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venerdì 5 gennaio 2018

Good Time

Titolo: Good Time
Regia: Safdie
Anno: 2017
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

New York. Quartiere di Queens. Una rapina in banca finisce male, Connie riesce a fuggire mentre suo fratello Nick, affetto da un ritardo mentale, viene arrestato. Da quel momento Connie inizia a darsi da fare per poter trovare il denaro necessario per pagare la cauzione mentre progressivamente sviluppa un altro progetto: farlo evadere.

Il Queens visto attraverso l'ottica dei Safdie con una New York al neon che da uno sfondo spettrale per tutta la durata del film. La quinta opera dei due giovani fratelli che fanno la "sfida" a Dolan, è un trip, un cinema anch'esso impegnato, impregnato nel sociale, un caotico e febbricitante dramma che parla di derelitti e personaggi che vivono nell'incertezza più totale assorbendo la giornata fatta di piccoli furti e spacci.
Un film che prima di tutto è un'esperienza da fare, condensata in appena un giorno, da una mattina all'altra, unità di tempo che rappresenta un ottimo escamotage per trattenere una trama che è costantemente sul punto di deragliare come succedeva per un cult come Victoria.
Tesissimo e veloce il ritmo di questa corsa che sembra metterti continuamente una fretta incredibile nel cercare come Connie di capire cosa fare e di chi fidarsi.
Se Parkinson recita abbastanza bene (esce fuori dal personaggio troppe volte però) quello che colpisce e proprio il fratello di Connie, Nick, interpretato da uno dei due registi Ben Safdie.
Lo script, tanto per rimanere in famiglia, è stato scritto insieme al “terzo Safdie” Ronald Bronstein (loro co-sceneggiatore fisso) ed è stato realizzato con molte più risorse (la produzione è della a24 productions, casa di Moonlight e Spring Breakers oltre che aver avuto la benedizione e la supervisione di Martin Scorsese).
Un film che già dal titolo vuole essere metaforico a tutti gli effetti.
Parlando di una rapina e di disadattati (quindi è facile pensare che per loro non finisca bene) chiamarlo dunque Good Time è insieme negazione e conferma appunto dello “star bene” che rimane un assurdo soprattutto nell'idea e negli intenti di un gruppo di personaggi che per forza di cose non vuole e non può "star bene".







sabato 23 settembre 2017

It comes at night

Titolo: It comes at night
Regia: Trey Edward Shults
Anno: 2017
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Sicuro all'interno di una casa desolata mentre una minaccia innaturale terrorizza il mondo, un uomo ha stabilito un esile ordine domestico con la moglie e il figlio, ma la sua volontà verrà presto messa alla prova quando una giovane famiglia disperata arriva in cerca di rifugio.

L'horror drama, uno dei mille nomi usati per ampliare il raggio del genere horror sta facendo da anni piccoli passi da gigante regalando perle rare della cinematografia. La maggior parte di questi film sono tutti indipendenti e non godono di grossi budget. Il perchè è evidente.
It comes at night è un dramma forte che chiama in cattedra l'horror per un clima post apocalittico in cui si immerge la vicenda e dove una epidemia non meglio nota sembra aver spazzato via tutto come la peste. Lo spettatore non vedrà praticamente nulla mentre invece viene catapultato verso quella che di fatto è una disintegrazione del nucleo e dei rapporti e dello psicodramma famigliare.
Il genere sta finalmente ritrovando la sua capacità sotterranea e viscerale di raccontare le inquietudini del nostro presente, liberandosi spesso degli effetti e momenti più semplicistici che attraggono il grande pubblico per proporgli invece riflessioni molto più profonde.
Anche qui di nuovo quasi tutto viene girato all'interno della casa. Il cast è ottimo anche per creare quella domanda in più allo spettatore su come si sia arrivati a quel punto e anche il nonno già dall'inizio assume un'importanza specifica come un mentore che ormai ha lasciato il nipote giovane a dover dimostrare di essere uomo.
Sempre spontaneo e funzionale Joel Edgerton riesce bene a tenere il timone del pater familias lanciando occhiate di continuo e lavorando particolarmente sull'ansia e la paura che arriva soprattutto dall'esterno. Di nuovo un horror crepuscolare che funziona grazie ad un'atmosfera che riesce a fare molto lasciando sempre quella porta rossa bloccata che sembra possa aprirsi da un momento all'altro e lasciare che il male si impossessi della famiglia.

Un finale davvero tragico chiude il film come a dimostrare ancora una volta che non sempre può esserci un lieto fine e sarebbe stupido provarci quando la situazione e così apocalittica da far presagire per forza il contrario. Shults va avanti e il film è tutto una corda tesissima in cui alla prima vibrazione parte la deflagrazione.

sabato 8 luglio 2017

Trespass Against Us

Titolo: Trespass Against Us
Regia: Adam Smith
Anno: 2017
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Chad, il padre Colby e alcuni amici conducono da anni un’esistenza ai margini della società, sopravvivendo grazie a furti occasionali e alla destrezza di Chad, eccellente pilota. Chad, stanco di questa vita, vorrebbe trasferirsi altrove con moglie e figli, ma Colby è contrario e Chad non riesce ad affrontarlo e a dirgli di no.

Di certo Smith pur essendo alla sua "vera" opera prima non manca certo d'esperienza.
La serie SKINS muoveva già alcuni tasselli almeno per quanto concerne alcune scene d'azione e sapeva giocare bene con gli interpreti dando loro spazio e tempo per improvvisare e prendersi il loro tempo. Più o meno è quello che è successo anche qui con due attoroni come Fassbender e Gleeson (quest'ultimo riciclato su un personaggio già visto troppe volte).
Trespass Against Us aveva buone carte per poter diventare un film coraggioso e ribelle.
Un film politicamente scorretto che rifila un dito medio alle forze dell'ordine dopo un inseguimento in macchina (tra l'altro tra le cose più belle del film) tra scorribande che seppur belle da vedere sembrano dei riempitivi per dare consistenza e ritmo al film.
Purtroppo alcune manciate di scene, qualche idea interessante e le buone interpretazioni non bastano a decretare il successo, almeno per quanto concerne la sceneggiatura, di un film piuttosto piatto che esaurisce fin da subito obbiettivi e viaggio di redenzione.
Ci sono poi alcuni momenti abbastanza ridicoli come il post rapina di Chad dove il protagonista strozza come se niente fosse un pit bull, alternati invece ad una location, un insieme di roulotte, abbastanza interessante anche se già vista in diversi film così come questa sorta di comunità con il capro espiatorio interpretato dal poliedrico Sean Harris e l'idea della periferia alternativa inglese senza regole e leggi se non quelle del proprio codice criminale.
Alla fine la parte più interessante è proprio quella riuscita meno ovvero lo strano e contorto rapporto padre/figlio. Un film che poteva dare molto di più ma che preferisce la strada semplice accontentandosi senza insistere laddove poteva.


sabato 18 febbraio 2017

Moonlight

Titolo: Moonlight
Regia: Barry Jenkins
Anno: 2016
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Miami. Little ha dieci anni ed è il bersaglio dei bulli della scuola. Sua madre si droga, e lui trova rifugio in casa di Juan e Teresa, dove può parlare poco ma sa che può trovare le risposte alle domande che più gli premono. Nero fra soli neri, dei suoi coetanei non condivide l'atteggiamento aggressivo, l'arroganza che indossano fin da piccoli. Chiron -è questo il suo vero nome- non è un duro, ma nemmeno un debole. È gay e, anche se non lo dice, non sa essere chi non è, non sa e non vuole adeguarsi, così si ribella e finisce in prigione. Quando esce, Black è diverso, cambiato, apparentemente un altro, ma sempre lui.

Quando ti confronti con un film come MOONLIGHT la sfida è ardua.
E'uno dei quei film stronzi che ti mette il seme del dubbio se analizzarlo per ciò che realmente è (la vita di un nero gay in un quartiere povero) o la furbizia di chi sta dietro per cercare di parlare dei soliti fantasmi dell'America e travestirli in modo diverso.
Moonlight mi ha fatto pensare a questo elemento oltre a tantissime altre cose.
E'un film magnifico al limite del sopportabile. Mostra niente e parla di tutto. E'scomodo e complesso quanto narrativamente elementare.
Jenkins si trova anche lui come altri registi afroamericani a dover portare quel macigno sulle spalle che grava e che sembra essere lo sforzo titanico di Atlante.
L'America ha generato il male della schiavitù, dell'apartheid, delle divisioni sociali, dei quartieri poveri e ora tocca a voi nuova hollywood moderna di registi afroamericani (chi meglio di voi per il politically correct) farci riflettere e prendere atto (tanto ormai è troppo tardi) su come vi abbiamo fatto soffrire e messi in condizione per cui oggi vivete una nuova schiavitù accettandola addirittura e  facendoci un film che vincerà golden globe e oscar (da qui l'inutilità dei premi e della cerimonia).
Questa è la domanda drammatica delle produzioni e delle major.
Quella di Barry invece e di Little è quella di affrontare tanti temi scomodi e complicati in tre capitoli in quello che appare un quadro sociologico e introspettivo.
Moonlight ha un solo aspetto geniale al di là delle sofferte e intense performance attoriali.
In un dialogo quando Little ormai grande incontra il suo "amico" quest'ultimo gli chiede come se la sia passata negli anni in cui non si sono visti.
Qui scatta la scintilla. Jenkins ci fa capire che Little ha passato di tutto e ha visto cose affrontandone altre pesantissime eppure il regista semplicemente non le mostra.
Un film che parla di delinquenza, violenza e malavita senza mai mostrarla. Almeno questo aspetto è  innovativo direi.


venerdì 10 febbraio 2017

Monster(2016)

Titolo: Monster(2016)
Regia: Bryan Bertino
Anno: 2016
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Una giovane madre alcolista deve accompagnare la figlia da suo padre. Sulla strada però dovranno affrontare le loro più grandi paure

Monster-movie, thriller psicologico, horror con tematica sociale? Di certo una cosa è chiara. Finalmente Bertino da alla luce il suo film migliore. Un'ottima coniugazione di generi e contesti che trovano spazio in una narrazione non sempre perfetta (la seconda parte contiene qualche ripetizione di troppo) ma che alla fine riesce a trovare il suo giusto equilibrio.
Monster il titolo, così diretto e spietato, assume una connotazione diversa però lasciando forse una smorfia in faccia a chi pensava di trovarsi di fronte al tipico monster movie dove una creatura uccide e divora fessi a palate. Qui c'è tutto tranne la creatura, un mostro pure piuttosto brutto.
Un mostro però centellinato dal nostro regista che non ha a cuore le sue sorti e non gli interessa nemmeno dirci perchè sia lì e cosa sia.
Il soggetto sembra per certi versi scontato ma il regista decide fin da subito di scavalcare questo impianto e sondare le soglie della disperazione in un complesso rapporto madre/figlia e di un rapporto ossessivo compulsivo ma anche un attaccamento ambivalente di una madre semplicemente non pronta a prendersi le sue responsabilità. Almeno fino a che non sopraggiunge l'incubo.
In quel caso tutto si ferma, i conflitti e i legami familiari, quando la minaccia arriva dall'esterno, diventano il motore centrale e il fuoco che divampa facendo in modo che l'adrenalina pompi dosi di coraggio e di protezione per la creatura che in fondo si ama. Lei giovane e alcolizzata che non riesce a badare a se stessa, l'altra che ha la metà dei suoi anni e una rabbia dentro che la divora e che non accenna a nascondere.
Dunque senza svelare il climax (che tra l'altro è una delle parti più scontate) si parla di riavvicinamento di amore e rabbia, di paure e mostri interiori che escono e prendono vita.
Un film con una grande metafora di fondo e una complessità nel modo piccolo ed efficace che il regista riesce a mantenere, non sempre, ma regalando una pellicola che merita di essere annoverata tra le cose più interessanti dell'horror moderno.
Un indie con una sola location (senza contare ovviamente i flashback non sempre così preziosi) ansia e discordia a palate e un duo di attrici che riesce ad essere sempre funzionale.
Un altro esempio, come sono molti e importanti negli ultimi anni, di horror con tematica sociale appunto in cui la metafora diventa specchio per sondare ciò che ci divora dall'interno.



domenica 27 novembre 2016

Free Fire



Titolo: Free Fire
Regia: Ben Weathley
Anno: 2016
Paese: Gran Bretagna
Festival: TFF 34°
Sezione: Festa Mobile
Giudizio: 4/5

Nove uomini e una donna s’incontrano in un magazzino in disuso per concludere un losco affare.

Weathley ritorna di nuovo in pole position. Uno dei registi migliori di questa ultima generazione dopo diversi film intensi e particolari (Kill List, DOWN TERRACE, FIELD IN ENGLAND, Sightseers) e un'unica deviazione devastata dalle aspettative e dai critici sciacalli (High-Rise al TFF 33°sempre nella sezione Festa Mobile) che l'outsider inglese ritorna in prima linea ai festival.
Con Free Fire si ritorna ai temi e agli strumenti tipici e prediletti del regista. Humor nero, dialoghi taglienti, molta violenza, scene grottesche, dinamismo senza controllo, ritmo ai massimi livelli, azione concitata, scene surreali e paradossali e infine delle caratterizzazioni forti visto che la sua ultima opera e prima di tutto un film di attori e di recitazione (fatta eccezione per due o tre del branco) per dei personaggi eccessivi e caricati, affascinanti e stilosi quanto grezzi, romantici, manipolatori, alcolizzati, narcisisti e tossici incalliti.
L'ultima opera del regista si potrebbe definire un thriller/action/commedia ad altissima tensione senza quasi storia ma colma di azione e alcuni ma intelligenti colpi di scena e sotto-storie che danno ancora più tensione e complessità al film.
Free Fire sembra prendersi meno sul serio ma non poi così tanto, contando che il dramma insito nel film e nelle conseguenze inattese nonchè gli effetti perversi di questa carneficina hanno un taglio profondamente drammatico che seppur giocato con un'ironia macabra e travolgente (le risate sono assicurate) rimane impregnato proprio dalla sofferenza dei suoi personaggi e il loro tentativo disperato di mettersi in salvo e capire cosa è andato storto.
Siamo negli anni '70. Tutti sono vestiti in modo alternativo con giacche così spesse da diventare quasi giubbotti anti proiettili, un cast assolutamente eterogeneo dove compaiono attori americani, inglesi, italiani, etc (un'altra scelta che da il suo valore aggiunto soprattutto in lingua originale per capire al meglio alcuni dialoghi e le battute e le incomprensioni proprio sugli accenti).
E poi senza dover ricorrere agli spoiler, l'incidente scatenante, la scintilla che nasce proprio dalla manovalanza e dalle conseguenze ai danni di una donna fanno tutto il resto...un casino che nel giro di qualche battuta assume proporzioni gigantesche in una faida che trova nei suoi innumerevoli pregi quello di avere un'unica location, un magazzino abbandonato che ricorda per alcuni aspetti l'esordio di Tarantino.
Free Fire infine conferma il talento di un autore a 360° che scrive, monta, dirige, costruisce, spaziando da un genere all'altro con un divertimento, una passione e una disinvoltura ammirevole.
Il fattore più interessante del film che nessun critico ha colto è che tutti strisciano dall'inizio alla fine.

domenica 23 ottobre 2016

Swiss Army Man

Titolo: Swiss Army Man
Regia: Daniel
Anno: 2016
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Hank un uomo senza speranza tenta di suicidarsi ma scorge qualcosa in riva al mare. Perso ormai da tempo nella natura selvaggia di un'isola, Hank vede un cadavere le cui origini sono misteriose. Ma a lui poco importa: con quel cadavere si imbarcherà in un epico viaggio avventuroso per tornare a casa. Hank decide anche di convincere il corpo morto di come la vita sia degna di essere vissuta. Riuscirà nella surreale impresa?

Ogni tanto ti appresti a guardare qualcosa di completamente slegato dai canoni classici, diciamolo pure, un film superiore. Qualcosa di indimenticabile che lascerà il segno, qualcosa che sa di nuovo, quell'ondata di freschezza che non si avverte spesso nel cinema e che possiamo definire l'essenza di un principio anarchico di mettere in scena cosa si vuole nel modo più intimo possibile.
L'uomo multiuso è qualcosa che avrà tanti e continui elementi anomali e di totale non-sense. Uno dei film indipendenti più bizzarri degli ultimi anni.
Una commedia fantasy indipendente e alternativa, un film hipster furbetto e strappalacrime e allo stesso tempo un'opera che si stacca dalla commercialità per diventare quel film che non ti aspetti. Possiamo parlare di cinema libero, a volte scomodo, a volte dannatamente sboccato e in alcuni attimi esageratamente divertente. Surreale, di certo rischioso se si pensa a come la coppia di registi con un'idea così fuori dal normale siano riusciti ad ottenere investimenti sapendo di poter fare una cazzata micidiale. Eppure l'esordio è davvero al di là delle previsioni. Un film romantico, drammatico, grottesco, divertente, scoppiettante, elettrizzante, queer, mai banale. Si potrebbe andare avanti per ore trovando aggettivi che ne consacrino la perfetta esecuzione affidata a due attori che sanno dare una profonda performance.

Swiss Army Man è CAST AWAY che incontra GONDRY e che strizza l'occhio a JONZE. Senza dimenticare che se da un lato era da tempo che non si sentiva parlare del tabù delle flatulenze (e della masturbazione) che diventa metafora del bisogno di essere fedeli a se stessi, dall'altra è un film che parla di solitudine umana, di incomunicabilità e ipocrisia, simboleggiata per Manny, che in quanto cadavere non ha inibizioni sessuali né di altro genere, dal fatto che nascondiamo al prossimo le nostre funzioni corporali.  

giovedì 21 luglio 2016

Green Room


Titolo: Green Room
Regia: Jeremy Saulnier
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Una banda punk a corto di serate accetta da un roadie scalcagnato di suonare ad un ritrovo di white supremacists, skinhead d'estrema destra da provincia americana. Giunti in loco la serata si svolge in uno scenario di grande tensione e la band la porta avanti con la sfacciataggine che gli compete ma la tragedia inizia a spettacolo finito, quando prima di andarsene sono involontari testimoni di un omicidio a sangue freddo da parte degli organizzatori. Rinchiusi in una stanza sanno che tutti lì fuori li vogliono morti e, a differenza loro, sono perfettamente in grado di ucciderli.

Saulnier è un tipo in gamba da tenere sott'occhio. Il suo primo film Blue Ruin era un ottimo revenge movie atipico e con alcuni spunti interessanti e originali.
Il talento di questo regista è di riuscire a creare una tensione fortissima e una violenza esplosiva e deflagrante come da tradizione per i migliori horror contemporanei.
Eppure Saulnier si discosta dall'horror canonico creando un ibrido in cui prevale il bunker-movie nella fattispecie di questo locale di traffici e skinheads, dove la violenza viene legittimata purchè si trovi un capro espiatorio o una vittima sacrificale da dare come merce di scambio alle corrotte forze dell'ordine.
Vittime e predatori danno vita ad una prova di sopravvivenza senza concessioni con delle scene davvero incredibili e spettacolari e un ritmo che non sembra staccare un attimo. Pur parlando sempre di un budget modesto in cui, rispetto al primo film, qui appare qualche volto noto e il protagonista del film precedente, il feticcio di Saulnier, ha un ruolo importante ma non primario.
Saulnier ancora una volta prende i topoi del genere e gli modella a suo modo e con il suo stile riuscendo di nuovo a fare centro in questo film punkaiolo solo in parte ma con tanti elementi del cinema di genere che non passeranno inosservati come il film che si è smarcato da diversi festival per finire tra le braccia di Cannes.


giovedì 21 aprile 2016

Mojave

Titolo: Mojave
Regia: William Monaghan
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Un artista suicida vaga nel deserto, dove trova il suo doppelganger, un vagabondo omicida.

Il problema grosso di Mojave è che gira su se stesso diventando pretenzioso, arrogante e stucchevole.
Un film di cui non si riesce a trovare e dare un senso.
Una sfida che non ha ragione di esistere e una struttura che nonostante i buchi di sceneggiatura sembra essere un calendario di pose per l'attore protagonista.
E'così il divo hollywoodiano inizia e finisce una sfida continua e personale in cui sente di aver già fatto tutto nella vita e di aver provato tutto, trent'anni appena.
Affronta le sue crisi esistenziali e i suoi demoni nel deserto come se fosse l'unica location in grado di aiutarlo a fare chiarezza.
Monaghan aveva fatto meglio e sicuramente la sceneggiatura di DEPARTED lasciava sperare in un plot quantomeno significativo. Mojave finisce per annoiare nel giro di poco appena si intuisce dove voglia arrivare.

La sfida psicologica e i dialoghi tra i due protagonisti diventano a tratti insopportabili così come il finale che diventa scontato e quasi inutile.

VVitch

Titolo: VVitch
Regia: Robert Eggers
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Una famiglia cristiana viene cacciata dal villaggio puritano in cui viveva ed è costretta a stanziarsi nella parte più remota della regione al confine con una foresta desolata.
Non appena questa si stabilisce nella nuova casa, inizia un susseguirsi di fatti inspiegabili che porteranno i due genitori ad accusare la figlia più grande di stregoneria.

The VVitch è una vera sorpresa nel horror post-contemporaneo.
Un'opera capace di catapultare lo spettatore nelle campagne del New England, siamo nel 1630, decadi prima delle note vicende di Salem, senza usare elementi stucchevoli e prediligendo l'elemento realistico e naturale alla c.g.
In un panorama in cui le streghe e la stregoneria non sembrano più avere effetto perchè troppo patinate e piene di elementi esagerati e fuori luogo, il secondo lungo di Eggers punta invece sulla dimensione simbolica, pagana, superstiziosa, per arrivare a far collimare tutti questi elementi in un exploit suggestivo e impressionante.
Grazie ad un cast che riesce a mettercela tutta, il reparto giovani è strepitoso.
Il film che avrebbe dovuto fare Ben Wheatley al posto di HIGH RISE sembra strizzare l'occhio al cinema d'autore, dove l'ansia e la suspance creano più orrore che mostri, sangue e rituali.
La trasfigurazione, come il sovrannaturale, si manifestano concretamente ma solo nel climax finale dimostrando il perfetto impianto di regia e scrittura che connota la pellicola.
Il dramma famigliare riesce ad essere il vero orrore puro con tutte le paure e la lotta per la sopravvivenza. Ed è per questo che una delle scelte fondamentali e più astute di Eggers è stata quella di mostrare la strega e la sua tana in rarissimi momenti.




lunedì 18 aprile 2016

End of the Tour

Titolo: End of the Tour
Regia: James Ponsoldt
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Il film porta al cinema un ritratto intimo e complesso dello scrittore David Foster Wallace, una delle stelle della letteratura americana e mondiale dei nostri anni, morto suicida il 12 settembre del 2008. Il libro di Lipsky, da cui il film è tratto, è la cronaca di cinque giorni da lui trascorsi assieme a DFW mentre era in giro per gli Stati Uniti per un tour di reading del suo "Infinite Jest"

"L'America è uno tsunami di roba che ti viene addosso"
Forse per apprezzare i discorsi di Wallace bisognerebbe prima leggere uno dei suoi libri.
Pur non avendolo fatto ho avuto il piacere di farmi un'idea con questo film e di assistere alle sue divagazioni, monologhi, critiche e osservazioni sulla società.
In realtà quello che Ponsoldt, veterano del Sundance, riesce a fare è ben più articolato e complesso.
Un personaggio interessante e particolare, per certi versi ambiguo, timido e solitario, che preferisce vivere con i cani che con le persone (e non è certo l'unico).
Segel riesce a dare un ritratto di Wallace molto intenso, rubando in più riprese la scena al giornalista Eisenberg, un altro attore che sta riscuotendo molto successo.
Un road movie sulla memoria e i ricordi dello scrittore che con un umiltà spaventosa, crea una sorta di confidenza importante con Lipsky fin da subito, mettendolo e mettendosi in crisi solo nei momenti in cui entrambi hanno a che fare con l'esterno, con delle donne e in cui non rimangono soli in una sorta di limbo a dare spazio all'intervista.
Un intervista che alla fine dei conti smette di essere tale, condensata in cinque giorni di frequentazione, amicizia e un intensa dialettica.
Proprio l'intervista di nuovo vacilla per scandagliare tematiche e questioni più interessanti spaziando tra concetti esistenziali, sociali, culturali, religiosi e politici di ciascuno dei due.



mercoledì 30 dicembre 2015

Lobster

Titolo: Lobster
Regia: Yorgos Lanthimos
Anno: 2015
Paese: Grecia
Giudizio: 4/5

David è rimasto solo come (e con) un cane. Secondo le leggi vigenti, deve essere trasferito in un lussuoso hotel dove avrà a disposizione 45 giorni di tempo per trovare una nuova compagna. Terminato quel lasso di tempo, sarà trasformato in un animale a sua scelta e lasciato libero a vagare nel bosco.

Lanthimos dopo tre bellissimi film approda alla fantascienza distopica (da una parte c'è una tirannia che impone ritmi di vita alienanti e punizioni esemplari, dall'altra un gruppo di ribelli che vive nei boschi) in un modo, ma c'era da aspettarselo, completamente inaspettato.
Lobster è un film che richiede del tempo per pensarci e per pensare a come strutturare un'idea del genere e allo stesso tempo come farsela piacere soprattutto, e qui vince il cinema europeo, per quella idea di cinema che non deve spiegare cosa sta succedendo e meno che mai esaltarlo o evidenziarlo, elementi invece onnipresenti nel cinema americano.
Un film che dovrebbe essere un inno all'amore che più paura non può fare.
E'lo fa con quei toni da dark comedy, pochi dialoghi e una base molto grottesca di fondo.
Un mondo senza amore, anche il regista più cinico al mondo, non lo vorrebbe mai e amore e affetto grazie al cinema di genere hanno esattamente il bisogno di dimostrare il contrario.
L'essere umano ancora una volta è criticato nel suo modo di vivere o di credere di vivere, fingendo, oppure dimostrando di essere assolutamente individualista e anaffettivo.
Allo stesso tempo è un film che poteva centellinare, anzi doveva, minuziosamente il valore su cui poggia, altrimenti come dalla parte del bosco in avanti, il film esaurisce la sua carica diventando prevedibile e per certi versi scarso rispetto all'originalità di base.
Poi questo uso davvero originale e atipico della voce over che se da un lato spesso è una stonatura troppo didascalica, qui invece dice il banale coprendo l'essenziale oltre che anticipare gli eventi, è in questo non si sa bene se è provocazione o altro.
Certo il linguaggio analitico e complesso con tutta una simbologia che permea il film davvero schematica e non sempre facile da seguire sembra sia diventato il marchio di questo regista.
Ancora una volta una società che di fatto è pervasa da solitudine e depressione, ma di fatto cerca di imbrogliarla e mascherarla senza poterlo, perchè negherebbe la stessa esistenza.



giovedì 22 ottobre 2015

Slow West

Titolo: Slow West
Regia: John MacLean
Anno: 2015
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Con il lento incedere dei cavalli al passo, il regista-musicista John Maclean realizza il suo primo lungometraggio e lo veste con i costumi del vecchio western. Jay Cavendish è uno smilzo sedicenne scozzese, ingenuo e senza peccato, deciso a raggiungere il lontano West per ritrovare la sua bella Rose Ross. In questo viaggio d'iniziazione è affiancato da Silas Selleck, un cowboy fuorilegge, senza rimorsi e senza passato, taciturno con il ragazzo, ma eloquente voce narrante, che si offre come guida protettiva in cambio di pochi soldi.

"In poco tempo questo mondo sarà il passato"
Slow West è probabilmente uno dei western più interessanti degli ultimi anni.
Originale, intenso, drammatico, poetico, nostalgico, malinconico, con un cast scelto ad hoc e i personaggi principali ottimamente caratterizzati.
E'un film pervaso anche da delle affascinanti location, una natura che accoglie e insieme distrugge, e come dicevo dei personaggi che si evolvono rapidamente cambiando natura e intenti.
Un viaggio nelle praterie incontro alla sofferenza e alla morte, a sopravvissuti che rincorrono solo un facile guadagno e un pretesto per uccidere.
Una strana coppia, lui timido aristocratico e mosso da buoni principi che dovrà scoprire la dura realtà che lo circonda in un "horse-movie", mentre Silas, rappresenta tutti i suoi opposti anche se con una sensibilità di fondo che rende l'interpretazione e lo sguardo di Fassbendere sofferente al punto giusto.
MacLean, pur essendo un ottimo musicista, dimostra come alcuni artisti si trovino perfettamente a loro agio dietro la macchina da presa. Il fatto che non si distinguano buoni e cattivi in modo preciso in un universo di situazioni deliranti, strambe e bizzarre, lo rende ancora più interessante e imprevedibile.
Il finale poi è qualcosa di straordinario.


domenica 30 agosto 2015

Ex Machina

Titolo: Ex Machina
Regia: Alex Garland
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Tra tutti gli impiegati del grande motore di ricerca per cui lavora, Caleb è stato scelto per il prestigioso invito nella residenza del mitologico fondatore della società e inventore dell'algoritmo di ricerca. Arrivato in una zona a metà tra la magione irraggiungibile e il rifugio zen, Caleb comprende di essere stato scelto da Nathan per un importante esperimento. Da decenni infatti Nathan è al lavoro sulla costruzione di un'intelligenza artificiale e Caleb deve testarla per capire se abbia raggiunto o meno il suo obiettivo. Il modello attuale con cui Caleb si confronta si chiama Ava, ha forma umanoide, pelle e circuiti, ragiona ed è conscia del suo status. Dopo i primi giorni Caleb comprende però che c'è qualcosa che non va, le frequenti ubriacature del capo, i moltissimi luoghi della magione in cui non può entrare e alcune strane confessioni di Ava compongono un mosaico più inquietante di quel che non sembrasse all'inizio.

I motori di ricerca cominciano a fare paura per la quantità infinita di informazioni. E se poi riuscissimo a costruire un robot cosciente e affascinante, sarebbe opportuno conferirgli gli stessi diritti di un essere umano oppure usarlo come un oggetto e un automa schiavo della razza umana? Garland, sceneggiatore con alle spalle alcuni ottimi esempi di script, porta sullo schermo un thriller fantascientifico singolare ed elegante, minimale e ambizioso, che seppur trattando alcuni argomenti tipici del genere, come l'intelligenza artificiale e i robot, crea un intricato complesso di elementi con diverse sottostorie e intrecci che portando ad un finale intenso e struggente.
Il punto di forza e la chiave di volta del film infatti non è solo la descrizione di Ava, ma la complessa matrice umana che c'è dietro, le decisioni a cui non è possibile tornare indietro e gli effetti che produrranno, la fragilità di Nathan e il limite sottile con uno strato di follia e una responsabilità stratificata per cui creare in laboratorio e solo un esperimento da formattare a proprio piacimento.
Ex Machina pone molti quesiti, non spiega troppo e lascia lo spettatore a ragionare e creare delle risposte sui meccanismi e le scelte che i protagonisti prenderanno.


lunedì 22 giugno 2015

Son of a Gun

Titolo: Son of a Gun
Regia: Julius Avery
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Arrestato per un reato minore, il diciannovenne JR si scontra rapidamente con la dura vita carceraria e accetta la protezione offertagli da Brendan Lynch, il nemico pubblico numero uno australiano. Poiché la protezione ha un prezzo, una volta tornato a piede libero JR è chiamato a restituire il suo debito, aiutando Lynch a ritrovare la sua libertà con un'audace fuga. Come ricompensa, potrà prendere parte a una serie di rapine milionarie che porteranno JR in rotta di collisione con il suo ex mentore non appena le cose inizieranno ad andare male.

Se è vero che pur partendo da una vicenda a tratti reale come quella del personaggio di Brendan Lynch, l'esordio alla regia di Avery, seppur infarcito di stereotipi e intrecci scontati, ha una sua anima ben delineata coadiuvata da un cast interessante e alcune scelte, come quella nel finale, che se non originali almeno non abbassano il tono generale della pellicola.
Da prison-movie, con tutta l'iniziazione del caso, si passa poi ad un ritmato heist-movie, in una sottotrama, nel secondo atto, in cui il protagonista si invaghisce di una prostituta cercando di sottrarla al suo pappone, in una love-story comunque non così banale come si pensava.
Se non sono i colpi di scena a farla da padrone nel film, è l'atmosfera che cambia di continuo, la recitazione attenta e capace di restituire quella sofferenza che in diversi ambiti attraversa tutti i personaggi legati ad un futuro tanto drammatico quanto doloroso.


domenica 19 aprile 2015

Tusk

Titolo: Tusk
Regia: Kevin Smith
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Specializzato nel raccogliere strane storie da personaggi bizzarri per il suo popolare podcast, il giornalista radiofonico Wallace viaggia verso il Manitoba per incontrare un vecchio marinaio, in sedia a rotelle, che sostiene di essere stato salvato da dei trichechi dopo un naufragio. Presto si renderà conto dell'inanità mentale del suo ospite, che lo rapisce per effettuare su di lui strani esperimenti.

Tusk è un film davvero insopportabile per l’unione di svariati elementi che lo danneggiano nemmeno fosse un’animale in preda ad un raptus incurabile.
Due elementi si salvano ma ovviamente non salvano le sorti del film. 
Il make-up dell’uomo tricheco che seppur trash merita e l’idea di partenza ovvero la raccolta di storie bizzarre (che al giorno d’oggi però basta girare l’angolo senza dover andare in un altro stato).
Tutto il resto è davvero impietoso. 
Johnny Deep strozzato dall’alcool, il non-attore Osment che a parte qualche particina quando era piccolo (vedo la gente scema), è diventato spocchioso e obeso oltre che fastidiosissimo. L’idea di HUMAN CENTIPEDE non portata alle estreme conseguenze ma comunque identica e i dialoghi che s’inseguono in un nulla di fatto, dimostra come la sceneggiatura sia davvero mostruosa ruotando su alcuni vettori peraltro machisti. 
Poi l’antagonista non si capisce come crea il mostro e l’idea che il tricheco sia il suo migliore amico è tutto il non-sense celato dietro il suo monologo, compresa la storpiatura del Crusoe dei poveri, è davvero di uno sconcertante squallore.
Kevin Smith dopo due chicche come DOGMA e RED STATE cade in un flop pazzesco che comunque sono sicuro troverà un ampio pubblico a sostenere questa sua ultima inutile e copiata cagata.


venerdì 9 gennaio 2015

Life After Beth

Titolo: Life After Beth
Regia: Jeff Baena
Anno: 2014
Paese: Gran Bretagna
Festival: TFF 32°
Giudizio: 3/5

Beth, la giovane fidanzata di Zach, morta improvvisamente, viene misteriosamente riportata in vita. Zach, nel tentativo disperato di riconquistarla, per poterle dimostrare l'amore che ha per lei, si accorge che la sua Beth non è più quella di prima...

La morta è viva ma non sa di essere morta né ne vuole accettare le conseguenze.
Alla sua opera prima Baena sceglie un buon cast misurato e di buon livello per creae una sorta di LES REVENANTS mischiato con l'ultimo Dante BURYING THE EX e infine cercando di smarcarsi scrivendo e mettendo in scena qualcosa che seppur non originale, ha di certo delle pregevoli trovate. Un buon canovaccio sopratutto nel primo atto, con alcune intuizioni intelligenti e un buon incidente scatenante. Purtroppo alcuni aspetti un pò troppo didascalici, la paura di osare qualcosa di più, rendono il ritmo interessante ma sofferto dai suoi continui alti e bassi.
Quello per cui questa piacevole commedia horror colpisce piacevolmente è proprio per come sviluppa il rapporto tra la famiglia e il compagno della figlia proprio quando lei sta subendo una trasformazione e non è in grado di intendere quello che le sta succedendo.
In questo clima alcuni dialoghi rendono perfettamente il disagio famigliare e tutto il resto che comporta.








lunedì 22 settembre 2014

Rover

Titolo: Rover
Regia: David Michod
Anno: 2014
Paese: Australia
Festival: TFF 31°
Giudizio: 4/5

Dieci anni dopo il collasso dell'economia occidentale anche l'Australia si ritrova vittima di una desertificazione sociale che ha condotto tutti sulla strada della violenza. Eric è alla guida del suo fuoristrada impegnato a lasciare il suo oscuro passato alle spalle. Quando l'automezzo gli viene rubato da una banda di disperati cerca di recuperare la sua unica proprietà. Non solo, in un mondo ormai privo di remore, intende eliminarli fisicamente. Il suo percorso si incrocia con quello del disturbato e ferito Rey. Costui è il fratello di uno degli appartenenti alla banda che lo ha abbandonato, seppur controvoglia, fuggendo dalla ultima disperata rapina.

Michod promette bene. Se con ANIMAL KINGDOM era riuscito a dare un convincente affresco di una famiglia multi-problematica, in una desolata Australia, mantenendo una dilatazione dei tempi molto complessa, nella sua seconda opera, sembra concentrarsi e dare una prova di pura minimalità per tutta la durata del film.
Soprattutto quando l'assunto, che scopriamo alla fine, sembra voler dire che non è così importante il climax finale, quanto invece tutti gli elementi di riporto.
Due convincenti prove attoriali su cui spicca un Pearce, come sempre in grado di reggere tutta la baracca da solo, e un convincente Pattinson.
Michod riduce tutto all'osso, non inserisce quasi dialoghi, il clima è teso, soffocante e troppo solare. I personaggi sono sporchi, rozzi, uccidono perchè non sanno cos'altro fare, e la stessa civiltà sembra ormai agli sgoccioli.
Lo stesso sentimento che accomuna il film è di un cinismo smisurato in cui non ci sono ancore di salvataggio.
Forse l'unica è la socializzazione e Eric, scopre, proprio ormai desolato e solo come un "cane", che anche uno stralunato che gli ha fatto un torto, è sempre meglio della solitudine, perchè si sà l'uomo è prima di tutto un'animale sociale.
Un film che fa centro, difficile, tutto sommato lento e pesante ma che trova proprio nella sua difficile analisi la linfa migliore.


Locke

Titolo: Locke
Regia: Steven Knight
Anno: 2013
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Ivan Locke guida nella notte verso Londra. È un costruttore di edifici, ma questa notte si consuma la demolizione della sua vita. All'alba avrebbe dovuto presiedere alla più ingente colata di cemento di cui si sia mai dovuto occupare. Gli americani e i suoi capi hanno incaricato lui, perché per nove anni è stato un lavoratore impeccabile, il migliore: solido come il cemento, appunto. Ma la telefonata di una donna di nome Bethan riscrive l'esistenza di Locke. Prima di quella telefonata, e del viaggio che ha deciso di intraprendere di conseguenza, aveva un lavoro, una moglie, una casa. Ora, nulla sarà più come prima.

"È stato bello recitare in un ruolo in cui l'azione più attiva è il contenimento"
Lockè è girato tutto in un interno di un auto, con un attore che riesce a regalare sofferenza e gioia allo stesso tempo, senza bisogno di esagerare neppure per un minuto.
Mantenere un buon ritmo per '90 praticamente legati in diverse conversazioni che non sembrano finire mai e allo stesso tempo vedere il protagonista intrappolato in una matassa da sbrogliare molto complessa sono già elementi che si propongono una buona sfida di questi tempi. Se poi ci mettiamo che il regista usciva da un film con Jason Stahman allora la sfida era ancora più difficile.
Il fisic du role di Hardy vince la sfida, puntando su una misuratissima lucidità e calma, rivelando così la buona verve che lo contraddistingue.
Knight dimostra di non essere solo talentuso nello scrivere sceneggiature, ma anzi provoca e soprattutto cerca di apportare nuova linfa e nuovi elementi interessanti al genere.
L'esame di coscienza finale di Locke è straordinario, lapidario e si spera che possa muovere qualcosa nele coscienze di chi lo sta così attentamente osservando.



lunedì 7 luglio 2014

Under The Skin

Titolo: Under the Skin
Regia: Jonathan Glazer
Anno: 2013
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Michel Faber Sotto la pelle e vede Scarlett Johansson nel ruolo di Isserley, un'aliena che percorre le autostrade deserte a caccia di prede umane, sfruttando la sua bellezza come esca. Isserley avrà modo di conoscere e apprezzare la natura degli uomini e delle donne e mettere così in dubbio la propria identità e origine aliena.

Devo dire che è abbastanza anomalo l'ultimo film del buon Glazer.
Un regista che pur non avendo una nutrita filmografia alle spalle, riesce a stupire per le scelte a volte antiestetiche e per quella voglia di misurarsi con sottogeneri difficili.
Dal pulp al thriller, alla fine arriva alla sci-fi. Il risultato è la routine di questa aliena, astutamente interpretata dalla Johannson, che sembra sempre sul punto di scoprire qualcosa dell'essere umano per poi fermarsi e cercare di dargli un significato.
Completamente slegata dal male intrinseco in ognuno di noi, Isserley conduce le sue vittime in un luogo del tutto slegato dalla realtà, un onirico e folle paesaggio che potrebbe a tutti gli effetti essere la metafora dell'aldilà o della nascita.
Manca la violenza, il sesso, i dialoghi, a volte il ritmo eppure più si và avanti e più questi stessi elementi appaiono fuori luogo, datati, in un viaggio apocalittico dentro e fuori di noi.
Gli incontri rappresentano le diverse personalità, le emozioni e i sentimenti contrastanti di un'umanità sempre più trascinata verso il baratro e che incuriosisce la nostra aliena in cerca di comprendere e misurare e dare un volto agli esseri umani.
Dotato di un'atmosfera davvero atipica e molto funzionale, Under the Skin è qualcosa di più che raccoglie e semina tantissimo, misurando e centellinando in vista di una raccolta che genererà nel pubblico diverse domande, incuriosirà e forse farà paura.
Di una cosa Glazer prende svariati meriti nella pellicola.
Aver ancora una volta, ma in modo più che pregevole, delineato un contesto di diversità (in questo caso l'aliena) sorprendentemente lucido e attento a slacciarsi da ogni stereotipo o clichè sull'alieno come Hollywood ci ha allevato negli ultimi trent'anni.