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sabato 20 aprile 2019

Triple Frontier


Titolo: Triple Frontier
Regia: J.C.Chandor
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Santiago è un militare americano con addestramento d'élite che lavora per una compagnia privata in Colombia, dove pianifica un assalto a un ricco narcotrafficante. Per realizzarlo collabora con la bella Yovanna, che svolge alcune consegne per il narcos ed è entrata nella sua villa. Inoltre, con la promessa di evitare vittime civili e di consegnare parte del bottino alla CIA, Santiago torna negli Stati Uniti per reclutare i suoi ex commilitoni, che non se la passano benissimo. William insegna alle reclute, suo fratello Ben combatte nel giro delle MMA, il pilota Francisco è nei guai con la legge e il loro leader, Tom, è divorziato e preoccupato di non poter garantire un futuro sicuro ai propri figli. Santiago avrà gioco facile nel convincerli a partecipare all'avventura.

Triple Frontier è il tipico film che ti piazza una smorfia sul viso prima di vederlo.
Partendo dagli attori: Oscar Isaac ormai è come il prezzemolo nei film (ovunque) funzionale ma nulla più, Affleck ormai è il fantasma di se stesso alcolizzato e gonfio come se lo avessero preso a cazzotti, Hunnam rimarrà sempre Jax nei cuori degli amanti della serie cult ( e finora l'unico ruolo davvero che gli è rimasto impresso), infine Hedlund che sta provando come biondino a ritagliarsi qualche ruolo importante e infine la regia di J.C.Chandor, che diciamolo pure, confeziona il suo film migliore dopo aver dato prova di saper fare del buon cinema con il survivor di All is lost
(Redford contro le forze della natura).
Qui cambia scenario, lo schema è corale, c'è tantissima azione, i cartelli, il mondo della droga, la corruzione, alcune location riprese con una fotografia splendida in grado di risaltarne i colori (parlo del confine tra Paraguay, Argentina e Brasile).
E poi quando ti aspetti l'aspetto perturbante reazionario dietro l'angolo, il film invece fa un rovescio della medaglia dimostrando come i veterani di guerra sono servi usati dal governo per i loro scopi e poi lasciati a invecchiare o morire dentro ospedali o a darsi alla droga o all'alcool.
In questo caso in mezzo ad una giungla senza aiuti e smarriti negli ideali come negli intenti e dove la bandiera a stelle e strisce non serve più, dovranno cavarsela da soli spesso scontrandosi e dovendo purtroppo sapere che mettersi contro un cartello significa morte certa.
Triple Frontier inoltre, altro elemento a favore del film, è stato scritto dallo sceneggiatore, nonchè il giornalista Mark Boal (ZERO DARK THIRTY, HURT LOCKER, DETROIT, NELLA VALLE DI ELAH) praticamente colui che ha reso possibili gli ultimi importanti film della Bigelow, la quale avrebbe dovuto dirigerlo lei inizialmente il film.




mercoledì 6 febbraio 2019

Ghoul


Titolo: Ghoul
Regia: Patrick Graham
Anno: 2018
Paese: India
Stagione: 1
Episodi: 3
Giudizio: 3/5

In una remota prigione militare arriva un nuovo detenuto che il governo ritiene molto pericoloso: è il temuto terrorista Ali Saeed Al Yacoub. Per condurre il suo interrogatorio viene inviata sul posto una donna soldato, Nida Rahim, che ha dimostrato in precedenza abilità e senso del dovere al di fuori della norma, tanto da aiutare le autorità ad arrestare il proprio padre. La giovane agente, però, si renderà conto che il criminale nasconde delle abilità soprannaturali di matrice demoniaca che gli consentono di conoscere i segreti più intimi di tutti i militari nel carcere e di utilizzarli contro di loro. Il terrorista prenderà il controllo dell'intero carcere, ma Nida riuscirà ad affrontare questa nuova missione?

Le mini serie quando hanno temi accattivanti sono le benvenute a dispetto di serie infinite con ad esempio 20 episodi a stagione.
Il tempo è importante. Ghoul si trova tra Netflix e Blumhouse (che stimo sempre di più per il loro coraggio). Il risultato è un prodotto d'intrattenimento interessante sotto certi aspetti, che cattura un taglio internazionale pur essendo un prodotto indiano, una cinematografia, che tolta Bollywood da noi non è ancora molto conosciuta quando invece dovrebbe vista l'enorme capacità di avvicinarsi e indagare il noir, il poliziesco e l'horror.
In questo caso ci sono diversi aspetti che decretano un significativo passo avanti per le produzioni e per cercare di sfruttare il tema della possessione, che andrà sempre di moda, e mischiarlo con un futuro distopico ( che poteva anche non esserci dal momento che risulta slegato in parte dalla vicenda), una scenografia quasi interamente in una prigione e il folklore locale legato alla storia dei demoni Ghoul o Jiin onnipresente anche in Medio Oriente.
Diciamo pure che Graham aspetta un po prima di concedere azione e ritmo in abbondanza.
Il primo episodio parte in sordina facendo incetta di particolari, alcuni utili, altri trascurabili per andare subito a raccontare i personaggi e la piramide sociale presente nella prigione, con tutte le regole e i ruoli che la donna piano piano comincia a ricoprire. In questo caso anche il tema del terrorismo per quanto ultimamente risulti abbastanza abusato è funzionale, come scusa per lo stato ad usare qualsiasi mezzo contro i prigionieri o presunti complici, facendo soprattutto leva sui parenti e sulle minacce.
L'aspetto su cui ruota meglio la vicenda legata proprio alla caratterizzazione della protagonista, una poliziotta cazzuta che pur di aiutare la giustizia arriva a denunciare il proprio padre.
Ci sono diverse sotto storie, alcune delle quali ho trovato macchinose o abbastanza inutili al ritmo della vicenda, che quando parte, sa sicuramente avere un ottimo ritmo, senza mai essere pretenziosa, cercando invece di restare incatenato alle sue radici.
Sinceramente mi aspettavo qualche jump scared maggiore, contando che dalla metà del secondo episodio è quello l'obbiettivo del regista.
La mattanza avviene con alcuni twist finali abbastanza telefonati a parte l'epilogo che ho trovato interessante, crudo e spietato nella sua logica perversa a danno di un'altra logica legata alla corruzione e all'abuso di potere del governo indiano.


sabato 10 novembre 2018

Overlord


Titolo: Overlord
Regia: Julius Avery
Anno: 2018
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

A poche ore dal D-Day, un battaglione americano di paracadutisti viene lanciato su un paesino della Francia occupata dai nazisti per una missione cruciale: far saltare una torre-radio, posizionata sopra una chiesa, per facilitare l'invasione alle truppe di terra. Sterminati dalla contraerea tedesca e dalla superiorità numerica delle forze naziste, i soldati americani rimangono in poche unità e trovano rifugio nella casa di una ragazza del posto, che vive sola col fratellino. Decisi a portare comunque a termine la missione, il soldato Boyce e i suoi compagni si fanno strada con uno stratagemma all'interno della torre, ma qui scoprono un vero e proprio laboratorio degli orrori e si ritrovano a combattere un nemico mostruoso, apparentemente invincibile.

Chissà come mai la scelta di Avery, il regista che aveva diretto un filmetto molto carino ma con tante imperfezioni di nome Son of a Gun. Diciamo che a differenza dell'esordio del 2014, qui Avery può contare su un budget faraonico, rispetto al precedente film, anche se per quanto concerne il cast ha sempre avuto una buona schiera di attori.
War-movie+Action+Horror+Nazisti ed esperimenti+Creature e mutazioni.
Gli ingredienti alla base sono questi e non sono pochi.
Una manciata di minuti per presentare lo squadra in aereo e poi il massacro dove si salvano in pochissimi e da lì il cambio strategico nella location principale, un paesino francese dove gli abitanti servono come cavie per gli esperimenti nazisti, e dove abbiamo tutto il tempo per conoscere i personaggi e respirare dopo il bombardamento iniziale.
Tempesta, silenzio e infine pioggia acida.
Diciamo che anche qui la carne al fuoco era molta. Anche su questo ci sono stati diversi film molto ma molto simili, primo tra tutti Frankenstein's Army che diciamo era davvero una chicca e se prendiamo in esamina l'horror era proprio un'altra cosa molto più potente e paurosa.
Questa è la versione più edulcorata, commerciale, digeribile, con molti meno mostri e di una major celeberrima, per cui i rischi erano davvero tanti, ma Avery da buon mestierante con qualche punto in più è riuscito a salvare il comando della squadra, cercando di bilanciare intrattenimento e un minimo di sostenibilità della storia.
Funziona sotto molti aspetti che sono poi quelli che riguardano il reparto tecnico, il cast, alcuni accorgimenti e soprattutto le scene d'azione. Quello che non è che non funziona, ma ci si poteva aspettare di più sicuramente, erano gli infetti nella torre che gli alleati dovranno distruggere.
Alcune fesserie riguardanti cose che fanno i personaggi come se da un momento all'altro fossero tutti killer professionisti o abili ladri che riescono a nascondersi in una base nemica piena di guardie naziste tra cunicoli infiniti senza mai farsi vedere dal nemico, sono spesso esagerati, come la ragazza francese che ad un certo punto diventa quasi un'assassina nata rubando troppo la scena.
Un finale che poteva e doveva regalare di più, la resa dei conti tra l'antagonista e il protagonista è veramente scopiazzata da tantissimi film e diciamo anche che l'aspetto che doveva più di tutti far paura, e che il regista olandese aveva usato molto bene nel film citato prima, qui è appena abbozzato senza dargli forza, un punto debole che avrebbe accresciuto tensione e ansia, elementi di cui questo film soffre in dosi massicce in più parti.




venerdì 12 ottobre 2018

Ulysses-A dark odyssey


Titolo: Ulysses-A dark odyssey
Regia: Federico Alotto
Anno: 2018
Paese: Italia
Giudizio: 3/5

Anno 2020. In una Torino alternativa e notturna, divenuta per l’occasione Taurus City, il militare Ulysses vaga alla ricerca della moglie Penelope e dei segreti nascosti nel proprio passato, ma la sorte ha in serbo per lui una lunga serie di incontri inquietanti e pericolosi.

Pro e contro del primo lungometraggio del torinese Alotto che ha dovuto vendere una casa di proprietà per finanziarsi il film.
Il cinema costa non dimentichiamolo mai.
Una premessa in cui mi sento di spezzare una lancia a favore del cinema indie low-budget.
Ancora di più quando sono giovani emergenti a chiamarsi fuori dalle istituzioni e altre realtà che non supportano gli sconosciuti. In questo caso coraggio e determinazione contando poi che il risultato non è esageratamente fine a se stesso come i lavori di un altro pseudo artista torinese che ha girato un film quasi contemporaneo a questo, anche quello con tanti attori internazionali ormai entrati nella terza età.
Ora a me Ulysses non è piaciuto ma sono contento che sia stato realizzato immagino con traversie innumerevoli e squisite difficoltà.
Partendo dai pro con cui spesso finirò per comparare i contro, sono d'accordo che il film dalla sua non ha nessuna pretesa illustrativa cercando un suo mondo straordinario originale, il quale, volendo abbracciare tante zone di Torino riesce in alcuni punti ad essere credibile e con delle scenografie funzionali mentre in altre location risulta la solita bella Torino senza nulla che faccia pensare ad una Taurus City e fotografata poi nemmeno così bene, cadendo spesso in un trappolone che divide il film tra il professionale e l'amatoriale.
Come contro avrei preferito una narrazione e dei dialoghi più significativi e meno tagliati con l'accetta, un botta e risposta tremendamente didascalico che spesso snatura la stessa caratterizzazione dei personaggi rendendoli poco più che macchiette fuori dalle righe.
Il film ha un taglio ed una messa in scena platealmente tamarra dall'inizio alla fine, elemento che non deve essere per forza un punto debole, anzi, ma però rimane una scelta e come tale crea dei risultati, un meccanismo e delle aspettative che celebrano al contempo una certa ricerca di cinema.
E'un film pretenzioso dove il regista ha voluto fare qualcosa di macro anzichè partire con un'opera micro come spesso fanno tanti esordienti magari ambientando tutto in un'unica location.
Anche questa è una scelta coraggiosa, ambiziosa e folle che però riesce in diversi momenti ad affinare la suspance attraverso la tecnica cinematografica il che significa che più avanti se il cinema o le risorse finanziarie di Alotto lo permetteranno, il ragazzo andrà avanti e migliorerà ancora di più spero lo script e i dialoghi piuttosto che lo stile di regia che seppur con tante imperfezioni funziona.
Dal punto di vista tecnico non amo quello stile grafico troppo "acceso" (una fotografia a volte bruciata),a meno che non ci troviamo di fronte a super produzioni americane che i soldi c'è li hanno eccome, qui viene richiamato spesso un tono quasi da videogioco con un montaggio spesso frenetico o che storpia e velocizza i ricordi del protagonista dove alcune sequenze pirotecniche e parlo soprattutto dei combattimenti storpiano completamente l'intento del film rendendolo di nuovo estremamemte amatoriale ( e non mi pronunciò sulle scene da war movie).
Uli-Nessuno-Johnny Ferro, il protagonista e nessuno e centomila mi verrebbe da dire, un personaggio marmoreo che recita con gli occhi senza sfruttare la mimica, ma che riesce ad essere incisivo nel suo osservare e disperarsi su quello che gli è rimasto.
Un revenge movie in piena regola, un film confezionato per il mercato internazionale, il mix tra cinema mainstream e sguardo autoriale che non credo dispiacerà agli americani dando così la possibilità di creare le basi per un prossimo film speriamo più serio, intellettuale, che continua un
preciso percorso spettacolare e in parte, per forza di cose, anche commerciale.
Buona fortuna Alotto!

martedì 25 settembre 2018

Trench 11


Titolo: Trench 11
Regia: Leo Sherman
Anno: 2017
Paese: Canada
Giudizio: 3/5

Negli ultimi giorni della Prima Guerra Mondiale, un esperto di tunnel colpito da psicosi traumatica deve guidare una squadra alleata in una base tedesca nascosta … 100 metri sotto le trincee. I tedeschi hanno perso il controllo di un’arma biologica altamente contagiosa che trasforma le vittime in feroci assassini. Gli Alleati si ritrovano intrappolati sotterranei con orde di infetti, un’epidemia che si sta rapidamente diffondendo e una squadra di Assalitori tedeschi spediti lì per ripulire il disordine.

L'orrore della guerra ha ispirato nel corso degli anni diversi registi.
La metafora dell'orrore che si cela dentro bunker o a causa di esperimenti quasi sempre da parte dell'esercito tedesco è una peculiarità di questo sotto genere dell'horror.
Come nel film di Basset, Deathwatch, stessa epoca e stesse forze alleate, ma anche di Rob Green, Bunker(2001), Sherman cerca di fare qualcosa dove l'horror a differenza dei demoni interiori o delle suggestioni, diventa l'araldo su cui creare l'ennesima soluzione finale.
Il risultato è un esperimento terrificante e anche piuttosto originale quando penso all'orda dei soldati usati come una sorta di non-morti o infetti ma con connotati diversi grazie ad un'idea come dicevo piuttosto innovativa che strizza l'occhio a Cronemberg ma soprattutto al body horror con alcune scene splatter decisamente gustose e un'autopsia estemporanea visceralmente stimolante.
Un film che dopo una decina di minuti e giusto il tempo per elaborare il piano e trovare il gruppo di soldati ci catapulta verso un'intensità claustrofobica dove anche noi diventiamo bestie sotterranee. Un film che mischia tanti elementi, che ha visto molto cinema citando diverse pellicole e andandosi a piazzare tra le opere più interessanti degli ultimi anni sul tema war movie-horror-body horror-nazisti. Un film che a differenza di altri usciti negli ultimi anni che seguono più il filone d'intrattenimento, si prende maledettamente sul serio nella ricostruzione storica, nella scenografia e nel make-up, e le creature sembrano uscire proprio da uno di quei parti malati alla Cronemberg o compagnia simile.







giovedì 30 agosto 2018

Short Peace


Titolo: Short Peace
Regia: AA,VV
Anno: 2013
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Quattro storie, quattro epoche, quattro registi, ma un unico demiurgo, Katsuhiro Otomo. Nato da un progetto dell'autore di Akira, questo film in 4 episodi vede il ritorno alle produzioni animate sperimentali degli Omnibus anni Ottanta e coinvolge, oltre al famoso Katsuhiro Otomo, nuovi talenti dell'animazione giapponese

Davvero interessante questo film a episodi animati diretti da alcuni artisti tra i più pretigiosi in Giappone. Si parte da Possessions, diretto da Shuhei Morita, il più spirituale connotato da uno stile molto elegante e in grado di insegnare la pace tra l'uomo e le cose ricordando vagamente la formula di FERRO 3 con questo viandante smarrito che si mette a ripapare gli oggetti.
Una storia semplice ma profonda diretta splendidamente da Morita, che ha utilizzato contrasti cromatici meravigliosi
Combustion, firmato Katsuhiro Otomo, autore del soggetto di due dei quattro cortometraggi, racconta invece una storia d’amore impossibile ai tempi del Giappone del periodo Edo, e del suicidio di una ragazza che sceglie di morire arsa viva per vedere per l’ultima volta il proprio amato, fuggito di casa per fare il pompiere, fondendo come stile disegni a mano e computer grafica.
Gambo di Hiroaki Ando, narra della lotta tra un misterioso orso bianco e un demone piovuto dal cielo e intento a rapire le giovani fanciulle per ingravidarle e dare luogo a una progenie di demoni. Gambo è in assoluto il più violento ed estremo di tutti e quattro criticato per l'efferatezza delle immagini quando invece riesce a dare grande prova di stile, ritmo e messa in scena.
L'ultimo è A Farewell to Weapons, diretto da Hajime Katoki, basato sull’omonimo manga di Otomo, ambientato in un futuro devastato dalla guerra, dove un manipolo di uomini sta cercando di bonificare i resti della città di Tokyo dalla presenza di alcuni mech da guerra e di testate nucleari inesplose trattando come sotto genere il futuro post-apocalittico

lunedì 19 marzo 2018

Sole Alto


Titolo: Sole Alto
Regia: Dalibor Matanic
Anno: 2015
Paese: Croazia, Serbia, Slovenia
Giudizio: 4/5

Sole alto racconta l’amore fra un giovane croato e una giovane serba. Un amore che Matanić moltiplica per tre volte nell’arco di tre decenni consecutivi: stessi attori ma coppie diverse. I paesaggi sono utilizzati come orizzonti emotivi, prima ancora che geografici, e gli stessi attori come simbolo di ciclicità. I due ragazzi, invece, no: i due ragazzi non possono essere gli stessi, perché i loro vent’anni sono cristallizzati dentro una giovinezza, innocente e fragile, che ci parla (anzi: che ci deve parlare) di ieri, di oggi e, soprattutto, di domani.

Sole Alto è un film con una co produzione importante per cercare di portare a segno frammenti di storie di una guerra che finalmente vuole mostrare alcuni squarci anche grazie al cinema.
Chi vuole farsi una rapida idea di quanto e del perchè si odino così tanto serbi e croati potrà avere qualche risposta dopo la visione di questo film a tre episodi, tutti con diversi annessi e con gli stessi protagonisti in ruoli diversi.
Amore e guerra in tre atti, sotto il Sole alto dei Balcani.
Lo stesso regista croato ha raccontato l’aneddoto che ha ispirato il film, al tempo stesso curioso e sintomatico di quanto l’odio sia sempre radicato in terra ex-jugoslava: "Qualsiasi storia sentimentale o flirt avessi, mia nonna ripeteva sempre la stessa frase: purché non sia una di quelli"
Matanic è bravo a mostrare i sentimenti a differenza dell'azione che quasi non appare mai nel film come lo dimostra il climax della prima storia con quel colpo di pistola che vale per tutto il film.
La collaborazione tra questi paesi almeno per portare alla luce questo film è già un segnale che forse non si vuole più nascondere una parte di storia tormentata e di orrori indicibili.
Il film diventa ancora più interessante mostrando itinerari e periodi diversi ma tutti in un qualche modo collegati dal filo visibilissimo dell'odio profondo verso "gli altri" senza quasi mai dare spiegazioni o arrivare al perchè e soprattutto da dove e perchè è nato quest'odio diventando l'unica ragione di vita di queste popolazioni.
1991-2001-2011. Tre grandi storie tutte nei medesimi villaggi che sembrano fare un escursus veloce ma a tratti così pesante da dare un piccolo quadro su un conflitto che ha generato mostri e creato paure e traumi che solo da poco si cerca di analizzare e portare alla luce.
Matanic ci ha provato riuscendo a fare un film di guerra importante che si dirama per portare alla luce storie drammi e amore.

mercoledì 15 novembre 2017

War-Il pianeta delle scimmie

Titolo: War-Il pianeta delle scimmie
Regia: Matt Reeves
Anno: 2017
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Nonostante la morte di Koba, la guerra scatenata da questi tra le scimmie e gli umani procede senza sosta. I soldati americani, guidati dal Colonnello, vogliono catturare Cesare, geniale condottiero dei primati super-intelligenti, e ristabilire il primato della razza umana.

E'strano pensare che anche per questa tematica fantascientifica si sia per forza voluta fare una trilogia. Incassi? Sicuramente sì.
Il terzo e ultimo capitolo sulla saga del pianeta delle scimmie è quasi un antologia, il viaggio dell'eroe sul suolo americano xenofobo e reazionario (la parabola con l'ascesa di Trump è abbastanza evidente sull'antagonista principale, il perchè invece il nemico c'è l'abbia tanto con le scimmie non mi va di spoilerarlo ma ascoltatevi quel dialogo che è forse una delle cose migliori del film in termini di scrittura).
C'è tanta carne al fuoco, un war movie con azione a gogò, avventura, suspance, dramma e tanta violenza da una parte all'altra e i toni più cupi che abbiamo visto tra i tre capitoli della saga. Scimmie traditrici che disprezzano la loro stessa natura per entrare a far parte dell'esercito nemico, soldati nonchè marines che a furia di vedere torture ai danni delle scimmie vengono mossi da compassione e giù di ribaltamenti da una parte all'altra.
In tutto questo domina Cesare, la scimmia più evoluta, l'essere senziente che riesce a mettere in difficoltà con le sue idee, e grazie alla sua leadership riesce ad essere il leader carismatico forse non solo delle scimmie...
Il film soprattutto nella prima parte è tutto così. Un attacco da una parte e una risposta dall'altra.


domenica 15 ottobre 2017

Starship Troopers-Attacco su Marte


Titolo: Starship Troopers: Attacco su Marte
Regia: Shinji Aramaki
Anno: 2017
Paese: Giappone
Giudizio: 2/5

Dopo gli eventi di Invasion, Johnny Rico è stato degradato a colonnello e trasferito in un satellite marziano per addestrare un nuovo gruppo di soldati. Tuttavia, questi trooper sono i peggiori che Rico abbia mai addestrato, non mostrando alcuno spirito bellico dato che Marte non è ancora stato coinvolto nella guerra contro gli insetti e anzi spinge per la pacificazione. A causa del loro atteggiamento rilassato, gli abitanti di Marte vengono quindi colti di sorpresa dall'attacco degli insetti. Intanto, in gran segreto, Sky Marshall Amy Snapp manda avanti i suoi piani per prendere il potere

L'animazione giapponese viaggia e non si ferma. Spesso poi videogiochi o fumetti riescono ad avere più libero accesso nei contesti irreali dove animatori appassionati possono dar luce al massimo degli effetti speciali spendendo meno che per un lungometraggio.
Starship Troopers è stato senza dubbio un classico. I motivi sono i più disparati. Per prima cosa Verhoeven. Come secondo elemento direi la fantasia, il genio e la creatività sempre di Verhoeven. Infine l'aver dato vita ad un piccolo cult di sci fi, con abbondanti dosi horror e splatter, combattimenti a non finire, mostri cattivi e protagonisti idioti che non vedi l'ora di veder ammazzati.
Questo sequel d'animazione dopo INVASION manco a farlo apposta dimentica del tutto l'ironia grottesca del film del 1997 per buttarsi in cielo e dar vita ad un film che si prende molto sul serio con un'atmosfera apocalittica e mostri ancora più incazzati. Anche i protagonisti sono gli stessi doppiati addirittura dagli stessi personaggi dell'originale.
Il risultato è un film potente che deflagra nel finale con un attacco inaspettato da parte della popolazione che non sembra convinta del pericolo e un Rico devastato nel corpo e nell'anima dalla lotta con questi esseri. La sua diventa una vera e propria missione nel dare la caccia a questi insetti per tutta la vita e non è detto che non ne vedremo di altri sequel.

mercoledì 11 ottobre 2017

Inganno

Titolo: Inganno
Regia: Sofia Coppola
Anno: 2017
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

In piena Guerra di Secessione, nel profondo Sud, le donne di diverse età che sono rimaste in un internato per ragazze di buona famiglia danno ricovero ad un soldato ferito. Dopo averlo curato e rifocillato costui resta confinato nella sua camera attraendo però, in vario modo e misura, l'attenzione di tutte. La tensione aumenterà mutando profondamente i rapporti tra loro e l'ospite

Inganno è l'ultimo film della Coppola. Per molti aspetti continua un certo discorso iniziato con IL GIARDINO DELLE VERGINI SUICIDE. Tante donne di diversa età e un solo uomo, ferito, per un soggetto che si rifà ad un film già visto con Eastwood nei panni di Farrel..
Un bel film ottimamente recitato con pochi colpi di scena, purtroppo abbastanza prevedibili, e un'atmosfera che non sempre riesce ad essere graffiante pur avendo dietro una fotografia eccelsa.
E così l'ultimo film della Coppola che ha vinto come miglior regia a Cannes è un film ben confezionato ma privo di quella psicologia che almeno nei personaggi del suo esordio trovava più spessore. Qui si poteva ottenere molto di più ad esempio giocando maggiormente sulle pulsioni delle ragazze che la società del tempo non può loro riconoscere.Alla fine diventa di nuovo l'analisi delle reazioni in un microcosmo femminile con alcuni spunti interessanti nonchè scene, tanti sguardi che lasciano intendere e volere molte cose e una cornice horror da cui noi assistiamo alla scena e una regia che si muove senza indugi architettando l'aspetto più interessante del film ovvero la geometria degli spazi, con una chiusura verso l'esterno, il cancello a simboleggiare l'oggetto netto della separazione, e infine il bosco che apre un mondo sotterraneo dove mentre raccogli i funghi puoi trovare un soldato ferito e portartelo a casa.




giovedì 15 giugno 2017

Age of Conseguences

Titolo: Age of Conseguences
Regia: Jared P.Scott
Anno: 2016
Paese: Usa
Festival: Cinemambiente 20°
Giudizio: 2/5

ll documentario esplora come il cambiamento climatico sia diventato inesorabilmente legato alla nostra sicurezza nazionale, e di come il rapporto tra sconvolgimento del clima e conflitti formeranno uno strumento che potrà plasmare il mondo sociale, politico ed economico del secolo nel quale viviamo. I documenti e le testimonianze riportate si traducono in un invito all'azione e a ripensare il modo in cui utilizziamo e produciamo energia. Con un concetto di fondo fondamentale: qualsiasi strategia di difesa militare utilizzeremo, è il tempo la risorsa più preziosa.

Jared P.Scott ha un solo merito finora. Al di là del suo innegabile patrimonio economico, tale da poter raggiungere vette inaspettate e devo dire esageratamente spettacolari (la fotografia a tratti sembra un film di Malick) e quello di aver girato qualche anno fa il bel documentario REQUIEM FOR THE AMERICAND DREAM, ovvero l'ultima lezione di Noam Chomsky ossia un pacato invito alla rivolta che dovrebbe essere trasmesso come una nenia ogni sera dopo il telegiornale per dare modo e tempo ai comuni mortali di comprendere le ragioni che stanno portando questa società al collasso.
Age of Conseguences crea un collante facendo collegamenti di ogni tipo e ogni sorta muovendosi praticamente in tutto il mondo. Questo nuovo modo di analizzare i contenuti all'interno dei documentari nel festival di Cinemambiente, diventa importante quanto rischia secondo me di allargare troppo il problema e fare in modo che il tema non concentrandosi su una singola situazione e quindi argomentandola a dovere, diventa difficile da comprendere a pieno soprattutto quando come in questo caso si passa dal Medio Oriente all'Africa e in altre aree trattando tempi, aree geografiche ed eventi storici senza finalizzarne in modo preciso nessuno ma diventando una sintesi che rischia di perdersi nella sua continua fagocitazione di complessità sulle connessioni fra cambiamento climatico e conflitti, migrazioni e terrorismo.
Sono d'accordo che l’emergenza climatica è di sicuro l’elemento catalizzatore e acceleratore di un effetto a cascata che unisce punti da un capo all’altro del globo: dalla desertificazione di vasti territori in Nord Africa e Medio Oriente ai fenomeni di siccità e carestia ma non sono d'accordo o meglio non ho gradito la critica all'Isis in Medio Oriente e sul fatto che per creare panico e instabilità prosciughino e occupino tutte le aree dove ci sia dell'acqua per mettere in ginocchio la popolazione. Detta così sembra una presa di posizione più politica che di allarme legato all'ambiente. A questo proposito Scott, credo non abbia fatto quel passo in più dicendo come si è arrivati a questo e senza citare mai, o quasi, la responsabilità dell'America e dei alcuni paesi europei (Inghilterra, Francia in primis e i risultati si stanno vedendo...) di aver creato le basi per il terrorismo mondiale in Darfur, in Somalia, in Siria e in tantissime altre aree legate alla geografia di quei paesi. A dirlo non sono, questa volta, le associazioni ambientaliste, ma i generali del Pentagono, gli esperti di sicurezza internazionale, gli analisti politici ed economici che frequentano le stanze del potere.
Il film è stato anticipato dal punto di Luca Mercalli, ormai una pietra miliare e un abituè del festival, un ometto divertente ed elegante che in un attimo riesce a portare il termometro sulla realtà globale che ci circonda inondando il pubblico in un'ora di slide, fiumi di parole e video inquietanti che danno un quadro apocalittico sul nostro pianeta.



lunedì 6 marzo 2017

Frantz

Titolo: Frantz
Regia: Francois Ozon
Anno: 2016
Paese: Francia
Giudizio: 4/5

Germania 1919. Una giovane donna si raccoglie ogni giorno sulla tomba del fidanzato caduto al fronte. La sua routine è rotta dall'incontro con Adrien, soldato francese sopravvissuto all'orrore delle trincee. La presenza silenziosa e commossa del ragazzo colpisce Anna che lo accoglie e solleva di nuovo il suo sguardo sul mondo. Adrien si rivela vecchio amico di Frantz, conosciuto a Parigi e frequentato tra musei e Café. Entrato in seno alla famiglia dell'uomo, diventa proiezione e conforto per i suoi genitori che assecondano la simpatia di Anna per Adrien. Ma il mondo fuori non ha guarito le ferite e si oppone a quel sentimento insorgente. Adrien, schiacciato dal rancore collettivo e da un rimorso che cova nel profondo, si confessa con Anna e rientra in Francia. Spetta a lei decidere cosa fare di quella rivelazione.

Che bell'affresco romantico, triste e allo stesso tempo raffinato l'ultimo film di Ozon.
Un viaggio alla riscoperta di sensazioni e tragedie ispirato da una pièce del dopoguerra di Maurice Rostand. Nel suo ultimo film l'autore francese si confronta con la menzogna in una storia d'epoca stilisticamente perfetta e recitata da un ottimo cast che riesce a fare la differenza.
Il noto regista francese sembra prediligere proprio questo tema della menzogna sviscerandolo all'interno del film e allo stesso tempo mostrando la durezza ma soprattutto l'enorme fragilità della coppia di protagonisti e della famiglia che ospita Anna.
Frantz sembra un quadro, un omaggio a tanti pittori d'epoca e agli anni trascorsi subito dopo la prima mondiale (ricorda il centenario) in una Germania testarda e molto orgogliosa che ancora doveva fare i conti con quanto sarebbe successo più avanti e che la dice lunga in un dialogo tra professori all'interno di un locale davanti ad una birra. In pochi minuti il dialogo coglie tutti gli aspetti e le problematiche di un paese e il suo duro rapporto con i forestieri.
La trama riesce a rapire subito lo spettatore sconvolgendo la psiche con una rapidità incredibile portando a riflessioni, pensieri, in fondo a tutto quello che il buon cinema con pochi elementi ma con astuzia riesce a portare a compimento per creare pathos e atmosfera.
Dal punto di vista tecnico il b/n fotografa e sonda tutti quei micro elementi che lo spettatore capta durante la visione in modo elegante e delicato e il racconto vuole essere un'esamina su quanto difficile sia trasformare la condivisione della perdita in un sentimento positivo, senza contare i dialoghi e le battute tra Adrien e Anna in alcuni momenti riescono ad essere davvero commoventi.



domenica 26 febbraio 2017

Mine

Titolo: Mine
Regia: Guaglione e Resinaro
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Mike è un tiratore scelto dei marines che assieme a Tommy, compagno e amico di sempre, viene inviato segretamente nel deserto per uccidere un pericoloso terrorista. Durante la missione qualcosa non funziona e i due soldati, si perdono in una tempesta di sabbia e restano isolati dal comando. Alla ricerca di una via di fuga, con i terroristi alle spalle, finiscono in un campo minato e Mike calpesta accidentalmente una mina mentre il compagno viene dilaniato. Bloccato nel mezzo del deserto, in campo nemico e senza rifornimenti, dovrà cercare di sopravvivere.

"Ogni venti minuti qualcuno nel mondo mette un piede su una mina"
Un film americano girato da due italiani in Spagna. Questa è la conditio sine qua non degli ultimi anni quando non si fa parte di un certo giro all'interno delle grosse produzioni americane.
I due registi si sono conosciuti fin da giovani e insieme, come è giusto che sia, senza avere un curriculum di chissà quale tipo, hanno cominciato a sviluppare progetti in comune che li hanno portati in America a fare quello che vogliono fare. Film.
Mine prima di tutto ha dalla sua una star ormai affermata anche se in pochi lo conoscono, Armie Hammer (un nome una garanzia contando che manco a farlo apposta sembra un marine) visto di recente in FREE FIRE, OPERAZIONE UNCLE, e altri film con parti minori in cui riesce ad essere convincente e a tenere sulle spalle tutto il peso e l'ansia del film.
Finalmente Hammer ha un ruolo da protagonista tosto che lo fa stare perennemente attaccato alla telecamera in un'unica affascinante location.
L'impianto è poi quello sfruttato parecchio negli ultimi anni nel cinema puntando su pochi attori, un incidente scatenante che intrappola il protagonista per tutto il film e la location.
127 ORE, OPEN WATER, hanno in fondo tutti lo stesso punto di partenza, in cui la metafora è associata ad un elemento di disturbo come in questo caso la mina.
I registi riescono a confezionare un prodotto che nelle sue diverse forme riesce a condensare tanti aspetti, mischiando i generi, facendo un background delle più variegate influenze e non farlo apparire come un banale war-movie, ma puntando anche qui sulla psicologia, la paura e le paranoie e infine le allucinazioni del suo protagonista. Mike è ossessionato, alternando visioni, problemi, conflitti, amori e infine dover accettare l'altro culturale e chiedere quella cosa che sembra farci sempre più paura: aiuto.
Per coincidenze analoghe anche se MINE è uscito nel 2015 è arrivato nei cinema assieme ad un film francese con diversi punti in comune, PIEGE'. La coppia di registi che vedremo ancora è riuscita ad usare con naturalezza la struttura del genere raccontando una storia con un sotto testo non banale. Vista la giovane età e la voglia che hanno di creare un prodotto che sia funzionale per la tipologia action e unisca al contempo il dramma psicologico è più che un ottimo punto di partenza.


venerdì 18 novembre 2016

Under the Shadow


Titolo: Under the Shadow
Regia: Babak Anvari
Anno: 2016
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Teheran 1988. Shideh vive in mezzo al caos della guerra Iran-Iraq. Accusata di sovversione e registrata nella lista nera dal collegio medico, si ritrova in uno stato di malessere e confusione. Mentre il marito è in guerra un missile colpisce il loro condominio e da quel momento una forza soprannaturale cercherà di possedere Dorsa, la loro giovane figlia.

Under the Shadow è una piacevole sorpresa che arriva dall'Iran passando per la Gran Bretagna.
E'un altro di quegli horror intelligenti, che sposa leggende, folklore popolare e miti narrando del Djin e del loro potere, l'esoterismo che prende piede in una città afflitta dalla guerra dove tutti scappano e solo coloro che non credono, accettano di rimanere per sopravvivere.
L'esordio di Anvari però non si limita solo ad essere una fiaba moderna con una nuova demonologia (anche perchè i Djin non sono proprio nuovi nel cinema), ma è stratificato e ben più complesso parlando di legami familiari che sfociano in allucinazioni e paranoie, difficoltà madre/figlia, una società misogina che si rispecchia nel lavoro come nella vita pubblica (quando lei esce di casa terrorizzata con Dorsa senza velo e viene fermata dai poliziotti che vorrebbero frustarla) e infine il male come manifestazione della guerra (in questo caso il missile che diventa il tramite).
Dicevo c'è tanto è il film si delinea all'inizio come un dramma solo familiare (bisogna aspettare quasi un'ora per vedere il primo Djin ad esempio) e in tutto questo arco di tempo il regista caratterizza benissimo i suoi personaggi, destruttura l'ambiente e crea la suspance proprio facendo avvicinare Shideh e Dorsa all'orrore vero. Un film per alcuni aspetti claustrofobico che mi ha ricordato Citadel e Babadook.
Il film si apre con una scritta che ci ricorda i numeri della guerra Iran-Iraq combattuta tra il 1980 e il 1988. Proprio l'orrore della guerra e la scelta da parte del demone di entrare dalle crepe che si formano dopo i bombardamenti diventano gli spiragli che non riescono ad essere coperti e cancellati soprattutto con lo scotch, ma che metaforicamente sono ferite destinate a rimanere per sempre.

giovedì 4 agosto 2016

Albero di Guernica

Titolo: Albero di Guernica
Regia: Fernando Arrabal
Anno: 1975
Paese: Francia
Giudizio: 3/5

E'la storia di un nobile e di una contadina che si incontrano sotto un bombardamento durante la guerra civile spagnola. I due abbracciano la causa dei repubblicani e riescono a salvarsi dopo che gli assediati hanno messo a ferro e fuoco Guernica.

Un Arrabal schierato tra il politico e il bellico che nonostante i rimandi storici non risparmia il suo cinema surreale e costipato di simbolismi e di una certa visione di cinema che rimanda a Jodorowsky, il movimento panico e tutta una galleria di personaggi e immagini incredibili.
Forse proprio questa contaminazione appare in alcune parti un po forzata e fuori luogo, infarcendo intenti politici e visioni surrealiste ma preferendo comunque la fantasia e la sregolatezza alla misura della rievocazione documentaria.
Con una straordinaria Melato, il regista spagnolo cita comunque alcune sue esperienze per quanto concerne il regime franchista vissuto sulla propria pelle, mettendo in scena un’apologia in chiave surrealista e visionaria dell’ideologia marxista, apertamente schierato con la fazione repubblicana.

Il film più storico e politico di un regista che in soli tre film è riuscito a costruirsi comunque una propria identità cinematografica oltre a tutte le diverse esperienze e identità artistiche.

martedì 12 aprile 2016

Cartel Land

Titolo: Cartel Land
Regia: Matthew Heineman
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Il documentario riflette sulle conseguenze della lotta tra trafficanti e forze di polizia sul confine tra Messico e Stati Uniti. I cartelli della droga messicani rischiano di diventare ancora più violenti per rispondere ad un ordine di giustizia che è sempre più rigido: il film indaga su quanto sia difficile frenare la diffusione della violenza in questa lingua di terra.

Cartel Land è sicuramente uno dei documentari dell'anno.
L'idea nasce quando il regista nota un articolo riguardante José Manuel Mireles e la sua organizzazione anti crimine organizzato "Autodefensas" nata abusivamente per estirpare la mafia messicana e successivamente legalizzata e rinominata con l'appellativo "Polizia rurale".
Un'organizzazione che sembra dirla lunga sul silenzio dello Stato e la rinuncia della politica e delle istituzioni al problema dei cartelli.
Heineman in questo caso offre una visione globale che comprende il lavoro svolto dai "vigilanti" locati al confine tra Messico e Stati Uniti al fine di monitorare ed eventualmente stroncare le attività illecite messicane.
Nell'immaginario collettivo i vigilantes sono dipinti come "razzisti col turbante" armati fino al collo, ma il montaggio delle varie riprese prevede l'incontro di due differenti punti di vista corrispondenti ai due lati del confine: il movimento di resistenza fondato da Mireles da un lato e la strategia di difesa americana dall'altro.
Quando poi leggi che tra le produttrici c'è la coraggiosa e intrinsecamente politica Kathryn Bigelow allora sai che questo importante documentario, sul confine tra Messico e Usa, difficilmente darà risposte sommarie, cercando di indagare su tutte le contraddizioni possibili.
Il risultato che ne esce è un quadro di ribellione, di presa di coscienza, di giustizia solitaria e proletaria, quello delle vittime e della popolazione che reagiscono ai narcos, che combattono il Cartello da una parte e dall’altra del confine.
A dare loro un volto sono due leader di entrambi i lati: Mireles “El Doctor”, a capo delle autodefensas, ovvero i gruppi armati di cittadini messicani che si difendono dal Cartello, e Tim “Nailer”, leader dell’organizzazione para-militare Arizona Border Recon che tenta di impedire il narco-traffico attraverso il confine.
Heineman segue il Dr. Mireles, nella sua lotta armata quotidiana, nell’inferno perenne di violenza efferata, atroce, inaudita con cui i narcos mantengono il potere.
Ultimamente i riflettori del cinema, da qualche anno a questa parte, sembrano tornare molto su questa lotta impari che è degenerata troppo velocemente nel corso degli ultimi anni.
SICARIO, NON E'UN PAESE PER VECCHI e altri esperimenti falliti come BORDERTOWN e VIAGGIO IN PARADISO spingono il cinema a interrogarsi o a parlare di questo problema.
Cartel Land è un documentario temerario dal forte impatto, sia per il tema, dalla rilevante portata sociologica, sia nel suo essere tramite di due voci diverse accomunate dallo stesso male.
Una delle frasi che meglio definisce il quadro e fa da termometro della situazione è proprio la frase di uno dei narcotrafficanti all'inizio del film rivolto alla telecamera del regista

“Sappiamo di fare del male, mandando su tutta questa droga. Ma te lo ripeto, non abbiamo risorse, siamo poveri. Se stessimo bene, saremmo come voi. Gireremmo il mondo e faremmo lavori belli e puliti come voi.”  

mercoledì 18 novembre 2015

Monsters-Dark Continent

Titolo: Monsters-Dark Continent
Regia: Tom Green
Anno: 2014
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Sono passati sette anni dopo gli eventi di Monsters, e le 'zone infette' si sono diffuse in tutto il mondo. Gli esseri umani sono stati buttati giù dalla cima della catena alimentare, con comunità disparate che lottano per la sopravvivenza. I soldati americani sono stati inviati all'estero per proteggere gli interessi degli Stati Uniti dai mostri, ma la guerra è lontana dall'essere vinta.

La guerra è sempre stata e sarà sempre il più grande mostro e male dell'umanità.
A distanza di quattro anni dall'esordio di Gareth Edwards MONSTERS, Green alla sua opera prima, firma un sequel interessante e originale, un war-movie solido e spietato, con un analisi e una critica all'occupazione dei territori medio orientali che più attuale di così non poteva essere.
Girato in Giordania e allargato su alcune aree di confine non meglio precisate, Dark Continent mostra dei mostri che di fatto non attaccano mai l'uomo, ma avanzano inesorabili verso una terra promessa senza nome.
Allo stesso tempo come in una delle scene iniziali che segna profondamente la psiche dello spettatore, l'incontro tra un cane e una delle piccole creature, diventa l'esempio perfetto della spettacolarità e l'uso gratuito della violenza che non conosce confine e chiama in ballo mostri di ogni tipo.
I mostri sono reali ma soprattutto delle comparse, in una guerra incessante che richiama e segue un manipolo di soldati esagitati che vogliono solo avere successo e disintegrare la zona rossa per obbedire alle regole ferree del loro paese, un'America sempre più lacerata dai sensi di colpa che proprio grazie all'uso di una copiosa violenza gratuita e psicologica, cerca di cancellare i ricordi senza riuscirci.
E'un film lungo, a volte lento da seguire, in alcune scene non sembra succedere nulla, però Green deraglia continuamente, alternando un ritmo minimale ad uno più action e solo in alcuni momenti con delle punte e dei momenti quasi poetici come la scena in cui il bambino tira fuori dalla scatoletta una creatura appena nata e la lascia prendere il volo prima che questa a sua volta si disperda in un effetto che sembra ricordare le meduse.
Il film di Green non è sicuramente perfetto, anche se non bisogna dimenticare che rimane comunque un esordio, ha molti elementi discutibili, ma crea una metafora originale e interessante senza essere mai banale e ridando spessore e forza ai mostri in tutta la loro gigantesca potenza.


giovedì 12 novembre 2015

Beasts of no Nation

Titolo: Beasts of no Nation
Regia: Cary Fukunaga
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Da ultimo di una famiglia coesa, Agu passa ad essere solo nel giro di 10 minuti. Quando la guerra civile della sua nazione arriva al suo villaggio, sua madre riesce a mettersi in viaggio ma suo padre e suo fratello vengono massacrati, lui, in fuga non ha nulla nè sa dove andare fino a che non incontra un plotone. La milizia al soldo di uno dei molti partiti politici che lottano per il potere lo arruola tra le file dei suoi bambini soldato, lo arma e lo sfama, lo educa alla violenza, lo droga e lo condiziona. A capo di tutto c'è il carismatico Commandant, assieme ad Agu amici, coetanei e più adulti, un branco di esseri umani solitari che più diventano soldati più perdono contatto con la realtà.

Fukunaga non ha bisogno di presentazioni. Il suo ultimo film, prodotto da Netflix, sarà distribuito contemporaneamente online e in sala il 16 ottobre, ed è un film completamente diverso dai lavori girati precedentemente.
Un 'epopea violenta, reale, cruda e straziante di una realtà che ci preoccupa sempre meno e su cui i mezzi d'informazione parlano poco.
Un viaggio dell'eroe, un cammino di formazione, una speranza di sopravvivenza ancorata ad una scelta drastica che cancella ogni rimasuglio di fanciullezza e normalità.
Agu è il bambino soldato che accetta e prende parte a qualcosa a cui sa di non potersi sottrarre.
In pochissimi minuti viene raccontato tutto di lui, dalla gioia con cui inscena programmi televisivi con gli amici e si prodiga in divertenti balletti, fino a vedere andare in fumo tutto e morire chi gli sta attorno dalla famiglia ai componenti del villaggio.
E come lui anche Commandant e gli altri sembrano sottolineare le inclinazioni peggiori dell'uomo in un continente disgraziato, dove a farne le spese sono tutti, ma più di tutti i bambini.
L'insensatezza della guerra è filmata in modo lucido, senza speranza, perfetto stilisticamente e glaciale nel suo splendore. Il regista anche direttore della fotografia, non fa mancare nulla a questo dramma. Ci sono tutte le tappe e tutti i momenti salienti importanti per comprendere quello che senza mezze misure è l'orrore della guerra dilaniato e rafforzato da dei colori belli carichi che ampliano ancora di più le location tra villaggi dilaniati dalla guerra e foreste verdi incontaminate.
Una menzione va fatta contando che la Nigeria, le guerre civili africane, non sono mai stati un argomento molto trattato dalla cinematografia.
Con spirito autoriale e mezzi commerciali, Fukunaga firma un film di altissimo livello per quanto concerne la messa in scena e il plot narrativo, trovando delle comparse e degli attori, a parte il conosciutissimo Idris Elba ovviamente, in grado di restituire autenticità e realisticità ai personaggi.
Un'opera che ha pochi momenti di violenza, ma proprio perchè pochi, riescono e danno un messaggio di ferocia senza eguali in particolare quando la violenza è esercitata da bambini verso altri bambini.





domenica 19 aprile 2015

'71

Titolo: ‘71
Regia: Yann Demange
Anno: 2014
Paese: Gran Bretagna
Festival: TFF
Giudizio: 3/5

Inghilterra 1971. La recluta Gary Hook viene inviato in Irlanda del Nord. La situazione sarebbe apparentemente semplice (i Protestanti 'amici' da una parte e i Cattolici 'nemici' dall'altra) se non fosse che all'interno dell'Ira ci sono due fazioni in lotta tra loro. L'accoglienza non è ovviamente delle migliori ma le cose si aggravano per il soldato quando scopre casualmente che alcuni ufficiali dell'esercito sono coinvolti nella fabbricazione di ordigni per gli attentati.

Il film di Demange, in concorso a vari festival tra cui il 32°Tff, ha almeno due pregi che devono essere presi in considerazione. 
Il primo è la sceneggiatura, volutamente contorta e convulsa (anche quando in fondo non fa altro che dire che i corrotti sono ovunque e in questo caso nell’esercito) ma è il modo in cui Gregory Burke intreccia le vicende a tenere alta la suspance del film. 
In secondo luogo lo stile tecnico e le caratterizzazioni dei personaggi, nonché una geografia di luoghi labirintica e devastante.
Il primo scontro con la popolazione cattolica merita una standing ovation per il semplice fatto che risulta disarmante e mostra quanto la disperazione e l’odio nei confronti delle forze dell’ordine diventi, come in questo caso, una missione sociale di tutti perfino donne e bambini. 
Demange come in altri momenti topici del film, decide di descriverli e narrarli alternando l’instabilità della camera a mano con un’attenzione ai dettagli e ai piccoli movimenti di macchina, tanto che questa prima parte, mantiene una tensione estrema e brutale.

L’unico problema è quando intraprende nella seconda parte una strada che lo accosta molto ad un’action-spy, diventando ripetitivo e non riuscendo a restituire il senso di minaccia e di claustrofobia come nel primo atto. 
Ottimo il cast tra cui il beniamino british O’Connelly, nemmeno troppo ispirato e l’ottimo Sean Harris sempre nella parte del cattivo vista la sua fisionomia.

venerdì 9 gennaio 2015

Fury

Titolo: Fury
Regia: David Ayer
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Ambientato durante la fine della seconda guerra mondiale, il film narra di un sergente dell'esercito americano, da tutti chiamato Wardaddy, che guida un'unità di cinque soldati in una missione finale dietro le linee nemiche nell'aprile 1945, con la Germania nazista appena collassata. L'unità militare è composta, tra gli altri, da Norman Ellison, un tipografo dell'esercito e il membro del gruppo più giovane e con meno esperienza, che vorrebbe diventare un cecchino, soprattutto per le influenze di Grady Travis, uomo di mondo e vizioso originario dell'Arkansas, da sempre dedito alla guida di carri armati.

Ayer aveva messo la firma su due polizieschi davvero interessanti e diretti molto bene END OF WATCH e HARSH TIMES.
Fury è un film ambizioso con un nutrito cast e una scenografia eccellente condita da una fotografia in grigio che risalta ogni singola macchia di fango della pellicola.
Ora il film di Ayer ha tre elementi che purtroppo non si discostano da un tipico war-movie sulla seconda mondiale.
In primis la trama non molto curata, il viaggio di redenzione e la formazione classica del nuovo arrivato grazie al leader paterno che con la frase “Gli ideali sono pacifici; la storia è violenta” da una mezza profondità al personaggio interpretato da Pitt, il Don. Un ruolo già interpretato in cui la sua entrata in collisione con la recluta più giovane e naif, Norman Ellison a tutta l'aria di qualcosa di già visto.
Infine la retorica del carro come casa e della guerra come 'miglior lavoro mai avuto' assume una valenza che ad un certo punto sembra controproducente proprio per il plot avviluppato in un senso di giustizia tipico del mainstream americano.
Dal punto di vista tecnico, il film è estremamente ben curato e non riparmia scene cruente, con corpi brutalmente spappolati dal passaggio dei cingolati e degli arti saltati per le mine e brandelli di viso umano che decorano l'interno del carro armato "Fury" come nella scena iniziale.
In più alcuni dialoghi e la scena all'interno della casa con le due ragazze e il pasto che si consuma, diventa emblematico da un lato a sancire la disperazione durante la guerra, dall'altro a ristabilire la gerarchia di potere cercando di mettere un limite alla bestialità che accomuna i soldati durante la guerra e che vede le donne come bersaglio principale.
Infine l'aspetto che sicuramente rimane una caratteristica del regista, già analizzata nella sua precedente filmografia, è la cura degli stati d'animo dei suoi protagonisti, sprezzanti e odiosi, a cui però il pubblico riuscirà sempre a trovare un'umanità di fondo percependoli assieme alle conseguenze tremende di una barbarie che ha pochi altri eguali nella storia dell'umanità