regia: David Freyne
Anno: 2017
Paese: Irlanda
Festival: 35°Torino Film Festival
Giudizio: 3/5

Molti umani si sono trasformati in creature simili a zombie. Una cura c'è ma gli infettati dovranno essere isolati da tutto e da tutti.

Nella sezione After Hours continuano come ogni anno le sorprese e le delusioni.
Quest'anno riaffiorano alcuni film a tematica zombie con quest'opera prima che è una bella via di mezzo. A differenza del film francese Les Affames, piccolo vero gioiellino pur non dicendo nulla di nuovo, The Cured, irlandese, cerca invece di aggiungere nuovo materiale in termini di soluzioni all'epidemia e ad un messaggio politico nemmeno tanto velato.
In questo caso, come in altri film, viene trovata una cura al virus che ha trasformato parte della popolazione in zombi, in cui il 75% delle persone colpite è stato guarito dal virus mortale denominato Maze, lasciando però il 25% ancora infetto, una fascia di cosiddetti “resistenti”, che, cioè, non reagiscono alla cura come gli altri e vengono rinchiusi in ospedale, in attesa di un’altra terapia.
Da qui in avanti le reazioni verso gli individui all'interno della società sono diversi per chi sta cercando di rifarsi una vita, alle persecuzioni che vedono questi individui marchiati ormai come capri espiatori e vittime sacrificali perfette in una società sempre più paurosa e xenofoba.
Come poter perdonare e accettare qualcuno che nonostante la cura si è macchiato di assassini brutali e in alcuni casi arrivando a cibarsi di bambini molto piccoli. Inoltre l'aspetto peggiore (ma direi quello più interessante) è quello legato ai ricordi, dal momento che gli ex infetti conservano i ricordi delle carneficine commesse, con relativi disturbi post-traumatici. Proprio questo elemento nella buona e nella cattiva sorte non sempre riesce a dare la giusta dose di empatia in particolare legata alla sofferenza del co protagonista e i dialoghi con Ellen Page a capo dei non infetti.
La messa in scena di Freyne è dura e non lesina sul sangue, sull'elemento gore, su una fotografia freddissima e glaciale e dialoghi tagliati con l'accetta senza nessuna traccia di salvezza ma forse solo di redenzione.
Un'opera indipendente e solida che seppur non entra nella cerchia dei film memorabili sugli zombie, rispetto alla stragrande maggioranza dei film in circolazione, propinando sempre lo stesso assetto, questo the Cured ha diversi elementi maturi e politici per cercare di fare nel suo piccolo la differenza.

Games of Death


Titolo: Games of Death
Regia: Sebastien Landry E Laurence Morais-Lagace
Anno: 2017
Paese: Usa
Festival: 35°Torino film Festival
Giudizio: 3/5

Un gioco da tavolo, il Game of Death, ha un’unica regola: se non uccidi qualcuno, ti esplode la testa, entro 20 minuti. Sette ragazzi vi partecipano ignari, a loro spese.

Notte horror al Tff tra cornetti e caffè bollente.
Games of Death è un'opera divertente, eccentrica e con tanto splatter che sostanzialmente porta avanti un'idea di carneficina che negli ultimi anni sta partorendo tanti ibridi con l'idea di fondo che poi è sempre la stessa.
Siamo quest'anno, con tutte le opere visionate, in toni decisamente eighties, dove la stragrande maggioranza dei film si rifà ai videogiochi e a quell'aspetto ludico, spensierato, con in alcuni casi rimandi alla sci-fi e con le musiche fatte col sinth che tanto piacciono.
Games of Death dura 75', la trama è praticamente un escamotage per mostrare questo branco di buoni a nulla e tutti straordinariamente cazzoni e antipatici alle prese con questo strano gioco.
Cronemberg e Carpenter su tutti nella miriade di citazioni ma anche Battle Royale 2, Belko Experiment
e via dicendo.
Un film con un ritmo incredibile, splatter al massimo, senza guizzi di sceneggiatura ma con l'unico scopo di arrivare a far esplodere e ammazzare tutti l'uno con l'altro nel minor tempo possibile.
Da questo punto di vista il film fa centro divertendo e mostrando frattaglie in tutte le forme e maniere nonchè teste che piano piano si ingrandiscono assomigliando in alcuni casi alle deformazioni di Rob Bottin. Puro divertissement senza bisogno di spiegazioni e soprattutto di nessun tipo di background ad esempio da dove provenga il gioco, sul finale telefonatissimo e alcune scelte che muovono le azioni dei personaggi davvero lasciate al non sense totale.
Per chi vuole staccare il cervello, ridere e divertirsi prego avvicinare il dito al tasto, una piccola puntura, il sangue che arriva al nucleo del gioco e il ghigno del malefico display, in una narrazione veloce, scatenata e sgangheratissima.

sabato 23 settembre 2017

Figli della notte

Titolo: Figli della notte
Regia: Andrea De Sica
Anno: 2016
Paese: Italia
Festival: Torino Film Festival 
Giudizio: 4/5

Con poca voglia ma parecchia obbedienza alla madre, Giulio entra in un collegio prestigioso per rampolli benestanti. Dalle sembianze asburgiche, la struttura è una nota palestra per la futura classe dirigente, rigida e spietata. Il ragazzo è immediatamente attratto da Edo, dalla personalità a lui opposta, anticonformista e incline alla ribellione. In complicità si oppongono al bullismo imperante e in totale segretezza, iniziano a trascorrere nottate in un locale di prostitute. Gli effetti attesi non tarderanno a presentarsi.

Al suo esordio De Sica firma un film avvincente con una storia davvero originale che tra l'altro prova a far luce su una realtà davvero inquietante per alcuni aspetti. Quella dei rampolli benestanti che dovrebbero diventare la classe dirigente del futuro.
Partiamo subito con la scena d'apertura che sembra strizzare l'occhio a Sorrentino per quanto anche a livello tecnico, il regista sappia esattamente cosa vuole giocando molto bene negli interni con una scenografia e una luce più che perfetta e anche in esterno con una fotografia molto più fredda ad esaltare l'inverno rigido e il clima arido che non fa sconti per nessuno.
Sembra un vero e proprio carcere il collegio dove Giulio e gli altri ragazzi vengono inviati e come tale viste le dure regole imposte dovrà assolutamente fare i conti con dei giovani che non sono più quelli ubbidienti e pazienti di una volta ma sono una generazione in cui i genitori cercano di sbarazzarsene in fretta. Uno di loro Edoardo in particolare risponde al suo educatore dicendo come siano bravi e svelti i genitori a fare le valigie. Ruolo interessante ma con qualche leggera riserva è quello degli educatori tra cui svetta Mathias, i quali a volte sembrano uscire fuori dagli schemi con una linea educativa leggermente coercitiva come si lascia scappare uno di loro ad un certo punto "Le vostre famiglie sanno che tutto ciò che succede qui dentro lo risolviamo qui dentro. "
Alla fine il film è recitato bene, a livello tecnico è ottimo, tutto sembra raggiungere livelli molto alti per il nostro cinema e forse i soli e unici problemi sulla credibilità di alcuni fatti e un climax finale abbastanza scontato sono i mordenti principali.
Il film riesce ad essere uno spaccato sul sociale e un dramma significativo su una realtà che finalmente qualcuno si è deciso a raccontare.