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venerdì 27 marzo 2020

Zerozerozero


Titolo: Zerozerozero
Regia: Stefano Sollima
Anno: 2020
Paese: Italia
Stagione: 1
Episodi: 8
Giudizio: 5/5

Il traffico di droga e l'economia globale si intrecciano in tre storie del giorno d'oggi unite dal viaggio di una nave che trasporta un carico di cocaina. Sull'Aspromonte, l'anziano boss Don Minu acquista la partita di droga per rinsaldare la sua leadership, ma è tradito dal giovane e ambizioso nipote Stefano. A New Orleans, il broker dell'affare, Edward Lynwood, si ritrova nei guai quando dall'Italia non arriva il pagamento pattuito, mettendo a rischio la sua compagnia navale presso cui lavorano i figli Emma e Chris. In Messico, le forze dell'esercito cercano di fermare l'avvio della spedizione, ma al comando della squadra designata c'è il soldato 'Vampiro', anche lui al soldo del Cartello.

Sollima è il nostro Michael Mann italiano. Ormai non si può nascondere l’evidenza dei fatti. Un autore nato nel cinema e figlio del cinema che sapendo aspettare è diventato la nostra garanzia, la forza più importante nell’action nazionale e internazionale. Presentata a Venezia e ancora una volta resa così attuale e importante dalla firma di un outsider come Roberto Saviano e tutti i colleghi editor che lo hanno aiutato.
Zerozerozero è come se fosse la continuazione di un percorso intrapreso con la seconda filmografia di Sollima. Mentre la prima riguardava AcabSuburra e GOMORRA 2, la seconda più matura e definita da una politica d’autore ormai evidente nel suo modo di condurre le riprese e il ritmo ha saputo dare i suoi frutti con lo stupendo Soldado (raro caso in cui il sequel supera Sicario) e ora questa struggente serie di otto episodi che vorresti non finisse mai.
Poche storie ma con tanti intrecci e vie secondarie, scorciatoie, passaggi segreti che scelgono Italia, Messico e Usa con alcune incursioni in Africa (Marocco e Senegal)
Una messa in scena minimale, pulitissima, una scelta di cast che non poteva fare di meglio e parlo per tutte le parti coinvolte anche sugli attori secondari, che mostra la vera crudeltà e gli interessi che muovono le parti in causa e una violenza reale e mai nascosta inusitata e travolgente in grado di far abbassare la testa a tutti i precedenti lavori dell’autore e tanti film fantocci americani sul genere.
La serie spara molto in alto e in profondità, riesce ad essere sempre verosimile e reale, crea una storia che riesce a rendere interessanti e mai banali i flash forward con quel qualcosa in più nella scrittura che si faceva difficoltà a credere, incasella così tanti colpi di scena da rendere la trama un thriller, noir, giallo, dramma, poliziesco, una esamina del narcotraffico, della ndrangheta e dei nuovi imprenditori americani che vogliono inserirsi nel gioco del trasporto della droga senza sapere con cosa avranno a che fare ma imparando molto in fretta.
Emma, Manuel e Don Minu sono il triangolo della quintessenza di come vanno caratterizzati i personaggi con Emma che ha quel qualcosina in più rispetto a tutti gli altri nelle vesti di una Andrea Riseborough per cui bisogna solo godere di come riesce a dare peso e sostanza al personaggio femminile che riesce a eguagliare e superare tutti dimostrando una sofferta storia di perdite ma che riescono a farla diventare la più importante e pericolosa. Il carico, la nave e le sue mille peripezie, sono solo la traiettoria di fondo di una costosissima operazione commerciale e una lotta per il potere più che per la cocaina in sé che di fatto non vediamo mai. In questa ambiziosa operazione chi riuscirà ad uscirne vincitore e soprattutto vivo, avrà il potere assoluto. L’accordo finale tra Emma e Don Minu e poi Manuel tratteggia come le regole cambieranno perché una delle frasi che sanciscono meglio l’enorme arco narrativo è proprio che non contano le leggi (quelle sono per i deboli) ma contano solo le regole. Giochi di potere, cambi all’ultimo, personaggi sempre molto complessi e impegnativi ma mai sopra le righe che giocano sui meccanismi psicologici e umani facendo parte di un gioco gigantesco difficile da pensare che abbia portato a dei fasti e risultati di questo tipo.

lunedì 23 marzo 2020

Hail Satan


Titolo: Hail Satan
Regia: Penny Lane
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

La controversa influenza dei satanisti sulla politica USA

Essere satanisti ai nostri giorni non significa sacrificare cose, o fare atti osceni in luogo pubblico o dover per forza provocare qualcosa nell’altro culturale. Satanisti al giorno d’oggi come si interroga l’attenta Penny Lane può voler dire semplicemente aderire ad un altro culto (che non per questo va condannato).
Siamo in un’epoca in cui il dio delle guerre è la religione e ad oggi ne contiamo qualcosa come più di 4600.
Ora che male può fare un culto che si interroga partendo dalle intuizioni di Milton e il suo profetico Paradiso Perduto sulle origini del dio della materia e del re dei disobbedienti.
In breve, il Satanic Temple o la Chiesa di Satana è un’organizzazione composta da attivisti nonteisti che, pur non credendo nell’esistenza di Satana, almeno una buona parte, prendono la figura di Lucifero come simbolo di un’eterna lotta al sistema opprimente, alla tirannia, alla sovranità arbitraria religiosa che prevede la sottomissione a Dio.
I membri del Satanic Temple si descrivono come pacifisti, convinti sostenitori dei diritti umani (come quelli della comunità LGBTQ) e del pluralismo religioso, a scapito di poche religioni che controllano il mondo.
Se è pur vero che a parte mettere da parte Jex Blackmore e tutti coloro che usano manifestazioni violente per circoscrivere il loro credo, dall’altra parte il documentario traccia alcuni dati di fatto importanti per sostenere la continuità e la fidelizzazione cristiana in America come ad esempio combattere i comunisti visti come il male maggiore in tempo di guerra, oppure sempre per i cristiani alcuni esperimenti nati con il solo obbiettivo di accrescere il numero degli adepti,  come il film i Dieci Comandamenti e altre operazioni semi-reazionarie.
Si ride, non ci si prende troppo sul serio, sentiamo buona parte dei benpensanti e scopriamo tutta la galleria di fesserie prodotte e volute dai media negli anni per avere un nemico in comune: Satana e i loro seguaci.
In realtà il più grande nemico del pensiero libero e delle donne come dimostrano i fatti e sempre stato il Cristianesimo e gli altri monoteismi.
I sette fondamentali “comandamenti” su cui si basa il Satanic Temple sono:
1-One should strive to act with compassion and empathy towards all creatures in accordance with reason.
2-The struggle for justice is an ongoing and necessary pursuit that should prevail over laws and institutions.
3-One’s body is inviolable, subject to one’s own will alone.
4-The freedoms of others should be respected, including the freedom to offend. To willfully and unjustly encroach upon the freedoms of another is to forgo your own.
5-Beliefs should conform to our best scientific understanding of the world. We should take care never to distort scientific facts to fit our beliefs.
6-People are fallible. If we make a mistake, we should do our best to rectify it and resolve any harm that may have been caused.
7-Every tenet is a guiding principle designed to inspire nobility in action and thought. The spirit of compassion, wisdom, and justice should always prevail over the written or spoken word.
Alla faccia dei 10 comandamenti cristiani!

A taxi driver


Titolo: A taxi driver
Regia: Hun Jang
Anno: 2017
Paese: Corea del sud
Giudizio: 4/5

Corea del Sud, 1980. Un cronista occidentale e il tassista che lo accompagna arrivano a Gwangju: qui è in corso una rivolta contro il governo guidata dagli studenti. A spingerli è il bisogno di libertà. Un momento epocale, a cui i due guardano con occhi diversi…

Ogni paese ha i suoi scheletri nell’armadio. Quando si parla di regime, i fantasmi diventano molteplici.
Jang è solito preferire temi di guerra, complotti, trame mai scontate e portatrici di contesti storici complessi che spesso si sceglie di non far vedere. La strage o meglio la repressione di Gwangju è stata trattata nel cinema in diverse opere ma A taxi driver sceglie un percorso pieno di ostacoli e si prende il coraggio e il rischio di strutturare l’arco narrativo dividendolo in parti nette. Dramedy, comicità, tragedia, commedia, dramma puro, azione, indagine, Jang mescola tutto con spensieratezza come lo sguardo di Kim e le gag di una commedia road movie che predilige soprattutto nel primo atto le differenze culturali con simpatici dialoghi che condiscono le incomprensioni linguistiche soprattutto le “minacce” di Kim nei confronti di Jurgen. Tutti ingredienti che riescono a trovare un connubio che seppur con qualche buca qua e là non appassisce mai e non appare mai scontato preferendo seguire Kim Man-seob in tutti i suoi cambiamenti, riuscendo nel compito più difficile ovvero caratterizzare un uomo comune e trasformarlo a seconda di come cambiano gli eventi sotto i suoi occhi portandolo a fare doverose riflessioni.
In questo il giornalista tedesco Jurgen ‘Peter’ Hinzpeter appare come una sorta di Virgilio che lo conduce negli abissi dell’inferno, nelle strade dove muoiono i manifestanti e l’esercito usa tutta la violenza possibile per fare una strage senza mezzi termini. A taxi driver devia le sue coordinate da facilonerie o manierismi, evitando i sensazionalismi e cercando di rimanere più umano possibile contando che si passa veramente negli atti da un registro all’altro. Formidabili le interpretazioni e veramente azzeccate le scene dove i protagonisti vengono accolti da famiglie comuni che sanno che l’apocalisse è alle porte ma scelgono di difendere, mettendo a repentaglio la loro libertà, quel bisogno di denunciare e far luce su un episodio così carico di inusitata violenza.

domenica 8 marzo 2020

Cari fottutissimi amici

Titolo: Cari fottutissimi amici
Regia: Mario Monicelli
Anno: 1994
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Siamo nel 1943, in Toscana. Un gruppo di pugilatori improvvisati va a far baldoria nelle sagre di paese.

Quanti elementi sono presenti nel capolavoro di Monicelli (uno dei tantissimi che per fortuna il grande maestro ci ha lasciato). Un film sulla guerra che si burla della guerra ma al contempo mostra gli orrori di ciò che ha creato nelle terre e nelle campagne distruggendo ambizioni e intere città. Una commedia che per toni e dialoghi e scenette sembra omaggiare le slapstick ma i risultati alternano divertimento e risate a importanti riflessioni. Un film sulla povertà e il bisogno di sopravvivere improvvisandosi come si può.
E poi ci troviamo ancora una volta con un ottimo Paolo Villaggio a fare da timoniere per un’altra Armata Brancaleone più o meno fracassata e fracassona come quella vista in precedenza.
Ed è un film estremamente drammatico, in cui ogni faccia che si mostra è segnata da una disgrazia o alla ricerca di vendetta e redenzione in una zona rossa dove troviamo ancora i soldati americani con i loro lussi e i loro vizi a fare da padroni in una terra che non sono stati loro a salvare in primis.
Un’avventura on the road con un finale abbastanza tragico e malinconico, una metafora su come l’Italia non è mai stata unita ma troverà modi e stili diversi per riprendersi.

mercoledì 22 gennaio 2020

Report


Titolo: Report
Regia: Scott Z. Burns
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Un uomo indaga sui metodi che la CIA ha adottato dopo l'11 settembre.

I film d'inchiesta schierati dalla parte della carta dei diritti umani ormai cominciano ad essere un fenomeno importante nonchè una ricca galleria di punti di vista per mostrare alcuni lati orrendi della politica americana. Il cinema poi si sa di questi tempi è difficile da nascondere o bruciare come poteva succedere in passato per testimonianze, carte e video ripresi durante le torture.
Burns prima di essere un regista al suo secondo lungometraggio, ma di cui questo è il suo vero esordio, è uno sceneggiatore formidabile che ha scritto Panama Papers e Informant. Report però è un film maggiormente complesso che si basa su un realismo e un’asciuttezza narrativa ridotta ai minimi termini senza mettere in scena spazi larghi, ma sempre uffici angusti e bunker dove avvengono le peggiori efferatezze ai danni di presunti terroristi quando il film dimostrerà ben altro. La tortura, la ricerca della sottomissione, percosse, musica ad alto volume, isolamento, deprivazione fisica, tecnica del waterboarding, quella della tortura diventa una pratica che da sempre interessa gli uomini della Cia, alcuni convinti della sua funzionalità, altri costretti solamente a rimanere spettatori inermi.
Report sceglie una storia, quella di Daniel Jones che all'apparenza non sembra aver timore di nulla pur di cercare la verità e dare una nuova spinta verso un processo di giustizia e una inchiesta durata diversi anni che ha portato a qualcosa come 7.600 pagine di rapporto, condensate in poco più di cinquecento per essere rese note al pubblico.
Richiami al cinema di denuncia della Bigelow, Driver sempre in forma straordinaria come se fosse un alunno attento e sempre molto concentrato, una messa in scena che non cerca sensazionalismi disponendo di una storia macabra quanto attuale. Un film necessario, un'opera che dimostra il coraggio di voler far luce su un fenomeno assorbito dai media e dai sostenitori di una certa politica americana reazionaria che dimostra le falle e il potere delle fake news.
La più grande democrazia, come spesso si auto definiscono gli Usa viene ancora una volta messa in discussione come a sostenere la tesi che smettendo solo per un attimo di mentire acquisterebbero dignità.
Un film che non è mai scontato o prevedibile, che non cerca manierismi o inquadrature eleganti, che sfugge da tutta una serie di esercizi di stile di cui di fatto il film non ha bisogno e per questo non scende a compromessi se non quello di offrire uno scorcio limpido su una ferita ancora aperta della recente storia americana.

martedì 7 gennaio 2020

Bacurau


Titolo: Bacurau
Regia: Juliano Dornelles, Kleber Mendonça Filho
Anno: 2019
Paese: Brasile
Giudizio: 4/5

Una vicenda che accadrà tra pochi anni...Bacurau è un piccolo villaggio situato nel nordest del Brasile nello stato di Pernambuco. Vi si piange la morte della novantaquattrenne matriarca Carmelita. Qualche giorno dopo gli abitanti scoprono che il villaggio è scomparso dalle carte geografiche e che un misterioso gruppo di 'turisti' americani è arrivato nella zona.

Il bacurau è un uccello notturno molto abile nel mimetizzarsi e non farsi prendere dai predatori che invadono la sua terra.
Potente. Così può definirsi il film brasiliano passato a Cannes che ha saputo tradurre in termini post-contemporanei ma allo stesso tempo arcaici, un conflitto di classe, la metafora perfetta delle rapine culturali a danno di paesini deserti in paesi del terzo mondo. Un film che concentra così tante metafore e riflessioni politiche, socio-culturali, in cui pur di ottenere una manciata di voti si ha il coraggio di minacciare e mettere in ginocchio una comunità molto unita e profondamente segnata da perdite e da chi ha scelto la strada del banditismo non riconoscendosi più nei valori politico-sociali del suo paese. Bacurau sembra voler dare un segnale prima di tutto a coloro che vivono in questi villaggi, la sopraffazione di coloro, i politici, che si servono di contractors stranieri, che pensano di poter giocare con le vite altrui senza dimenticare che spesso queste popolazioni pur di rivendicare la propria identità sono capaci di spingersi ad azioni estreme e disperate.
Bacurau è ancor più interessante perchè gioca bene con il cinema di genere, inserendo storicità sulla vita del villaggio, il revenge-movie, lo sci-fi fatto di droni e di una sorta di Grande Fratello che cerca di mantenere il controllo mediatico del villaggio introducendo elementi che ne destrutturalizzino l'ordine (cancellare dalla mappa la città, togliere ogni tipo di segnale nella zona, fotografare con i droni, uccidere cominciando da chi vive ai margini del villaggio fino ad entrare dentro il centro), ma ancora a tratti il genere grottesco, lo splatter e lo slasher, il western e il cangaco.
Bacurau sembra senza tempo, rimane distante da ogni altra realtà cercandone una sua e diventando una favola politica che si svolge nel futuro, aderendo perfettamente all’attuale situazione del Brasile e alle profonde disuguaglianze sociali, etniche e culturali. Potrebbe sembrare una triste metafora di quello che Bolsonaro sta facendo con gli indios.


sabato 16 novembre 2019

Panama Papers


Titolo: Panama Papers
Regia: Steven Soderbergh
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Una vedova indaga su una frode assicurativa inseguendo a Panama City due soci in affari che strumentalizzano il sistema finanziario mondiale.

Laundromat letteralmente è la pratica di pulire i soldi illegalmente.
Soderbergh ovunque lo metti è quasi sempre sinonimo di garanzia. Balla da un genere all'altro girando film thriller con uno smartphone, intessendo trame corali, parlando di narcotraffico, banche, rapine, truffe, il tutto con una nutrita e solida filmografia e infine la particolarità di infilare spesso una quantità di star impressionanti.
Panama Papers in parte ha tanti di questi fattori espressi però in maniera più consolidata, seria e matura come il tema sta ad indicare. Anche in questo l'outsider americano considera un gioco l'analisi di un fenomeno tanto discusso quanto anomalo per certi versi e soprattutto attuale più che mai. Partendo proprio dalle storie, agendo come una metafora nell'affrontare alcuni dibattiti, prendendo i due protagonisti e facendoli traghettare da un paese all'altro con dei monologhi che affrontano in maniera radicale la vicenda, cercando senza moralismi e prese di posizione di analizzare quello che il potere della finanza e delle leggi di mercato ha sempre permesso ai danni di qualcun altro. Soderbergh ragiona su quanto alcune scelte, una parte del marcio del sistema fiscale americano, possa generare conseguenze impreviste, effetti perversi e inattesi ai danni di una parte di mondo che semplicemente non sa chi trama sopra di loro o per loro.
Messo in scena con un'eleganza degna del profilo e della filmografia del regista, aiutato in questo da una galleria di attori semplicemente straordinari dove ognuno riesce a cogliere al meglio le sfumature delle vittime e dei carnefici e di chi non si rende conto a cosa sta andando incontro o quale animale più grosso di lui sta ingrassando a dovere.
Con toni a volte quasi da favola, l'operazione dell'autore svela facendo voli pindarici da un paese all'altro la storia vera del 2016 dei cosiddetti Panama Papers, i dossier confidenziali creati dalla Mossack Fonseca nei quali figuravano tutti i nomi degli azionisti - capi di stato e di governo, funzionari, parenti e collaboratori di ogni sorta - che nascondevano i loro beni al controllo statale. Ancora una volta vengono esaminati anche i contorni agendo in maniera ancora più dettagliata, minuziosa e minimale andando fino in fondo per dare un'identità alla fonte anonima che ha rivelato al mondo l'archivio segreto dello studio, nella fattispecie una delle attrici più interessanti della storia del cinema

giovedì 24 ottobre 2019

Decoder

Titolo: Decoder
Regia: Muscha
Anno: 1984
Paese: Germania
Giudizio: 4/5

FM (componente del gruppo Einsturzende Neubauten) scopre che all’interno della catena di fast-food “H-Burger”, viene diffusa della musica (Muzak) che condiziona fortemente i comportamenti e i gusti dei giovani avventori. Sconcertato, registra e studia le caratteristiche di questa musica ma è solo dopo gli incontri con William Burroughs e i pirati della comunicazione guidati da Genesis P.Orridge, che FM riesce a “decodificarla” e a produrre un “anti-muzak” che induca la gente a ribellarsi al potere. I servizi segreti e la stessa multinazionale degli hamburger iniziano a braccare minacciosamente il fastidioso pirata, il quale nel frattempo diffonde, aiutato dalla sua posse, la “musica della rivolta”, producendo ovunque effetti devastanti per l’ordine e la morale pubblica. E alla fine la rivoluzione…

Il sogno dell’underground è quello di fare la rivoluzione. Si tratti di rivoluzioni violente o pacifiche, concrete o simboliche, collettive o individuali, ogni controcultura nella sua evoluzione, prima o poi, manifesta il desiderio di una trasformazione radicale del vissuto.
Decoder è uno di quei film a cui sono arrivato tardi purtroppo. Un film manifesto molto importante per l'epoca, per la commistione di generi (cyber punk, dramma, un certo tipo di horror) per le tematiche, per lo stile, la forma, le voci, la musica, l'impiego praticamente di qualsiasi maestranza in maniera sperimentale e in alcuni casi precursore di un certo tipo di stile e contro cultura.
Basato approssimativamente sugli scritti di William S. Burroughs, che recita anche nel film, sembra avere diversi elementi in comune con il film di Gillian uscito l'anno successivo BRAZIL, un film anarchico con un'idea originale e una messa in scena molto atipica e interessante. La rivoluzione arriva nell'underground proprio scoprendo una musica che diffonde una strana sinfonia confondendo e condizionando i giovani. Una generazione di nuovo controllata da un governo che sembra dover monitorare usando tutti gli strumenti che possiede ma che solo una parte di noi è in grado di captare, vedere e sgominare.
Il resto come negli incubi cronemberghiani che siano occhiali o come per Palahniuk una nenia, l'obbiettivo è sempre quello di captare un intero progetto di controllo delle menti e dei corpi, un processo ben più ampio, che vuole coinvolgere tutti partendo dai livelli più bassi (l'idea del "H-Burger" è geniale).
Potrebbe essere il film manifesto di ogni complottista sul controllo mediatico e il potere delle multinazionali dove se non altro pone anche qualche base su come è nato il cyber punk, per questo precursore come film, con il sodalizio tra punk e una sottocultura industriale che mixa idee anarchiche e hackeraggio

Traditore

Titolo: Traditore
Regia: Marco Bellocchio
Anno: 2019
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Sicilia, anni Ottanta. È guerra aperta fra le cosche mafiose: i Corleonesi, capitanati da Totò Riina, sono intenti a far fuori le vecchie famiglie. Mentre il numero dei morti ammazzati sale come un contatore impazzito, Tommaso Buscetta, capo della Cosa Nostra vecchio stile, è rifugiato in Brasile, dove la polizia federale lo stana e lo riconsegna allo Stato italiano. Ad aspettarlo c'è il giudice Giovanni Falcone che vuole da lui una testimonianza indispensabile per smontare l'apparato criminale mafioso. E Buscetta decide di diventare "la prima gola profonda della mafia". Il suo diretto avversario (almeno fino alla strage di Capaci) non è però Riina ma Pippo Calò, che è "passato al nemico" e non ha protetto i figli di Don Masino durante la sua assenza: è lui, secondo Buscetta, il vero traditore di questa storia di crimine e coscienza che ha segnato la Storia d'Italia e resta un dilemma etico senza univoca soluzione.

Mi sono sentito tradito da Cosa Nostra che ha abbandonato quel sistema di valori al quale avevo consacrato il mio giuramento. La mafia aveva dei suoi valori, non si uccidevano i bambini e gli anziani confessa nelle prime battute Buscetta a Falcone. Ma quali valori? risponde subito il giudice come a far immediatamente capire il muro che c'è tra i due, una barriera che solo il tempo farà sì che si venga a creare una solida e robusta collaborazione.
Il Traditore è un ottimo film di mafia, una sorta di sigla del nostro paese quando si tratta di crime-movie, che riesce, grazie ad un importante budget e una galleria di attori tutti in parte, ha delinea un fatto sociale che spero tutti conoscano e che il film ci tiene a documentare cercando di essere il più verosimile possibile.
E'un film da guardare con i sottotitoli, dalle prove attoriali intense, da alcune roboanti scene d'azione, gli arresti, le torture, i continui cambi di location e infine il tribunale.
Un'epopea di più due ore e mezza dove tutto sembra predestinato per arrivare in quell'aula dove qualcuno si aspettava di sentire il ruggito dei leoni mentre invece sembravano esserci  solo squittii.
C'è una storia di legami di famiglia, di omicidi, di condanne, un rapporto di lavoro e poi di amicizia tra il boss dei due mondi e Falcone fino al climax finale dove tra le condanne (366) e la morte del famoso giudice con cui il pentito ha passato ben 45 giorni, assistiamo a tanti pezzi di storia d'Italia, praticamente l'ultimo ventennio del '900, che si concludono in un momento che avrebbe potuto cambiare le sorti della mafia e del paese ovvero quando Buscetta prova ad attaccare quello che per lui è il vero male: la politica e dunque Andreotti.

mercoledì 10 luglio 2019

Domino


Titolo: Domino
Regia: Brian De Palma
Anno: 2019
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Un poliziotto danese vuole vendicarsi dell'omicidio di un suo amico e collega e cerca l'appoggio dell'amante dell'amico deceduto, anche lei poliziotta. L'uomo cui i due danno la caccia è però un infiltrato della CIA che sta cercando di sgominare una cellula dell'ISIS.

Bastano un paio di carrellate e un piano sequenza per indovinare la regia dietro questo interessante thriller di spionaggio che dalla sua cerca di confrontarsi con alcune tematiche attuali.
Domino è stato bistrattato all'unisono da pubblico e critica, senza nessun tipo di riserva ma anzi definendo ormai la capacità del maestro sulla strada del tramonto quando invece la tecnica rimane rigorosa e sinonimo di garanzia.
Sono stati tanti, troppi forse i problemi con la produzione europea denunciata dall'autore che nonostante tutto ha saputo portare a termine un film che a livello di stile, tecnica e prova attoriale riesce a mantenersi più che buono grazie anche ad un buon utilizzo delle musiche nelle scene clou del noir.
Con una produzione problematica e sotto finanziata, l'ultima opera del regista americano è stato girato nell'estate del 2017 ed esce ora in una versione troncata a seguito di una disputa tra De Palma e i suoi produttori.
La lotta dell'Europa contemporanea contro il terrorismo soprattutto dal secondo atto, diventa un'operazione quasi mediatica dove le parti coinvolte si inseguono in maniera innaturale con alcune logiche predominanti disfunzionali o per lo più banali contando che la materia ormai quasi tutti sembrano conoscerla abbastanza bene. Quello che il film poteva fare meglio e che per fretta o per divagazioni della sceneggiatura non ha saputo cogliere, ma il tentativo c'era, era fare una comparazione tra i media e le loro tecniche impiegate. Di come ormai nel 21° secolo la propaganda dell'Isis sembra avere più lo scopo di pensare alle immagini fatte per colpire il pubblico e suscitare paura piuttosto che mostrare i problemi politici e storici che hanno fatto sì che si creassero i gruppi terroristici. Ad un tratto l'indagine perde peso e il resto del tempo i due agenti sembrano passarlo intrattenuti da video su youtube, droni, web cam piazzati sopra le mitragliatrici, etc


mercoledì 5 giugno 2019

Zona


Titolo: Zona
Regia: Rodrigo Plà
Anno: 2007
Paese: Spagna
Giudizio: 4/5

Alejandro, ragazzo di buona famiglia, vive nella Zona, un quartiere di Città del Messico che è un vero e proprio ghetto per ricchi, sorvegliato da poliziotti privati. Una notte, tre giovani dei sobborghi poveri vi penetrano per compiere una rapina che finisce nel sangue. L'unico sopravvissuto viene catturato ma, invece di consegnarlo alla polizia, gli abitanti decidono di sottoporlo a un processo sommario...

Negli anni del capitalismo della sorveglianza, il film di Plà assume contorni precisi e quanto mai attuali per denunciare un sistema di giustizia sommaria e privata.
Il cittadino che diventa giustiziere aiutato e spalleggiato da un gruppo di gregari è uno scenario che il cinema indaga e attraversa per farci riflettere dal momento che quotidianamente la cronaca denuncia queste ignominie.
Un film che indaga un evento di cronaca caricandolo di pathos e ingiustizia per esplodere in uno dei finali più drammatici e disturbanti degli ultimi anni, mostrandoci ancora una volta fin dove può spingersi la regressione umana fino ad arrivare alla scelta di un capro espiatorio e di una vittima sacrificale da immolare e rendere manifesto e monito per il resto delle vittime.
Tratto da un libro scritto dalla moglie del regista, la zona diventa uno spazio geografico che possiamo individuare in ogni parte del mondo dove muri e cancelli dividono la ricchezza dalla povertà confinando l'umanità derelitta, senza contatti e aiuti tra le parti ma anzi cercando sempre di più di rimanere nella proprietà privata seguendo un codice di regole fisse che non ammettono passi indietro, pensando così di aver allontanato un problema e spendendo ingenti quantità di soldi per aumentare un sistema di difesa che porta la classe dominate ad essere ancora più ottusa e ipocrita.
Plà è un regista uruguayano che da sempre ha cercato di portare una sua precisa politica d'autore sulla denuncia dei soprusi e sulla proprietà privata che soprattutto nel Sud America ha creato e sta creando tensioni e conflitti.



lunedì 3 giugno 2019

Casa nera


Titolo: Casa nera
Regia: Wes Craven
Anno: 1991
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Immedesimatevi. Avete 13 anni, siete di colore, vivete nel ghetto e siete poveri; vostra madre ha il cancro, non avete padre e vostra sorella si prostituisce. Un giorno decidono di sfrattarvi per un ritardo nel pagamento e un amico di vostra sorella vi propone un piano per rubare delle monete d’oro in casa dei proprietari del vostro appartamento.

La casa nera è una piccola chicca facente parte di una filmografia importante nell'horror da parte di uno dei suoi maestri post contemporanei ovvero Wes Craven
Prima di tornare allo slasher con la saga di Scream ma dopo averci regalato alcuni film importanti sul genere, il maestro qui gioca con un'insolita metafora che per assurdo è forse uno degli unici tentativi ripreso con linee e intenzioni diverse, ma nemmeno tanto, trent'anni dopo da Jordan Peele in Get Out
Il ghetto, le difficoltà economiche, lo sfratto, condizioni di vita precarie, un nucleo familiare disastrato con una sorella prostituta e con una mamma sofferente.
Il protagonista un po come Milo di Transfiguration deve ingegnarsi come solo i piccoli devono fare maturando prima del dovuto per necessità e per salvaguardare i propri cari.
La scelta di attraversare un confine e sapendo di rischiare tutto sembra la stessa finalità e ideologia che portava Miguel nel film Zona ad attraversare un muro per sopravvivere.
Craven però farcisce il suo film con tanti squisiti elementi dove non sembra farsi mancare proprio nulla, pur diventando un home invasion, pur contornato da terrore, ironia (che dopo questo film cominciava a crescere nei suoi film) e unendo una critica sociale al modello economico capitalista sulla differenza tra le classi sociali senza dimenticare tanto ritmo e una vena splatter.




lunedì 22 aprile 2019

Logorama


Titolo: Logorama
Regia: AA,VV
Anno: 2009
Paese: Francia
Giudizio: 5/5

La polizia insegue un criminale armato in una versione di Los Angeles composta interamente da loghi aziendali.

La critica al capitalismo, il modello economico che stanerà tutti, diventa il circuito perfetto dove il trio di registi francesi descrive il proprio microcosmo. Loghi, brand, multinazionali, tutto ormai sembra diventare status simbol con il preciso compito e dovere da parte degli autori di trasformare tutto in un enorme buco nero in grado di inglobare tutto e mettere fine alla civiltà.
Il collettivo H5 (François Alaux, Hervé de Crécy e Ludovic Houplain) ha già firmato videoclip per Alex Gopher, i Massive Attack, i Goldfrapp e i Röyksopp e conferma un acume attento e colto nel saper essere sintetici e al contempo ingranare la marcia e sfrecciare a tutta velocità.
16 minuti di pura azione da vedere rigorosamente in lingua originale, un lavoro enorme che ha comportato l'utilizzo di 2500 loghi e mascots, appartenenti a compagnie di tutto il mondo, per costruire l’intera architettura cittadina e per creare personaggi improbabili, come il cattivissimo Ronald MacDonald e ampliare così una critica feroce sugli intenti perversi della multinazionale del fast food.


lunedì 11 marzo 2019

Last days


Titolo: Last Days
Regia: Kathrin Bigelow
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

'Un elefante scompare ogni 15 minuti'
Si parla sempre poco del fenomeno del bracconaggio. Forse perchè in Africa, forse perchè sembra non appartenerci, ma in fondo questa pratica ha modificato le sorti di questo pianeta.
La Bigelow è una regista molto coraggiosa che negli ultimi vent'anni ha dato uno scossone al suo cinema, già interessantissimo, interessandosi di politica, scandali, corruzione e terrorismo.
Nel 2014 si è presa a cuore l'idea di produrre questo importante corto animato realizzato in collaborazione con Annapurna Pictures e WildAid e avvalendosi della scrittura di Scott Z. Burns e realizzato in collaborazione con il concept designer Samuel Michlap
"L'anno scorso sono stata messa al corrente della reale connessione tra il bracconaggio di elefanti e il terrorismo. Per me rappresentava l'intersezione diabolica tra due problemi che sono di enorme preoccupazione, ovvero l'estinzione della specie e il terrorismo globale. Entrambi comportano la perdita di vite innocenti ed entrambi richiedono un intervento urgente. Per fare un film su un simile argomento ci vorrebbero probabilmente anni, anni in cui ancora più elefanti morirebbero, così ho invece incontrato una squadra di colleghi cineasti e abbiamo fatto Last Days come un pezzo d'animazione, idea che abbiamo pensato potrebbe presentarlo ad un pubblico più vasto (Internet è piena di immagine grafiche di elefanti macellati eppure la strage continua), ci sono cose reali che tutti noi possiamo fare per fare in modo che finisca la scomparsa degli elefanti selvatici dal nostro mondo, vedi il tagliare fondi ad alcune delle reti terroristiche più famose al mondo".

sabato 15 dicembre 2018

Io, Dio e Bin Laden


Titolo: Io, Dio e Bin Laden
Regia: Larry Charles
Anno: 2016
Paese: Usa
Giudizio: 1/5

Gary Faulkner è disoccupato, ha alle spalle qualche condanna per reati minori e davanti a sé forse qualche birra di troppo, quando riceve la "chiamata" divina per una missione a cui non può sottrarsi: partire per il Pakistan e catturare Osama Bin Laden. Armato di una spada da samurai comprata tramite una televendita e della convinzione, risalente all'infanzia, di dover fare qualcosa di grande, Faulkner, malato di reni ma psichiatricamente dichiarato sano, lascia la donna che lo ama e lo sopporta per inseguire il suo destino. Ci proverà ben undici volte, ma il film se ne fa bastare tre o quattro, che rendono perfettamente l'idea.

Terribile. L'idea di sviluppare una farsa, un film ironico che prendesse in giro una vicenda che ha fatto il giro del mondo fino a prova contraria sulla carta poteva essere una buona idea.
La satira come la sci fi sono materia difficile da destreggiare se non si è capaci.
Larry Charles sicuramente ha esperienza con la demenzialità e tutto il suo universo. Ha lanciato e ha fatto fortuna con diversi film con protagonista Sacha Baron Cohen, pellicole che sinceramente ho sempre trovato abbastanza ingenue e subdole nel cercare di inventarsi una nuova comicità spingendo su alcuni personaggi politici e una satira ignorante e mai incalzante.
Ma questa sua ultima opera fa acqua da tutte le parti, non si può reggere come Nicolas Cage che seppur in ottima forma con un nuovo e travolgente look di capelli, rimane dall'inizio alla fine senza freni e limiti come se fosse tornato giovane e tamarro per le strade di CUORE SELVAGGIO senza un autore dietro che gli dica cosa fare.
Ed è proprio la strada che qui sembra portare ovunque tranne che nel nascondiglio di Bin Laden.
Tutto è scombussolato, senza un filo che unisca niente, Russel Brand a fare Dio proprio non si può vedere per quanto è fastidioso e per finire delle scene poi ai limiti del ridicolo e del cattivo gusto come quando Gary cammina per le strade del Pakistan imbracciando una katana e con crisi allucinatorie che gli fanno vedere Bin Laden ovunque. Il finale baci perugina poi è da denuncia.
Mi chiedo se avessero messo Trey Parker o Kevin Smith cosa sarebbe successo.

mercoledì 5 dicembre 2018

Fake


Titolo: Fake
Regia: Sang-ho Hien
Anno: 2013
Paese: Corea del Sud
Giudizio: 4/5

Un gruppo di fedeli si lascia affascinare da una nuova Chiesa che promette miracoli. Quando i dubbi cominciano ad assalire i primi fedeli e muore improvvisamente una famiglia di persone oneste, l'equilibrio iniziale comincia a sgretolarsi e affiorano tutte le contraddizioni di un sistema religioso chiuso e troppo rigido

Fake (Falso) è un film straordinario dove il cinismo, la corruzione, gli scontri di potere, la diseguaglianza e tanto altro ancora esplode come un urlo disperato di chi non riesce più ad accettare tutti questi tumori e decide fargli vivere su grande schermo.
La metafora sulla società coreana, sempre più incattivita, spietata e pronta ad implodere e la scelta dell'animazione si sono rivelate ancora una volta due strumenti importantissimi dal momento che forse il regista a far recitare in carne ed ossa avrebbe potuto avere problemi.
Un film ancora adesso sconosciuto senza la benchè minima voglia di provare a distribuirlo da noi in Italia.
Hien aveva già esordito un anno prima con il pesantissimo Kings of Pigs dove per assurdo i protagonisti di adesso in quel film erano solo dei bambini e già dimostravano di non avere limiti alla loro brutalità. Uccidevano i gatti mentre qui uccidono i cani.
Il "pig" anzi i "pigs" di allora, diventano coloro incapaci di fare qualcosa di buono, a differenza dei forti, i bravi studenti, "i cani", come nella bellissima e onirica scena del film del 2012.
Hien cresce e come dicevo i suoi personaggi, metaforicamente parlando, diventano politici, amministratori, boss, malavitosi, buoni a nulla come il protagonista, ma ognuno di loro nel bene e nel male interpreta un ruolo all'interno della dinamica e competitiva società coreana.
Cresce in particolar modo il personaggio di Min-chui il padre che forse nessuno vorrebbe avere che rappresenta il paradosso di questa società un cattivo senza possibilità di redenzione ma allo stesso tempo dal momento che ricopre i piani più bassi della società una specie di portatore insano della verità.
Le gare d'appalto nonchè la corruzione diventano i punti di forza per un film in cui o sei carnefice fino alla fine, oppure non potrai che rimanere vittima di un sistema che non premia l'onestà e i buoni principi e dove un padre farabutto che esce di galera sperpera nel giro di pochi giorni tutti i risparmi per l'università della figlia, prendendola a botte ed etichettandola come puttana quando costei non ha fatto nulla se non provare ad arrabbiarsi.
In più in questo caso si arriva a toccare anche la sfera religiosa con un personaggio e il suo cambiamento lasciato proprio in bilico di fronte a scelte più grandi di lui, dove ci troviamo ancora una volta, di fronte ad una metafora che rappresenta le più becere illusioni e menzogne della chiesa.
Spero solo che Sang-ho Hien possa continuare a fare film perchè i risultati fanno male per quanto colpiscano dritti allo stomaco.




Team America



Titolo: Team America
Regia: Trey Parker
Anno: 2004
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Il Team America, una forza di polizia internazionale che mantiene la stabilità nel mondo, scopre che un dittatore assetato di potere procura armi di distruzione di massa a un gruppo di terroristi. Per infiltrarsi nella rete criminale, il Team recluta Gary Johnston, astro nascente di Hollywood, perché agisca in incognito. Dapprima riluttante, Gary si rende ben presto conto che il proprio talento di attore può servire una nobile causa...

E'inutile stare a presentare Trey Parker. Se non lo conoscete crocifiggetevi.
Solo per fare un esempio la serie SOUTH PARK è stata creata da lui e il suo socio.
Poi ha fatto altra roba come Orgazmo, film indipendentissimo, e se non lo avete visto, fatelo.
Dissacratore, gay, comico, eretico, praticamente distrugge qualsiasi cosa abbia a che fare con le religioni e le ideologie con una semplicità incredibile per lo più quando decide di parlare delle mille contraddizioni degli Usa, una potenza esportatrice di democrazia e guerra al tempo stesso che si affida ad un divo hollywoodiano per salvare il mondo.
Team America è uno dei suoi progetti più costosi che come sempre non ha raggiunto nessun successo ma dalla sua ha così tanti aspetti magnifici e dissacratori che ho riso dall'inizio alla fine divertendomi per come nessuno alla fine venga salvato dal comico.
Il sogno americano distrutto in tutto e per tutto, in questo caso grazie all'animazione che permette più libertà, l'artista ha avuto la possibilità di aumentare lo scenario dove collocare la vicenda e scrivendo dei dialoghi che prendono in giro tutti i film reazionari americani dagli anni'80 ad oggi in un film che sottolineo si fa beffe dell'ansia del politically correct e tutti i suoi parametri rigidi da controllare.
Un film che non nasconde nulla nella sua battaglia contro le apparenze, contro la falsità di un paese che cerca nemici immaginari per aumentare la sua sete di potere.
Senza farsi mancare stragi sanguinolente, scene di sesso, il fatto stesso di aver usato dei personaggi che richiamano le barbie e i ken non poteva rivelarsi scelta più azzeccata.
Esplode/dono tutti nel film. Terroristi, Michael Moore, Kim Jong II, l'amministrazione Bush, etc.
Nessuno si salva o meglio chiunque finga di promuovere valori e inneggiando a ideali in cui non crede o dove vende se stesso e ciò che gli sta intorno viene letterallmente silurato.


sabato 10 novembre 2018

Soldado


Titolo: Soldado
Regia: Stefano Sollima
Anno: 2018
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Sempre meno redditizio, il traffico di droga viene convertito dai cartelli in traffico di essere umani. Lungo il confine messicano e in mezzo ai clandestini si insinuano terroristi islamici che minacciano la sicurezza degli Stati Uniti. Un attentato-suicida in un supermercato texano provoca una reazione forte del governo americano che incarica l'agente Matt Graver di seminare illegalmente il caos ristabilendo una parvenza di giustizia. Graver fa appello ancora una volta ad Alejandro, battitore libero guidato da una vendetta che incontra vantaggiosamente le ragioni di Stato. Alejandro, che se ne infischia della legalità, rapisce la figlia di un potente barone della droga prima di diventare oggetto di una partita di caccia orchestrata dalla polizia messicana corrotta e da differenti gruppi criminali desiderosi di mettere le mani sull'infante. Diventata un rischio potenziale, bisogna liberarsene. Ma davanti a una scelta infame, Alejandro rimette in discussione tutto quello per cui si batte e tutto quello che lo consuma da anni.

Senza voler fare una comparazione a tutti i costi, ho trovato il film di Sollima leggermente superiore alla costruzione di Villeneuve, regista che stimo tantissimo ma che secondo me trova il suo meglio in altri generi.
Sollima dirige qualcosa di potente e maestoso, senza farsi prendere dal panico trovandosi di fronte ad una monumentale macchina produttiva come quella americana e con due attoroni ormai inarrivabili come Del Toro e Brolin (che fino a prova contraria è uno degli attori ritrovati del momento)
Un film che si divide come sempre in tre atti ma che racconta due storie diverse dove la prima mostra l'intelligence delle forze speciali e di come la lotta al narcotraffico fra Stati Uniti e Messico si è inasprita, dall'altra una storia umana di gente che cerca di attraversare il confine, di sopravvivere, di una relazione tra un sicario e una bambina, un rapimento, e un finale che spero dia conferma che deve rimanere Sollima a dirigere il terzo capitolo.
Un film di uno spessore e di una violenza impressionante da tutte le parti attraverso cui noi la guardiamo. Che siano i bambini, gli adolescenti, gli adulti, gli agenti del governo, lo stesso presidente, tutto sembra nichilismo puro e caos dove la parola d'ordine è uccidere senza regole e senza remore. Un crocevia di morte, che richiama soprattutto nella seconda storia il western, dove l'essere umano è la vera merce di scambio e dove ormai anche trattare è diventato quasi inutile, la giustizia e la vendetta sono invece i soli strumenti a fare da padroni (vedi Graver dopo quello che succede a Alejandro).
Un film bomba geometricamente che non fa una piega, con scene d'azione esaltanti e minimali, scenari pirotecnici che si aprono e sembrano farti catapultare da un bus pieno di messicani, al deserto più sanguinario di sempre e spazi angusti dove avviene il peggio.
Un film disperatamente cinico e drammatico che non regala e non vuole esaltare nulla, ma chiude tutte le porte massacrandole sul nascere, senza dare modo di redimersi a meno che non contiamo la deliziosa scena finale che apre le porte per un sequel che spero tanto di poter vedere.



giovedì 13 settembre 2018

Black Moon


Titolo: Black Moon
Regia: Louis Malle
Anno: 1975
Paese: Francia
Giudizio: 4/5

Alla guida della sua auto, Lily investe un tasso, resta coinvolta in una guerra tra eserciti di sessi opposti, avvista un unicorno e giunge a una fattoria. Qui incontra una vecchia signora forse moribonda, convinta che le sue esperienze siano frutto dell'immaginazione. Con qualche difficoltà, si integrerà nella strana vita della casa.

Capita spesso che i più grandi registi facciano delle incursioni in quello che potrebbe essere definito una sorta di trip, un sogno allucinato, un'esperienza onirica, un viaggio nel paese delle meraviglie.
Black Moon dalla sua ha alcune analogie con due capolavori assoluti che sono CHE di Polanski, uscito nel '72, e la CITTA'DELLE DONNE del'80 di Fellini.
Il background è assurdo quanto molto interessante per creare gli intenti che l'opera ricerca nei suoi continui rimandi filosofici e psicologici.
Una guerra tra i sessi dove a farne le spese sono in particolar modo le donne, prese e fucilate tutte in fila come nella peggiore delle esecuzioni che si possa immaginare.
Il perchè ci è sconosciuto ma Malle porta subito Lily in questa villa abbandonata dal tempo, con un unicorno parlante, la natura che vive, un gatto che suona il pianoforte, bambini nudi che corrono dietro ad un maiale enorme e un bicchiere di latte sempre pieno nel salone di casa.
Demolito dalla critica il film del noto autore in realtà ha dei meriti singolari e si spinge attraverso una metafora politica su un'amara e personalissima allegoria di come pensiamo di essere visti all'interno di una comunità quando scopriamo di non essere al centro dell'attenzione e che spesso e volentieri le parole non hanno alcun significato ma le azioni e i gesti hanno una grossa importanza.
Quando l'unicorno sentenzia a Lily di essere cattiva perchè ha strappato dei fiori che altro non erano che dei bambini, la stessa risponde all'unicorno dicendogli che lui deve cibarsi proprio degli stessi.
Tra psicoanalisi, sogno e realtà, visioni oniriche di cosa in realtà si crede e cosa no e una vecchia malata che deve essere allattata dalle proprie figlie o presunte tali.
Un film che seppur non perfetto è affascianante sotto il piano visivo ed estetico fotografato spendidamente e in grado di riassumere nella sua durata e nel fatto che tutto il film a parte i primi dieci minuti è ambientato nella villa, una satira sociopolitica forte e suggestiva dove i richiami all'opera di Carrol sono evidenti ma non così importanti, mentre invece lo sono a tutti quegli elementi legati all'esposizione enigmatica dei fatti che si prestano a varie letture psicoanalitiche ma soprattutto metaforiche per una favola senza morale, un incubo tutto sommato tranquillo, finchè si rimane nell'aura magica della villa e non si pensa che là fuori il mondo ha raggiunto ormai la fine.



giovedì 2 agosto 2018

Miracolo


Titolo: Miracolo
Regia: AA,VV
Anno: 2018
Paese: Italia
Stagione: 1
Episodi: 8
Giudizio: 4/5

Durante l'irruzione nel covo di un boss della 'ndrangheta, viene ritrovata una statuetta di plastica della Madonna che piange sangue. Al mistero non c'è risposta, ma la potenza di quell'enigma farà impazzire e deragliare le vite di tutti quelli che entreranno in contatto con questo evento.

Devo ammettere che non sono mai stato un grosso fruitore delle serie tv.
Questo non significa che non sia un ammiratore ma trovo che ci sia davvero troppa carne al fuoco con risultati poco più che mediocri e pochissimi casi di prodotti interessanti.
Ecco forse il Miracolo riesce a staccarsi, nello spettro italiano che delle serie ha davvero tanta paura soprattutto quando tratta il cinema di genere, superando quel confine invisibile che divideva la serialità italiana fatta per lo più di carabinieri, ispettori, polizia e preti, cercando come in questo caso di sconfinare e di catturare quello che tutti vogliono ovvero un pubblico mainsteram.
Il Miracolo è quella cosa scritta da Ammaniti, la sua prima storia originale per la televisione dopo sette romanzi di successo
Il viaggio di Ammaniti inizia da una suggestione classica in quanto a miracoli, quella di una statua della Madonna che piange sangue.
L'immagine della Madonna che emette grandi quantità di sangue è potente, sia dal punto di vista concettuale che visivo e gli autori che accompagnano lo scrittore la depongono con una piscina coperta e abbandonata, vuota e opprimente. Ma la sua funzione è solo di detonatore, di avviare una reazione a catena che li metterà di fronte a ragionamenti, domande, decisioni e scelte.
Gli otto episodi non sono solo un affascinante dramma, noir e visionario, avvolto nel mistero e in costante equilibrio tra sacro e profano, ma riescono a dare prova che una serialità da noi può esserci sfruttando il folklore e le nostre infinite leggende mischiando come in questo caso politica, mistero, thriller, mafia, scienza e chiesa e riuscendo anche a raccontare dei nuclei familiari e dei rapporti tra personaggi enormemente fragili e complessi.
Alla fine la serie è una grandissima metafora: davanti al mistero di una Madonna che lacrima sangue (nove litri l’ora, che non si sa come stoccare, salvo poi avere l’idea geniale di congelare la statuina per fermarne il deflusso), diventiamo tutti instabili se non schizofrenici.