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mercoledì 6 febbraio 2019

Panico al villaggio


Titolo: Panico al villaggio
Regia: Stephane Aubier
Anno: 2009
Paese: Belgio
Giudizio: 3/5

C'era una volta, in un villaggio di nome Villaggio, un cavallo di nome Cavallo, che viveva con un cow-boy di nome Cow-boy e un indiano di nome Indiano. È il 21 giugno, il compleanno di Cavallo, e i suoi due compari pensano bene di ordinare 50 mattoni per costruirgli un barbecue. Peccato che, tra un gioco e una distrazione, l'ordine on line parta pieno di zeri e il Villaggio si ritrovi invaso da 50 milioni di mattoni, che fanno particolarmente gola a dei piccoli, imprendibili ladri notturni.

Panico al villaggio è una bella metafora della nostra società.
Folle e schizzato come i belgi spesso sanno essere, riesce pur sfruttando una tecnica d'animazione in stop-motion abbastanza desueta, ad avere un ritmo e una storia che assieme ai personaggi colpiscono per la loro linearità, caratterizzazione, scelte insolite, un ritmo sbalorditivo e una messa in scena che riesce a cogliere quei dettagli importanti per rafforzare la narrazione e l'impatto visivo che rimane un'esperienza visiva, prima di tutto, molto interessante.
Grazie anche ad un ottimo doppiaggio dove aiutano i cugini di SOUTHPARK, Panico al villaggio sembra partire in sordina per poi allargarsi al di là della porzione di spazio dove vivono ancorati i tre protagonisti.
Un'ambientazione per alcuni aspetti misteriosa dove i bambini non esistono, gli animali parlano, e gli esseri umani invece sembrano tornati alla fanciullezza a differenza degli animali più maturi e rigidi nelle scelte che si comportano quasi da genitori.
La casualità è il fattore di forza e che allo stesso tempo lascia inermi di fronte ad un ritmo dove tutto può succedere in qualsiasi momento e senza dover avere una causa o un nesso.
Un ritmo e una potenza inesauribile rischiano a volte di lasciare spiazzati, soprattutto per come dicevo in quanto non essendoci coordinate, al di là di qualche frase di Cavallo, il vero protagonista, a volte si fa fatica a comprendere gli intenti dei registi.
Altrimenti sembra regnare una sorta di anarchia democraticamente accettata.


lunedì 24 dicembre 2018

House of the devil



Titolo: House of the devil
Regia: Ti West
Anno: 2009
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Negli anni ottanta una studentessa del college, Samantha Hughes, ha preso uno strano lavoro da bambinaia che coincideva con un'eclissi lunare. Lentamente realizza che i suoi clienti nascondono un terribile segreto; pianificano di usarla in un rito satanico.

Ti West è un personaggio particolare nell'horror. Un autore capace fin da giovane di saper realizzare un film indipendente senza farsi mancare nulla e poi col tempo, in grado di alternare prodotti più autoriali ad altri più commerciali.
La sua filmografia rimane abbastanza solida sul genere a parte qualche deviazione con uno degli ultimi film, un western appunto.
Tanti omaggi ma non solo. Qui ci troviamo a mio parere di fronte al film più importante assieme a INNKEEPERS dove lo stile e asciutto ed essenziale, non c'è bisogno di ricorrere a jump scared, effetti speciali troppo abbondanti, mostri o qualsiasi altro artificio avvezzo al genere.
La narrazione, l'atmosfera claustrofobica, la casa, lo stile vintage, la fotografia calda e l'ampio ricorso a inquadrature strette e diversi dettaglia funzionali al climax finale sono gli elementi decisamente più suggestivi del film.
Fin da subito i rimandi a Polanski sono chiari e non fanno una piega così come altre citazioni colte e mai fine a se stesse, Kubrick immediatamente dopo, per trovare una formula che nella sua lenta esamina trova a mio giudizio il maggior punto di forza.
Condito con una musica sopraffina e delle ottime interpretazioni, il primo asso nella manica di West ha l'unico depotenziamento nella chiusura finale abbastanza telefonata e senza quel guizzo che ci si poteva aspettare.
Ti West a differenza degli altri suoi film molto più improntati sull'action e sullo splatter, Cabin Fever 2-Spring Fever, Roost-La Tana, V/H/S 2, sceglie un'atmosfera che rimanda a lezioni di grande cinema dove l'ignoto, come i padri del sapere insegnano, sarà sempre lo strumento di maggior terrore se sfruttato con abilità e moderatezza. West in parte in questo film l'ha capito.



giovedì 13 settembre 2018

Bunny and the bull


Titolo: Bunny and the bull
Regia: Paul King
Anno: 2009
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Stephen Turnbull non esce dal proprio appartamento da mesi e vive all'interno di una routine protettiva ma asfissiante. Sconvolto costretto a cambiare il ritmo della sua vita vagando all'interno della propria mente per cercare le ragioni della propria alienazione. Ripercorre così, nel suo labrintico archivio mentale, il folle viaggio in Europa fatto con Bunny, il suo amico più caro interamente dipendente da sesso, alcol e gioco d'azzardo.

Bunny and the bull è sicuramente l'opera migliore di King contando le sue ultime commedie commerciali e poco ispirate. Qui invece il regista che ha scritto anche la sceneggiatura sembra essersi preso una pausa per far viaggiare i suoi trip mentali dandogli un nome, una storia e un ritmo.
Il risultato è notevole ma senza dover per forza fare paragoni con Gondry, più di tutti, e qualcosina di Gilliam o addirittura per le scene iniziali WILLARD IL PARANOICO.
Da un'unica location, la casa di lui da cui non può/vuole uscire, fino alle intuizioni legate al sogno e agli ospiti che entrano in casa sua senza voler più uscire fino alle continue cerniere che aprono porte e varchi da casa sua per immergersi in altri luoghi inesplorati dove lo stesso Stephen sembra riuscire ad adattarsi sono solo alcuni degli aspetti più onirici e divertenti del film.
Un film per certi versi riesce ad essere anche intimista, con un menage a trois, una bella storia d'amore, un protagonista nerd e forse un po sfigato che riesce nonostante tutto a raggiungere il suo obbiettivo e Bunny, il suo amico, che rappresenta l'eccesso in tutto e per tutto che con la sua mania di diventare torero andrà incontro ad un fatalismo annunciato.
Una commedia fresca, leggera ma profonda, che come sempre prevede l'inserimento di una donna come simbolo del cambiamento e dell'uscita da quella caverna dove Stephen sembrava essersi incatenato da solo per paura di far visita al mondo.

sabato 2 settembre 2017

Offspring

Titolo: Offspring
Regia: Andrew Van Den Houten
Anno: 2009
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

In una contea rurale del Maine si aggira, da moltissimo tempo, una feroce banda di assassini composta prevalentemente da bambini molto piccoli, totalmente selvatici, che si spostano continuamente lungo la costa e fino al Canada, depredando case isolate e occasionali campeggiatori. I piccoli, capeggiati da una violenta e sadica coppia di maniaci trogloditi, sono i diretti discendenti di un clan di cannibali che si è lentamente isolato dalla società e, grazie alla particolare conformazione del territorio e alla scarsa comunicazione fra le varie forze di polizia, è sempre riuscito a eludere la cattura. Quando questi selvaggi assedieranno una casa isolata dove risiede una coppia con bambino piccolo, raggiunta poco tempo prima dalla sorella di lei con tanto di figlio al seguito e marito alcolizzato sulle sue tracce, gli eventi precipiteranno lungo un'inevitabile spirale di follia e violenza.

Il romanzo Offspring, firmato dall’aggressiva e talentuosissima penna dello scrittore statunitense Jack Ketchum, viene pubblicato nel 1991, a undici anni di distanza dall’esordio con Off Season, di cui Offspring è sequel letterario.
I cannibal movie, il sottofilone di genere horror, negli ultimi anni sembra essere ritornato in voga. E'uno scheletro ripreso che ora va in auge con titoli a volte sorprendenti e altri condannati ad essere film dimenticabili che ripropongono lo stesso schema narrativo e la stessa struttura senza guizzi d'originalità.
Offspring nella sua trama pressochè scontata, aveva qualche elemento di genere interessante che purtroppo viene messo in sordina dalla regia televisiva di Van Den Houten e una scelta di cast troppo amatoriale.
Tutto questo gioca un peso insostenibile nella scena degli attacchi all'interno della casa con una regia piatta e bidimensionale, mentre invece riesce a diventare quasi credibile e con scene suggestive nei rituali all'interno delle caverne.
L'idea di fatto è sempre quella per Ketchum e il regista che firmerà opere molto più interessanti in seguito il quale sembra dargli corda senza però intuirne gli intenti nel modo giusto.
La sfida tra le civiltà, l’uomo come animale selvaggio nello stato di natura, la civilizzazione tribale, il mettere alla gogna l’istituzione della famiglia, smembrandola dall’interno, e infine il potere del rito e della vittima sacrificale, sono tutti temi interessanti e antropoligicamente di ampie vedue che in questo film diventano di nuovo di una semplicità che non si può ignorare.

OFFSPRING è un horror violentissimo ma sfuggevole e scostante troppo carente nella consistenza così come nella caratterizzazione dei personaggi e della totale mancanza di empatia per i personaggi pur avendo dalla sua alcune scene sanguinolente molto forti.

martedì 16 maggio 2017

Savages


Titolo: Savages
Regia: Brendan Muldowney
Anno: 2009
Paese: Irlanda
Giudizio: 2/5

Paul Graynor è un giovane fotoreporter, dedito al suo lavoro ed interessato alle storie in cui si imbatte. Vive nel centro di Dublino, ed a parte pochi amici, dedica un po' del suo tempo libero per andare a trovare il padre malato, assistito da una infermiera. La sensibilità dei due giovani crea i presupposti per un primo felice appuntamento, ma lungo il ritorno Paul viene brutalmente aggredito, senza motivo, da due giovanissimi rapinatori che lo lasciano con numerose cicatrici fisiche e mentali. L'improvvisa devastazione del suo universo e la difficoltà di convivere con quanto è successo, farà scivolare Paul, suo malgrado, in una condizione di violenza esplosiva.

L'opera prima di Muldowney per quanto sia stato accolto come un piccolo successo in patria diventando una piccola sorpresa all'interno dei festival, non ha secondo me quella maturità tale da renderlo un'opera prima squisitamente indie e per certi aspetti "amatoriale" soprattutto in diversi passaggi per quanto concerne lo stile e la tecnica con cui il regista inquadra la vicenda.
Attimi di confusione in cui non si comprende spesso la realtà dei fatti (la castrazione del protagonista) per arrivare ad un finale pesantemente splatter che porta alle estreme conseguenze un personaggio che di fatto non ha avuto il tempo di sviluppare così in fretta una psicosi così preoccupante. Per altri aspetti invece era molto più interessante la fragilità del protagonista e le difficoltà personali a cercare un posto nella società.
Muldowney inquadra una Dublino ostica, dove gli adolescenti fanno da padroni provocando e aggredendo tutti senza paura e remore. Paul è la vittima sacrificale, il capro espiatorio per il branco che dopo aver perso dignità ma soprattutto la mascolinità decide di passare dall'altra parte iniziando a doparsi e comprando un coltello sul qualche si allena inizialmente con una pecora per capire se è in grado di fare del male a qualcuno.
La prima parte, la psicologia e le domande nonchè i dubbi che assalgono il protagonista nel cercare in quanto giornalista la notizia d'effetto e la paura di guardare in faccia l'orrore diventa la sfida che nei primi due atti il regista riesce a inquadrare in modo piuttosto soddisfacente e soprattutto molto realistico. Assomiglia a due film che sono usciti di recente e che trattano per certi versi lo stesso discorso e parliamo di Citadel (una vera sopresa con un taglio più horror) e il violentissimo Piggy.


giovedì 22 dicembre 2016

White Lightnin

Titolo: White Lightnin
Regia: Dominic Murhpy
Anno: 2009
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Nel cuore delle montagne Appalachian in West Virgnia, dove ogni uomo possiede una pistola e una distilleria di liquori, si tollera la leggenda vivente Jesco White. Da giovane Jesco andava avanti e indietro dal riformatorio al manicomio. Per tenerlo fuori dai guai, suo padre D-Ray gli ha insegnato l'arte della danza di montagna, una versione frenetica del tip tap con la musica country suonato col banjo. Dopo la morte di suo padre, il pazzo Jesco prende le scarpe da tip tap di suo padre e porta il suo show per la strada.

La storia di The Dancing Outlaw, il ballerino fuorilegge è una ballata travolgente e disperata.
Un viaggio nella violenza pura, di una mente deviata, instabile e complessa e di un percorso di redenzione anomalo e senza nessuna concessione.
Una vita di eccessi di droga, alcool, di autodistruzione, di un biologico benessere nella ricerca dello sballo e delle sostanze. C'è tanta musica, ritmo, un montaggio veloce e perfettamente scandito.
Una prima parte fra gli hillbillies che popolano le zone più arretrate e degradate degli Appalachi dove si vive tutti assieme e dove l'ambiente ricorda a tutti gli effetti le carovane dei bifolchi.
Una comunità dove il giovane Jesco intuisce subito, come d'altronde suo padre, quale sarà il suo destino.
Macabro, grottesco, è riuscito in diversi momenti a ricordarmi un altro film folle, BAD BOY BUBBY, il quale puntava più sul disturbo psichiatrico e il suo impatto sulla società rispetto all'esordio di Murphy dove Jesco è un pazzo almeno fino a quando non incontra l'amore e soprattutto quando tutto rischia di degenerare ancor più dopo la misteriosa morte del padre.
Lo squallore (umano ed estetico) che regna nella pellicola disturba, lascia nauseati e straniati. Funzionale a questo punto la scelta registica di puntare su un b/n che sbiadisce i colori più chiari e crea un’atmosfera ora raffinata ora sordida ora laida e sozza.

Un film che seppur non dichiaratamente un horror e un biopic rientra prendendo registi e stilemi del genere diventando un'opera sconosciuta e assurda, un debutto trascendentale che seppure un flop al botteghino, spero faccia resuscitare dalle ceneri Dominic Murphy per il quale nutro profonda stima.

martedì 15 novembre 2016

Katalin Varga

Titolo: Katalin Varga
Regia: Peter Strickland
Anno: 2009
Paese: Romania
Giudizio: 3/5

Katalin Varga è costretta ad abbandonare il villaggio in cui vive. Il marito ha da poco appreso che Dobrán, il figlio adolescente che credeva suo, è frutto di uno stupro di cui la moglie non aveva mai avuto il coraggio di parlargli. Ora Katalin parte con Dobrán su un carretto trainato da un cavallo. Al figlio ha detto che si stanno recando dalla nonna che è ammalata. In realtà la donna ha una meta precisa: vuole saldare i conti con quell'episodio atroce.

Ancora Strickland, in questo caso con un film controverso, scomodo e doloroso, come parte della sua finora interessantissima filmografia. A questo giro però non siamo ne in Inghilterra ne in Italia ma il regista britannico di origini greche sceglie la Transilvania ungherese, a due passi dalla Romania per questo revenge-movie classico e che strizza l'occhio al cinema muto e ai grandi autori del passato. Sembra quasi di vedere un quadro e la natura (ostile e confortevole) diventa di nuovo uno dei simboli che il regista sfrutta al massimo (in questo caso come testimone dello stupro della protagonista all'interno del bosco che come un incubo ritorna in più flash all'interno del film) in un'opera tutta legata all'atmosfera di attesa, al cercare di comprendere la psiche di Katalin sempre più compromessa e legata ad un'altra sotto-storia drammatica che prende piega e porta ad un finale pesantissimo.
L'attrice rumena Hilda Péter riesce a dare naturalezza e spessore ad un personaggio scomodo e difficile. E cosa fai infine quando scopri il tuo carnefice. Cosa fai quando incontri l'orrore nell'orrore ovvero la scelta che sembra condizionarti la vita ma che sai ti porterà in un oblio ancora maggiore.
Quando Katalin incontra lo zingaro lui le dice "Sai, il fatto che io non sia mai stato punito è di per se stesso una punizione". Allora tutto il peso legato ai sensi di colpa in questo sconosciutissimo film del regista, diventa un fatto sociale a cui dare risalto e strutturarlo con una realisticità impressionante.


domenica 23 ottobre 2016

Accident

Titolo: Accident
Regia: Pou-Soi Cheang
Anno: 2009
Paese: Cina
Giudizio: 3/5

Il cervello, la Zia, la Ragazza e il Grassone sono una gang specializzata in incidenti, loro fanno accadere appositamente ciò che dovrebbe essere casuale con lo scopo di uccidere su commissione. Che sia la mafia o un privato cittadino ad ordinare l'esecuzione perfetta poco importa. Quando però un incidente accade a loro l'idea che sia casuale semplicemente non è pensabile.

Ormai quando si legge Johnnie To come produttore si ha in automatico la garanzia di qualità.
E non parlo solo di un genere sempre interessante che nelle giuste mani riesce spesso e volentieri a dare quella spinta in più che manca, ma è proprio lo sguardo critico e il team di professionisti attorno al regista a fare la differenza.
Accident come spesso capita parte già in quinta, è possibile afferrare la maggior parte delle caratteristiche stilistiche e tematiche nel primo atto ed è un coreografatissimo thriller tutto giocato sulla costruzione e la realizzazione dei piani della banda di Brain. I temi, la poetica e la caratterizzazione dei personaggi sono incomparabilmente più profondi di tanto cinema main stream americano.
I dialoghi scarni e colmi di significato, la fotografia neutra e indifferente al dramma in atto, le scenografie anonime e disadorne quanto quel che rimane al protagonista sempre più vittima della disperazione. Siamo cerebralmente predisposti a non affrontare il reale senza una qualche regolarità.
Cheang in nove film ha già collezzionato diversi film importanti come Motorway, la saga di MONKEY KING, KILL ZONE 2, LOVE BATTFIELD. Sicuramente è uno da continuare a tenere d'occhio vuoi perchè è ancora molto giovane, vuoi perchè investe e cerca di trovare tematiche e generi diversi su cui cimentarsi e vuoi perchè fa parte di quella corrente di cineasti cinesi davvero esplosiva e con un sacco di talento.



domenica 20 dicembre 2015

Sin Nombre

Titolo: Sin Nombre
Regia: Cary Fukunaga
Anno: 2009
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

In cerca del sogno americano, una giovane ragazza honduregna intraprende una vera a propria Odissea attraverso l'America Latina insieme al padre e allo zio sperando di raggiungere gli Stati Uniti. Durante il viaggio incrocia la sua strada con quella di El Casper adolescente membro di una gang messicana in fuga dai suoi soci e da un passato fatto di violenza. Insieme cercheranno di sormontare di tutti i pericoli che li separano da una nuova vita...

Sin Nombre è un film crudo e toccante che tocca un tema trattato poche volte al cinema.
Su un argomento così duro e delicato, la sceneggiatura si concentra maggiormente su Caesar, facendo una breve ma intensa descrizione delle gang criminali e portandolo infine ad un esilio forzato. Proprio sulle gang, il regista oltre ad avvalersi durante la scrittura di due frequentatori di quei posti, ha proposto un discorso sull'appartenenza facendo un'analisi attendibile nei rituali, nei gesti e soprattutto nella violenza.
L'emigrazione e la criminalità come le facce di un male comune che ha diversi intrecci purtroppo in Messico e lascia cadaveri senza nome in mezzo a strade dove non troveranno mai una degna sepoltura. Attuale e soprattutto importante, Fukunaga, regista da continuare a tenere d'occhio, si è documentato molto, trascorrendo del tempo con questi "clandestini".
La parte tecnica come sempre è curatissima.
Vengono mostrati alcuni scorci molto interessanti del Messico, lo stile tecnico è impeccabile con alcune riprese notevoli e originali.
Vincitore del Premio per la miglior regia, Cary Fukunaga, e per la miglior fotografia, Adriano Goldman, nella sezione Film drammatici al Sundance Festival 2009 non è un caso, soprattutto quando si parla di cinema veritè ribadendo il concetto che il sistema criminale vince sempre.
L'unica stonatura del film rimane la storia d'amore, ma se guardiamo l'enorme portata e realisticità di concetti che emergono dal film, rimane un'opera compiuta, fatta e finita, che continua un percorso, quello di Fukunaga, atipico e alternativo.


martedì 29 settembre 2015

Found

Titolo: Found
Regia: Scott Schirmer
Anno: 2012
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Marty, dodicenne che ama guardare film horror e progetta di realizzare una graphic novel con il suo migliore amico, è il classico bravo ragazzo che a scuola ottiene buoni voti, ascolta gli insegnanti e non causa problemi. La sua esistenza prende però una piega oscura quando comincia a trovare delle teste mozzate nell'armadio del fratello maggiore Steve. Terrorizzato da quella che potrebbe essere la reazione del fratello nello scoprire che il suo segreto non è più tale, Marty si ritroverà a mettere a dura prova il suo amore fraterno in una spirale di eventi che provocherà molte vittime e distruggerà l'esistenza.

Found è come dovrebbe essere un horror.
Angosciante, inquietante e doloroso in alcune scene madri che difficilmente arriverranno alla psiche dello spettatore indisturbate come l'epilogo familiare che non mostrando crea una devastante violenza immaginifica.
Una tragedia che esplode in modo deflagrante e tremendo, una locandina e alcune immagini che possono ingannare lo spettatore portandolo a credere che il film sia uno splatter come tanti.
Invece il lavoro di Schirmer, un giovane esordiente che ha studiato teoria del cinema, sceneggiatura e metodologia della videoproduzione all'università dell'Indiana, inquadra in modo ipnotico, maturo e in fondo reale, il tema del fraterno declinato come aspetto del perturbante.
Il rapporto tra i due fratelli e la situazione famigliare è raccontata in modo funzionale per far emergere alcuni particolari inquietanti tra cui un disarmante vuoto affettivo e la difficoltà degli adulti a confrontarsi con la post-adolescenza di Steve e la fragilità di Marty.
Ora alcune lacune legate allo script non mancano e evidenziano il limite del film e della totale sospensione dell'incredulità da parte dello spettatore soprattutto legate alla serialità con cui il fratello psicopatico commette gli omicidi.
Ancora più notevole poi è il fatto che il film sia stato girato con ottomila dollari.


giovedì 16 luglio 2015

Boston Streets

Titolo: Boston Streets
Regia: Brian Goodman
Anno: 2009
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Brian e Paulie sono due amici cresciuti insieme come fratelli nelle strade dei quartieri più poveri e duri di Boston. Per sopravvivere sono pronti a tutto, e pian piano i vari piccoli crimini si trasformano in roba più seria, fino a portarli a lavorare per la criminalità organizzata, al comando del boss Pat Kelly. Brian inizia a perdersi sempre più, complice anche la droga, e il grande amore per sua moglie e suo figlio non sembrano bastare a redimerlo. Nel frattempo Paulie progetta un colpo grosso che dovrebbe permettere loro di chiudere.

Boston Streets aveva tutte le carte in regola per essere un film di quelli che mescolano insieme dramma, prison-movie e gangster-movie legato ad una storia vera.
Purtroppo la pellicola di Goodman è infarcita di stereotipi, sonda il già visto e il già detto e non sfrutta al massimo il potenziale del cast dando troppa libertà a Hawke e lasciando in ombra Ruffalo. Goodman non riesce ad andare oltre un film didascalico nella forma e negli intenti con troppe sofferte lacune di storia e di idee prive di pathos che non creano empatia col pubblico rendendolo pallido e frustrante con qualche buon momento perlopiù legato al personaggio di Brian e alla sua sofferta condizione famigliare che non riesce a gestire e rovina in un crescendo spasmodico.
Forse non è un caso che Goodman non abbia fatto altro se non un film mai uscito con Nicolas, redivivo, Cage.



martedì 9 giugno 2015

Girlfriend Experience

Titolo: Girlfriend Experience
Regia: Steven Soderbergh
Anno: 2009
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Uno sguardo rivelatore sul mondo della prostituzione, indagato dal punto di vista di una squillo di lusso. Cinque giorni nella vita di una prostituta d'alto bordo di Manhattan, che pensa di avere il pieno controllo della sua vita. Il suo futuro è roseo: gestisce il suo business in proprio e a modo suo, guadagna 2000 dollari l'ora, e ha un fidanzato devoto che ha accettato il suo stile di vita. Ma quando il tuo lavoro ti porta a conoscere sempre nuova gente, non puoi mai sapere chi stai per incontrare…

Raffinato ed elegante, sobrio e solo a tratti didascalico. Il vero problema di questo insolito lavoro dell'instancabile Soderbergh, è quello di non trovare un ritmo funzionale diventando a tratti davvero noioso e senza una struttura portante che ne sancisca una buona forma.
Un merito del film sta nella scelta della protagonista: Sasha Grey, scoperta da Rocco Siffredi e diventata una star del porno prima di arrivare a collaborare anche nel cinema.
L'idea poi di sfruttare una voce narrante risulta particolarmente fastidiosa e danneggia ancora di più il ritmo del film quasi completamente assente per l'intera durata.
Da salvare la cupa fotografia e la particolarissima colonna sonora nonchè forse l'unica critica osata dal regista, quella di fare una panoramica sullo spaesamento metropolitano (il vuoto di sicurezze che induce a una regressione infantile).
I clienti di Chelsea sono uomini d'affari americani di oggi ossessionati dalla crisi economica: tutti le parlano di crolli di azioni, mercati internazionali, stimulation package (che forse nasconde qualche doppio senso), eccetera. E questi businessmen moderni si pongono anche loro come il ritratto dell'America contemporanea
Soderbergh pur rimanendo uno dei registi più controversi del panorama cinematografico americano moderno, deraglia purtroppo finendo per documentare senza farci mai entrare in empatia con la protagonista.
Completamente inserito nel meccanismo hollywoodiano con film blockbuster, in grado di muoversi tra diversi generi, dallo storico alla fantascienza, dal film biografico alla commedia, dal dramma alla sperimentazione, e capace di tornare alle origini di filmaker indipendente e sul tema del sesso come in questo caso.

Ma qui il risultato non sembra dei migliori, e l'impressione è che il regista americano si sia preso una vacanza tra un progetto e un altro.  

lunedì 27 aprile 2015

Fish Tank

Titolo: Fish Tank
Regia: Andrea Arnold
Anno: 2009
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 2/5

Mia è una quindicenne disadattata. Espulsa dalla scuola, derisa dalle amiche a cui non risparmia sarcasmo e reazioni violente, a casa deve vedersela con una madre ancora giovane e sensuale e con una sorellina con la quale è in costante conflitto. La madre conduce una vita piuttosto libera fino a quando intreccia una relazione con Condor. Il quale sembra essere il primo in grado di cogliere le potenzialità di Mia innescando però un'ulteriore rivalità tra madre e figlia.

Dopo RED ROAD che in tutti i suoi limiti era comunque originale e captava alcune location spettacolari, la Arnold torna a inquadrare il degrado del sottoproletariato inglese.
Fish Tank è certamente coadiuvato da un buon cast, in lingua originale è praticamente incomprensibile e ha una durata quasi insostenibile.
Cerca di essere un dramma alla Loach, ma sapendo prenderne le distanze, cercando di essere accattivante sul trio di relazioni con l'ingresso di Condor (Fassbender).
Katie Jarvis che interpreta Mia, non ha precedenti esperienze da attrice; è stata presa per il ruolo dopo che uno degli assistenti di Andrea Arnold la vide mentre discuteva con il suo fidanzato nella stazione di Tilbury, la stessa stazione che compare nel film.(Wikipedia)
Il film della Arnold, purtroppo si perde in un narrazione estenuante, in cui i temi principali diventano monotoni e ripetitivi, l'uomo di casa che non c'è, la sfida e la rivalsa nei confronti di una madre infantile, e infine l'esplosione dei primi turbamenti sessuali e l'hip-hop come valvola di sfogo, per smascherare tutte le sue incertezze.

Fish Tank ha poche idee e dopo una prima parte che poteva essere sviluppata meglio, diventa prevedibile e scontato.

Enther the Void

Titolo: Enther the void
Regia: Gaspar Noè
Anno: 2009
Paese: Francia
Giudizio: 4/5

Il ventenne Oscar e la sorella minore Linda arrivano a Tokyo. Oscar vende droga per vivere, mentre la diciottenne Linda lavora come spogliarellista in un nightclub. Una notte Oscar si reca in un locale per concludere un affare, ma gli agenti di polizia lo stanno aspettando per arrestarlo e nella colluttazione che ne segue parte accidentalmente un colpo. Oscar muore ma riemergono le memorie del passato, tra queste spiccano la morte dei genitori avvenuta in un incidente d'auto quando aveva solo cinque anni e la promessa fatta alla sorella di non abbandonarla mai.

Noè è uno di quei registi che adoro.
Adoro tutti i suoi film perchè sono crudi e portano sempre a galla sesso e violenza senza soluzione di continuità come succedeva per IRREVERSIBLE e per il suo film migliore SEUL CONTRE TEUS (probabilmente anche il film più maturo). Le sue pellicole mi lasciano sempre un buco nell'anima che con dovute difficoltà adoro, perchè sembra avere una lente che capta il marciume della società e te lo schiaffa in faccia.
Enther the void poi sembra voler scavare ancora di più dentro le coscienze, in un melodramma psichedelico e allucinatorio, aprendo squarci allucinati ed onirici in chiave sempre sperimentale dimostrando il perchè, oltre motivi di budget, il regista argentino trapiantato in Francia se ne esca con un film ogni 3-4 anni.
Un manierismo, il suo, che molti definirebbero fine a se stesso.
Cos'è il vuoto?
-la stessa idea di cinema? -un trip di effetti visivi digitali e computerizzati? -il voyeurismo innato della vittima e del suo creatore? -un vaso di pandora religioso dove spicca il libro tibetano dei morti e la reincarnazione forse infinita?
E' tutto e niente per come l'ho interpretato io, senza stati di allucinazione o visioni avute dall'utilizzo di droghe come ha invece ammesso lo stesso regista.
In 143' secondo me continua a prendere tutti per il culo perchè di immorale ci sono solo i commenti della critica e del pubblico. Per me è un continuo flash al di là della fragilità e a volte della ridodanza e dell'insistenza nel girare attorno ad alcune scene.
Oscar muore e da quel momento il trip ha inizio.

Buona visione!

domenica 19 aprile 2015

Craks

Titolo: Craks
Regia: Jordan Scott 
Anno: 2009 
Paese: Gran Bretagna 
Giudizio: 3/5 

St. Mathilda's School, Stanley Island, Inghilterra, 1934. Miss G insegna alle sue allieve libertà e anticonformismo, ma la sua apparente sicurezza è messa alla prova dall'arrivo di una nuova allieva, aristocratica e coraggiosa, completamente immune al fascino che l'insegnante esercita sulle altre ragazze. La nuova arrivata, Fiamma, dovrà scontrarsi con l'ostilità e la gelosia delle sue compagne, soprattutto la volitiva Di e con le attenzioni sempre più opprimenti dell'insegnante. 

E' tutto tranne che una novità che i figli di grandi registi si cimentino anche loro con la settima arte. Sophia Coppola, Jennifer Lynch, solo per fare alcuni nomi tra le fanciulle. 
Jordan Scott, in più squisitamente affascinante, si cimenta dopo un corto nell'affresco ALL THE INVISIBLE CHILDREN, con questo drammone intriso da un'atmosfera piuttosto particolare e leggermente accattivante coadiuvato da un mix di attrici funzionali e da una fotografia e alcune location davvero sorprendenti. 
La lussuria e l'invidia che poi sono i temi predominanti del film, in un clima puritano come quello british degli anni'30, riescono nel difficile compito di non essere mai troppo appesantiti da scene torpide e dialoghi senza senso, mentre invece sembrano sempre sussurrare o lasciare intendere cosa stia succedendo ma in una patina di mistero e segretezza che pervade tutto il film. 
Complice straordinaria dei meriti di una pellicola che in alcuni punti è troppo didascalica e cerca di omaggiare un certo tipo di cinema autoriale, senza averne ancora gli strumenti (Weir e Altman su tutti) è la bellissima Eva Green, anche se nulla si può togliere alla Fiamma, Maria Valverde e la brava Juno Temple. 
Se il narcisismo della Green e i tuffi eleganti di Fiamma tolgono il fiato, il bagno di mezzanotte che sembra richiamare un affresco pagano è la ciliegina sulla torta.

lunedì 2 marzo 2015

Complices

Titolo: Complices
Regia: Frederic Mermoud
Anno: 2009
Paese: Francia
Giudizio: 3/5

Il cadavere del diciannovenne Vincent viene ripescato dalle acque del Rodano. La sua ragazza, Rebecca, è irreperibile. Il film ripercorre la loro storia dal primo incontro in un internet café: Vincent si prostituiva con gli uomini che lo contattavano attraverso un sito di incontri, Rebecca aveva condiviso questa attività in un paio di occasioni. L’ispettore Cagan e la sua collega Mangin indagano sul delitto.

“Con Complices volevo una nuova volta sondare la questione del desiderio amoroso tra i giovani; e mi sono detto che sarebbe stato interessante iscrivere questo tema in un genere codificato come il polar”
Complices è un giallo con venature da poliziesco che accavalla la storia di Vincent e di Rebecca, alle indagini dei due ispettori, Cagan e Mangin, il tutto senza cercare di stupire con sensazionalismi forzati e  usando meccanismi tecnici ma attenendosi al dramma che accompagna la storia, in particolar modo gli incontri di Vincent prima e poi con la complice Rebecca. In poche parole la summa del cinema francese.
Mermoud, al suo esordio, classe 1969, segue senza indugiare i suoi personaggi, mostrando tutte le fragilità che possiedono e usando un approccio diverso nelle due descrizioni, sfrutta per farci vedere da vicino la scelta di Vincent una telecamera a spalla e immagini molto ravvicinate con tonalità sature a differenza delle inquadrature larghe usate con l’indagine dei due ispettori.

Complices non è un capolavoro, ma rimane un bel film, reale e crudo (per certi versi) che lascia ancora una volta una profonda ferita sul futuro dei giovani, sul bisogno di incollarsi al denaro e di sentirsi liberi in una società che ti tiene in ostaggio. 

venerdì 20 febbraio 2015

Hierro

Titolo: Hierro
Regia: Gabe Ibanez
Anno: 2009
Paese: Spagna
Giudizio: 3/5

Mentre viaggia a bordo di un traghetto  verso l'isola di El Hierro, Diego - figlio di Maria - sparisce. Nessuno sa dove sia finito, se sia caduto in mare o se sia stato rapito. Sei mesi dopo, mentre Maria lotta per superare lo strazio della perdita, riceve una chiamata inattesa: deve tornare all'isola perché è stato ritrovato il corpo di un bambino. Una volta giunta a El Hierro, dove tutto le appare spettrale, Maria deve affrontare il peggiore degli incubi. Finirà per scoprire che certi misteri, in realtà, non dovrebbero essere rivelati.  

“Ci sono momenti della vita e stati mentali che non hanno una logica, ma esistono.”
Hierro è uno di quei thriller di genere sulla paranoia e la separazione,  simile per certi aspetti a interessanti esperimenti come VINYAN e via dicendo (la lista è molto lunga). 
La particolarità del film non è certo il soggetto ma lo stile e lo sguardo con cui Ibanez descrive la vicenda, capta i particolari (l'aridità vulcanica e i fondali marini) e grazie ad un intenso e difficile lavoro di fotografia, livida e fredda, costruisce un atmosfera spettrale capace di pervadere lo spettatore, i suoi personaggi e l’isola.

La ricerca di Maria è tutta dettata da equivoci, doppi sensi, in cui i personaggi e l’ambiente suggeriscono e sussurrano alla protagonista importanti particolari e restituiscono al film meriti in cui è soprattutto l’atmosfera malsana e irreale a fare da padrona spiazzando ancora una volta ‘impossibilità dell’essere umano di riuscire a comprendere senza trovare una spiegazione. 
Sempre e anche qui viene di nuovo da citare VINYAN il prologo è rivelatorio e inquadra perfettamente l significato oscuro e i misteriosi presagi su cui il film cerca e trova la sua formula originale.

martedì 10 febbraio 2015

Bocca del Lupo

Titolo: Bocca del lupo
Regia: Pietro Marcello
Anno: 2009
Paese: Italia
Festival: TFF 27°
Giudizio: 3/5

Prodotto dalla Indigo film di Nicola Giuliano e Francesca Cima, da L'Avventurosa di Dario Zonta e dai gesuiti della Fondazione San Marcellino La bocca del lupo racconta amore e miseria tra gli indigenti e gli emarginati di Genova. Ad "avventurarsi" è Pietro Marcello, che approda a Quarto dei Mille scortato dal ricordo del romanzo verista di Remigio Zena e poco a poco si addentra nei vicoli, osserva, non giudica, condivide e, con questo passo, lucido e discreto ma anche libero ed evocativo, arriverà fin dentro la casa dei suoi personaggi. 

Vincenzo Motta è uno di quei non-attori che grazie ad un documentario sono diventati quasi leggenda creando nel loro piccolo un sussulto di popolarità alternativa.
La Bocca del lupo ci mette un po ad accendersi e a brillare di luce propria, ma poi quando Vincenzo apre bocca e inizia tutta la sua filippica sulle forze dell’ordine e sullo Stato, sulle difficoltà e sui “soprusi” vissuti, allora si entra niente poco di meno che in docu-drama essenziale e commovente vista la sua carica di spensieratezza.  Vincenzo Motta è uno di quelli che per forza di cose è entrato nella bocca del lupo e non ha bisogno di presentazioni perché il suo volto è segnato dalla durezza della vita.

E’la storia di un outsider  che assieme alla sua compagna transessuale crea quel sottostrato di storie in cui parlano li emarginati che sarebbero tanto piaciuti a De Andrè. Vincitore di ben due premi al Festival di Berlino, tra cui miglior documentario, e vincitore del festival di Torino, chi lo sa, forse per il suo modo inusuale di porsi, di concepire una struttura differente per certi versi e di essere in qualche modo “rivoluzionario” nella sua battaglia contro un sistema che non scommette sulle persone ai margini ma anzi cerca quasi di cancellarne le tracce dall’immaginario collettivo, alla fine lascia sgomenti e attoniti di fronte alla decisione e passione che muove la vita di alcuni di loro, coraggiosi e mossi dalla voglia di andare avanti.

venerdì 9 gennaio 2015

R-Perdona e Dimentica

Titolo: R-Perdona e Dimentica
Regia: Todd Solondz
Anno: 2009
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Dieci anni dopo essere andata in frantumi, la famiglia Jordan sta ancora riassemblando i pezzi. Joy, messa in crisi dai problemi del marito Allen, va in Florida a cercare il consiglio della madre e delle sorelle: Trish, alle prese con tre figli e un nuovo incontro e Helen, incapace di trovare agio nel successo raggiunto a Hollywood. Nel frattempo, Bill, il marito di Trish, condannato per abuso di minori, esce dal carcere e si mette alla ricerca del figlio maggiore, Billy, per assicurarsi che non sia come lui, mentre il minore, Timmy, cerca di capire cos'è un uomo e qual è il confine tra amore e violenza.

Il dualismo interno è una battaglia che Solondz affronta in numerosi suoi film.
Pone i personagi di fronte a scelte e dilemmi morali senza stare a dare un giudizio, ma lasciando lo spettatore basito di fronte ad alcune pieghe che il film prende abbastanza velocemente.
I dialoghi sono il vero deterrente con cui il regista americano sfoga tutte le pulsioni interne dei personaggi osando e soprattutto dando un'estrema e veritierà realisticità alla rabbia e la disperazione
Perdona e dimentica è per stessa ammissione del regista americano una sorta di sequel di HAPPINESS, opera che lo consacrò definitivamente come nome del cinema indipendente americano.
Al suo sesto lungo Solondz ritorna a delineare opposti, sottolinea l'impossibilità della felicità, mostrando ancora una volta come comicità e dolore non sono esperienze opposte, ma accezioni dello stesso vocabolo.
Perdonare e dimenticare non vanno mai assieme, questa è la log-line che potrebbe riassumere la natura del film, pervasa da un cinismo tremendo e che al contempo regala anche dialoghi con un impianto umoristico e corrosivo davvero spietato e senza target, cercando di promuovere valori e tradizioni, e stupisce nonchè sconvolge con la sua disarmante verità.
Dal dialogo che la madre fa al figlio sulla pedofilia, all'affetto che alcune vedove cercano nei bar degli hotel, ai padri pedofili, onanisti compulsivi, alle donnette frustrate, egotiche o sfigate, restano sullo sfondo di una lotta insanabile tra rimozione e perdono, capace di mettere in crisi un bambino ma di non turbare eccessivamente gli adulti.
Infine chiudono lo scenario i fantasmi del passato che si trasformano in fantasmi del presente, tutto dall'inizio alla fine, ha un senso e un significat ben preciso nell'opera dell'autore.

martedì 2 dicembre 2014

Non è ancora domani-La Pivellina

Titolo: Non è ancora domani-La Pivellina
Regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel
Anno: 2009
Paese: Italia/Austria
Giudizio: 4/5

Patti, un'artista circense che gestisce spettacoli di strada con il marito Walter un giorno, cercando il proprio cane in un parco vicino al camper in cui vive nella zona di San Basilio a Roma, si imbatte in una bambina di circa due anni. Asia, così si chiama, è stata lasciata lì dalla madre con indosso un biglietto in cui la donna afferma che tornerà a prenderla. Da quel momento la donna, con l'aiuto del marito e di Tairo, un adolescente che vive in un altro camper con la nonna, prenderà ad occuparsi della bimba senza rinunciare a cercarne la madre.

Un docufiction che se partiva con l'idea di seguire il mood di alcuni protagonisti del circo circense, si ritrova a gestire una realtà abbastanza drammatica, ma che proprio nel dramma trova un percorso interessante da raccontare, facendolo diventare un percorso di formazione per la sua piccola e splendida protagonista.
La coppia di fotografi che hanno diretto e montato per diversi anni, interessati al panorama degli adulti in difficoltà e di chi vive ai margini della società, avevano già firmato a 4 mani il documentario sul circo BABOOSKA.
Con questo ultimo lavoro invece il lavoro si sposta proprio nel tratteggiare, con un'analisi che risparmia alcune derive malinconiche e banalotte, per cercare invece solidità e soprattutto solidarietà con cui spesso e volentieri non vengono trattati gli immigrati soprattutto le etnie rom e sinti.
Roma, soprattutto in questo periodo, sembra sempre di più una landa desolata lasciata come location per interminabili guerre tra poveri, ma in questo caso la zona di San Basilio, amata tanto da Pasolini, ci conduce dietro le quinte di un luogo dimenticato e sconosciuto, una realtà abbandonata che seppur spesso, vittima di pregiudizi e povera di soldi, riesce nonostante tutto ad essere ricca di dolcezza, di generosità e umanità.
La dolcezza e la maternità con cui verrà "allevata" Asia alla vita e la sua forza nel prendere coraggio e accettare una famiglia allargata, sono parte della nutrita serie di fatti che seguiranno Patti e Walter e la loro paura di essere indicati come sequestratori di bambini o falsificare la realtà durante una perquisizione della polizia per non perdere la bambina.
I due registi non cadono mai nel patetico o nel sensazionalismo forzato, ma anzi vanno avanti a piccoli passi, cercando e trovando in una realisticità molto funzionale, un lento e difficile passaggio che avrebbe potuto soffrire di svariate pecche e defezioni, ma che nell'analisi brillante di un alternativo percorso di formazione, trova un valido supporto e una sensibilità profonda, vera senza essere mai effimera, in grado di aprire inquietudini profonde sull’infanzia, la famiglia e i rapporti.
Ed è allora che il rapporto e l'analisi dell'Altro culturale diventa sinonimo di accoglienza e amore, un dato che nonostante tutta la cronaca, continua ad essere prevalente.