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sabato 1 agosto 2020

A Sun


Titolo: A Sun
Regia: Chung Mong-hong
Anno: 2019
Paese: Taiwan
Giudizio: 4/5

Una famiglia di quattro persone viene distrutta quando il figlio più giovane viene mandato in un centro di detenzione minorile. Il figlio maggiore, che è sempre stato considerato la speranza della famiglia, prende una decisione che devasta i genitori.

Il quinto film di Mong-hong fa centro appieno rivelandosi un dramma famigliare, un noir che parte depistando lo spettatore con un paio di scene di amara vendetta davvero crudeli per poi rallentare e moderare i toni diventando un film che dalla strada, passa al carcere minorile, fino al cammino di redenzione, il revenge-movie e molto altro ancora.
In due ore e mezza il film si dipana su sentieri molto diversi ma tutti perfettamente collegati, rivelando parte degli intenti dei protagonisti e raccontando senza mezze misure una vicenda molto cruda e umana, un viaggio realistico di come si cerchi con tutte le difficoltà del caso di risorgere dalle ceneri senza aver fatto i conti con i debiti del passato e tutti i suoi aguzzini pronti a vendicarsi.
Le colpe che ricadono in primis sui genitori, la responsabilità di ritrovarsi ad aver messo alla luce un bambino senza saperlo, Mong-hong non abbassa mai i toni, anzi il dramma si dipana sempre in crescendo, fino ad impazzire verso il finale e dovendo trovare un climax potente per chiudere una faccenda che rischiava di far esplodere tutto. In più è incredibile notare come tutti i personaggi vengano caratterizzati e sondati fino alla radice, tra paure, invidia fraterna, scelte difficili, ricordi (la scena del figlio morto che appare al padre è commovente, oppure la rivelazione del marito nel finale a sua moglie) rendendo il film un'opera fortemente riflessiva ed emotivamente sconvolgente senza mai perdere i binari ma dimostrando una naturalezza impressionante.


lunedì 27 luglio 2020

Beasts Clawing At Straws


Titolo: Beasts Clawing At Straws
Regia: Kim Yong-Hoon
Anno: 2020
Paese: Corea del Sud
Giudizio: 4/5

I destini di quattro miserandi si intrecciano e il colore dei soldi diventa il rosso del sangue in un puzzle di vite grottesche.

Kim Yong-Hoon al suo esordio assoluto dimostra un coraggio e una capacità notevole nel saper gestire storia e piazzare la mdp in maniera davvero formidabile. I film con una struttura a incastro non sono moltissimi e spesso viste le diverse storie e gli intrecci rimangono difficili da gestire facendo sì che alcune risultino più accattivanti rispetto alle altre.
Tra ricchi colpi di scena, deviazioni inaspettate, un ritmo e una tensione che non vacillano mai, il film tende a rendere tre storie apparentemente distinte, facendole incrociare in maniera complessa e appagante.
Donne a capo di bordelli spietate e ancora innamorate dei loro ex, boss disposti a tutto pur di ottenere questa fantomatica valigetta piena di soldi, uomini indebitati dopo che la loro ragazza è fuggita con l'incasso di uno strozzino, giovani amanti, ragazzi disposti a tutto, mariti violenti, miserandi umili che fanno pulizie o lavorano all'interno di una sauna alle dipendenze di capi spregevoli.
Una valigetta, il colore dei soldi che diventa il rosso del sangue in questo puzzle di vite grottesche con un sapore coinvolgente, cambiando toni e atmosfere di continuo, capace di coniugare le tipiche atmosfere del thriller coreano a una verve ironica caustica e spiazzante, dove grottesco e black humor convivono magnificamente. Dal secondo atto il film cresce di continuo senza mai lasciare strade aperte. L'happy ending è torbido regalando colpi di scena e momenti inattesi nonchè conseguenze impreviste inaspettate delineando un quadro sempre più chiaro e preciso nella messa in scena non cronologica dove passato e presente ballano costantemente sul filo del rasoio e questa forse è la caratteristica più interessante e originale del film.

lunedì 20 luglio 2020

A good woman is hard to find


Titolo: A good woman is hard to find
Regia: Abner Pastoll
Anno: 2019
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Crescere un figlio da sola non è semplice. Ne sa qualcosa Sarah, una giovane rimasta da poco vedova che vive in quartiere controllato da un crudele narcotrafficante. Suo figlio Ben non parla più dal giorno in cui ha visto il padre accoltellato a morte all'interno della loro stessa proprietà. La polizia non ha fatto nulla e Sarah è oramai sull'orlo dell'esaurimento quando un giorno uno spacciatore locale fa irruzione nella sua abitazione. Temendo per Ben, decide di aiutare l'uomo che ha bisogno di nascondere ciò che ha rubato al boss del quartiere. Così facendo, questi continua ad andare e tornare dalla sua casa e Sarah, pur non sapendo come comportarsi, sa che deve fare qualcosa prima che sia troppo tardi.

Pastoll diresse nel 2015 Road Games un thriller insolito che vantava una scrittura e una piega degli eventi abbastanza originale in un mercato ormai omologatissimo confermandosi come un indie autoriale e inserendo il regista tra quelli da tenere d'occhio. A quattro anni di distanza conferma un film meno originale nella scrittura ma che riesce a divertire (cercare le pile per il proprio vibratore può non essere così facile, ma si è disposte a tutto) a lasciare interdetti a creare sinergie assurde, in un film girato in 16 giorni che passa dal dramma famigliare all'home invasion, al noir grottesco fino alla vendetta della final girl. Un film british al 100% che alterna una forte carica ironica a scene di sorprendente brutalità senza lesinare qualche inaspettato colpo di scena.
E poi c'è lei Sarah che tiene sulle spalle tutto il film dando filo da torcere ad ogni maschio alpha della pellicola, lasciandoli tutti allo sbando e prendendo lei il controllo della situazione alternando stati d'animo molto reali e soprattutto non puntando sui soliti stereotipi della femme fatale.
Emancipazione, indipendenza, farla finalmente pagare ad un commesso di un supermercato troppo ficcanaso dopo aver demolito un boss e i suoi gregari. Il titolo del film è profetico così come la trasformazione della protagonista che arriverà a tagliare a pezzi il cadavere di Tito, estrarre da una testa mozzata una pistola, colpire a colpi in faccia armata di vibratore. Un noir spietato e mai troppo sopra le righe capace di intrattenere, far riflettere, divertire e infine stupire con una buona dose di sangue e violenza.

martedì 14 luglio 2020

Lupin III - La menzogna di Fujiko Mine


Titolo: Lupin III - La menzogna di Fujiko Mine
Regia: Takeshi Koike
Anno: 2019
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

La storia si apre con una Fujiko nelle vesti di governante, al servizio di un ragioniere ricercato per essersi appropriato indebitamente di 500 milioni di dollari. In poche parole, il ragioniere in questione sa che verrà scovato prima o poi e decide di farsi esplodere assieme alla sua stessa casa mentre affida a Fujiko le sorti del suo pargolo (ottima scelta, vero?). Ma presto proprio il bambino diventerà l’obiettivo della compagnia alla ricerca del padre, inviando un assassino imbattibile che lo costringerà a confessare dove si trova il denaro. Naturalmente Fujiko sarà disposta a tutto pur di non farsi sfuggire quella somma più che cospicua…

Ultimo della trilogia nonchè caposaldo nel raccontare nello specifico che cosa abbia creato i killer visti in questo capitolo e nei precedenti. Si scopre così una compagnia, Godfrey Mining, che crea appunto assassini spietati prodotti artificialmente e con doti metaumane nonchè contractors che si contraddistinguono per avere ognuno una caratteristica insolita e letale. La storia di Fujiko è forse quella più drammatica, c'è un bambino da salvare (a volte nella sua disperazione davvero insopportabile), un segreto da mantenere, un malloppo che fa gola a molti, una fuga da un duo di criminali che si portano dietro il mostro, Bincam (una sorta di mezzo vampiro albino in grado di ipnotizzare le persone) di turno caratterizzato davvero bene, una creatura controllata dai suoi stessi aguzzini.
E poi c'è lei, finalmente una Fujiko che a differenza del primo capitolo non la vediamo inerme completamente nuda alle prese con una creatura con un fallo enorme roteante per una pletora che sembra uscita dal capolavoro di Kubrick, questo capitolo finale non prevede gag (le quali comunque sono quasi sempre state assenti nella trilogia) con personaggi sempre seri e misurati dove Lupin ad esempio non ci prova mai con Fujiko anche quando questa gli si addormenta sulla spalla quasi con le tette al vento. E'proprio lei comunque la protagonista assoluta, Lupin e Jigen fanno da comparse,
diventando un crogiolo di sfacciata sensualità e sottile perfidia, pronta ad usare il suo corpo come un'arma facendo innamorare di sé persino le pietre ma al momento giusto a conficcare pugnali nella schiena di chi è tanto incauto da avvicinarsi.




Lupin III-Lapide di Jigen Daisuke


Titolo: Lupin III-Lapide di Jigen Daisuke
Regia: Takeshi Koike
Anno: 2014
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Lupin e Jigen progettano il furto di un tesoro chiamato Little Comet, custodito nel paese di Doroa Est, ma si ritrovano invischiati nel conflitto spionistico con Doroa Ovest: Jigen viene preso di mira da un misterioso cecchino chiamato Yael Okuzaki, che si dice prepari la tomba alle sue vittime prima di eliminarle.

A Koike è stato dato il progetto di mettere in scena la trilogia dei film di Lupin. Una serie di lungometraggi (divisi in due episodi caduno) che prendono un personaggio in particolare e disegnano una storia fatta a puntino e scandita da una profondità nello stile e nella messa in scena.
I risultati sono stati meglio di quanto potessi desiderare a parte qualche sospensione dell'incredulità nel battere il nemico finale, trovando sempre quella strategia assurda e in fondo appartenente a questo tipo di genere e alla mente folle e ai piani ingegnosi di Lupin.
Il character design poi riesce a rendere in maniera sublime l'estetica oltre che un lavoro incredibile di scenografia nella ricostruzione dei paesaggi e degli edifici.
Uno degli elementi che ho apprezzato di più è la libertà concessa al regista, la violenza che non lesina mai, il sangue che scende copioso e dei dialoghi mai fine a se stessi ma funzionali a dare carattere e polso alla storia. Una trilogia che rimarrà impressa e che continua una carriera artistica incredibile di un regista che si era fatto apprezzare per Redline e Animatrix.
Lupin III-Lapide di Jigen Daisuke è il primo dei tre a cui faranno seguito Lupin III-Uno schizzo di sangue per Goemon Ishikawa e Lupin III - La menzogna di Fujiko Mine


Uomini d'oro


Titolo: Uomini d'oro
Regia: Vincenzo Alfieri
Anno: 2019
Paese: Italia
Giudizio: 3/5

Luigi il Playboy è un autista di furgoni portavalori che vede sfumare i propri sogni quando il governo aumenta l'età pensionabile di dieci anni. L'uomo perde la pazienza e pianifica una avventurosa rapina insieme ad altri tre spiantati.

Dopo alcuni tentativi maldestri, Alfieri si affida ad un manipolo di buoni attori per il suo heist movie, noir, una crime comedy cruda.
Un film con un gran ritmo in grado di raccontare un episodio infelice che svanisce i sogni di gloria per chi dopo l'epoca Craxi e Berlusconiana cercava una scappatoia per riuscire ad arricchirsi in fretta e far sparire le tracce. Così l'episodio di cronaca già portato sulla scena da Tavarelli nel 2000, riesce nel difficile compito di raccontare una storia tutt'altro che semplice, da tre punti di vista differenti, lasciando aperto per alcuni versi uno schema quasi corale e allo stesso tempo funzionale per far capire realmente gli intenti e gli interessi dei suoi complici.
Se ne facessero un film comincerebbe come I SOLITI IGNOTI di Monicelli e finirebbe come LE IENE di Tarantino”. Così il giornalista Meo Ponte, dalle pagine del quotidiano La Repubblica, descriveva nel 1996 il caso di una rapina a un furgone portavalori messa a segno proprio dagli uomini che lo guidavano tutti i giorni, due impiegati alle Poste di Torino.
Alfieri avendo a disposizione un manipolo di attori molto affiatati si concentra sulle cause, sui sogni nascosti di ognuno di loro, tra partite e dispute calcistiche, nuclei familiari da mantenere e ragazze squillo con cui sognare un'altra vita arrivando a perdere la dignità e ribellandosi imbracciando un'arma.

mercoledì 1 luglio 2020

Gangster the Cop the Devil


Titolo: Gangster the Cop the Devil
Regia: Won-Tae Lee
Anno: 2019
Paese: Corea del Sud
Giudizio: 4/5

Per le strade gira un serial killer dal metodo ricorrente: sceglie la propria vittima, la tampona con l'auto e poi la uccide, quando questa è scesa dal veicolo. Tuttavia, quando la vittima scelta è il boss della malavita Jang Dong-soo, il killer non riesce a terminare il proprio compito. Jang e il detective della polizia Jung Tae-suk stringeranno quindi un patto segreto per catturare l'assassino.

Il secondo film di Won-Tae Lee è un noir action strampalato, con una trama tutt'altro che originale ma come spesso capita in Corea, il risultato è meglio di quanto ci si aspetti.
Una crime story che punta su un killer (il Diavolo) smilzo e psicopatico, un poliziotto che fa come gli pare e il gangster Ma Dong-seok, star indiscussa del film. Action, dark humor, poliziesco e gangster movie in un film che non arriva al dramma per lasciarsi andare a scenari da City of violence o meglio BUONO, MATTO E IL CATTIVO che per qualche istante incontra I saw the devil. Intrattenimento allo stato puro per un film che non si dimentica dei personaggi esplorandoli a dovere (almeno il boss) e rendendoli umani e non privi d'etica.
L'apice appunto arriva nelle roboanti scene d'azione, negli inseguimenti come nelle scene action di combattimenti dove tutto sembra essere concesso.
Per essere un thriller coreano, il film di Lee è abbastanza atipico nel senso che esplora un territorio quello della buddy commedy sugli opposti, sulla morale ambigua, sui tradimenti senza lesinare colpi di scena efficaci e un finale davvero divertente diventando quel giocattolone autoironico che esalta i suoi protagonisti e richiede fin da subito abbondanti dosi di sospensione dell'incredulità




giovedì 16 aprile 2020

A Kite


Titolo: A Kite
Regia: Yasuomi Umetsu
Anno: 1998
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Sawa, ragazzina all'apparenza inoffensiva e Oburi, timido cassiere di un discount hanno più di una cosa in comune: sono killer professionisti e entrambi sono orfani di genitori morti in circostanze misteriose. Assoldati da due poliziotti, i due devono uccidere chiunque "sia scomodo", da attori di soap opera a uomini corrotti. Quando Oburi si rende conto che i due poliziotti vogliono toglierlo di mezzo, Sawa decide di stare dalla sua parte pur di sfuggire al suo "lavoro" e a vendicare i suoi genitori...

In poco più di un’ora Umetsu condisce con sangue, esplosioni, sesso e budella, una storiellina distopica e sci-fi davvero niente male, un noir nero controverso e anarchico con alcune incursioni nell’universo dei cyborgs di Mamoru e molto altro ancora.
Politicamente scorretto, violento quanto basta, l’opera dell’autore si contraddistingue per un’atmosfera cupa e perversa che passa dall’azione frenetica a scene romantiche e in tutto questo un ritmo che non passa certo inosservato tratteggiando dei personaggi non semplici, intrappolati in una ragnatela di accordi e disaccordi con poliziotti corrotti e uomini di potere affamati di sesso e con rimandi a stupri e pedofilia.
A Kite sa essere tante cose, cinico, commovente con una trama che lascia subito presagire come soprattutto le macchine vengano sfruttate per interessi beceri e fine a se stessi senza mai essere presi davvero in considerazione. Davvero i rimandi sono molteplici ma la storia e la messa in scena sanno sganciarsi da quanto visto finora. Ottima la scelta del tipo d’animazione, dialoghi mai scontati e una trama che riesce a infilare al punto giusto dei colpi di scena mai banali danno al film quella marcia in più e tratteggiano poi due losers, due assassini che non possono fare altro, per tirare avanti, in una realtà sottolineata da un degrado morale devastante.

lunedì 23 marzo 2020

Why Don't You Just Die


Titolo: Why Don't You Just Die
Regia: Kirill Sokolov
Anno: 2018
Paese: Russia
Giudizio: 3/5

Una casa in cui tutti hanno un buon motivo per vendicarsi.

L’esordio di Sokolov è un esercizio disimpegnato e divertente quasi tutto girato all’interno di una stanza (one room) dove il sangue, il noir, il crime-splatter e la tortura fanno da padroni.
Un mood grottesco tra ironia drammatica e venature pulp per cercare di dare enfasi, tono e ritmo ad un film in cui gli attori cercano di mettercela davvero tutta con un meccanismo nella messa in scena a orologeria che prova a non incepparsi mai. Certo è tutto decisamente sopra le righe, i colpi di scena, se non forse il climax finale, sono scontati e il sangue a volte esagera nel coprire scivoloni di trama e di messa in scena, ma alla fine è un prodotto gustoso e valido, visto da noi solo al THFF, in cui a farla da padrona ancora una volta è la violenza esagerata, stilizzata e coreografata in maniera incredibile con tutta una galleria di colori forti a rendere ancora più fumettoso il contesto. Dialoghi tagliati con l’accetta e momenti anche molto ironici dove forse una delle scene migliori è quella del lancio del televisore che si deflagra sulla testa e sul viso del protagonista, una sorta di Highlander perché con gambe trapanate, coltellate, e tutto il resto non muore mai, ma anzi sorride vedendo i destini degli altri personaggi

sabato 14 marzo 2020

Motherless Brooklin


Titolo: Motherless Brooklin
Regia: Edward Norton
Anno: 2019
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

New York, anni Cinquanta. Lionel Essrog lavora presso il detective privato Frank Minna, che l'ha salvato da un orfanotrofio insieme ai suoi compagni dell'agenzia di investigazioni. Lionel ha una memoria prodigiosa e una capacità estrema di collegare i puntini, qualità che, insieme ad una lealtà incrollabile, l'hanno reso molto caro al suo capo. Purtroppo però è anche affetto dalla sindrome di Tourette, che gli fa sentire nella testa la voce di uno spiritello anarchico che lo chiama Bailey e gli fa produrre suoni, versi e parolacce totalmente fuori controllo. La frammentazione caotica che Lionel ha in testa fa il paio con il puzzle che dovrà affrontare quando Frank Minna verrà ucciso, e lui dovrà scoprire il motivo e i mandanti di quell'omicidio: e al centro del puzzle troverà anche Laura, una bella attivista per i diritti della comunità afroamericana.

Voglio bene a Norton sul serio. Negli ultimi anni come capita per gli attori americani sbagliando alcuni film e non incassando e stato messo in uno sgabuzzino. Da lì ha cominciato a tessere un noir che ha richiesto molto tempo, troppo direi contando che parliamo di dieci anni, denaro, maestranze, un cast tutto sommato funzionale per arrivare a dirigere e interpretare un anti eroe un po’ sfigato con questa particolarità della sindrome di Tourette che purtroppo essendo un cultore di Southpark non ho potuto non pensare all’unico e inimitabile Eric Cartman.
E’simpatico vedere Edward fare le faccette che tanto ama e che ha rifilato in molti personaggi della sua interessante filmografia, ma l’inesperienza e l’aver voluto puntare troppo in alto si sono rivelate scelte che hanno appesantito e reso noioso un film che non doveva esserlo.
Dal punto di vista tecnico il film non fa una piega e i nomi che svettano nel cast non hanno bisogno di presentazioni, ma la natura tormentata del protagonista sembra una maledizione che rende il film eccessivamente lungo, con troppa musica, sfilacciato, noioso e ripetitivo con un secondo atto che fatica trascinandosi spesso per inerzia nel profondo delle periferie di Brooklyn senza mai riuscire a colpire per colpi di scena e con un climax tutto sommato prevedibile.
Sembra strizzare l’occhio a Scorsese nel voler fare uno spaccato di una metropoli ma senza riuscirci e non avendo quel talento, cerca di diventare criptico e complesso sfidando il noir alla Polanski o Altman e infine forse voleva dare l’impressione di infilare tra una pausa e un’altra una mezza storia d’amore con l’afroamericana di turno impegnata nei diritti umani che riesce ad essere solo melensa e scontata.

venerdì 10 gennaio 2020

Under the silver lake


Titolo: Under the silver lake
Regia: David Gordon Mitchell
Anno: 2018
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Sam è una delle tante anime perse di Los Angeles: non ha un lavoro, non ha un quattrino, sta per essere sfrattato dal suo appartamento e passa il tempo a fare sesso distratto con un'aspirante attrice che si presenta a casa sua abbigliata come i ruoli che interpreta. L'altro suo passatempo è spiare dal balcone le vicine con il canocchiale: è così che intercetta lo sguardo di Sarah, una bella ragazza bionda che sembra disposta ad intraprendere con lui una relazione. "Ci vediamo domani", promette lei, ma il giorno dopo scompare. Lungo la sua ricerca della ragazza scomparsa Sam scoprirà molti altri misteri metropolitani, con la guida di un autore di graphic novel che sembra saperne molto più di lui.

David Gordon Mitchell ha diretto quell'horror atipico di nome It Follows, un vero traguardo per un genere che cerca sempre di evolversi e cercare di apportare quella spinta in più captando tutti i mali di questo mondo malato.
Under the silver lake è un thriller, un noir urbano, un giallo dove un ragazzo qualsiasi si improvvisa detective dopo aver perso la testa per l'ennesima bionda di turno.
Partendo da un'idea che il protagonista Sam è uno che vive nel lusso senza però pagare l'affitto al proprietario che minaccia di sfrattarlo, non si capisce che lavoro faccia eppure i soldi non gli mancano e ad ogni occasione buona si imbuca a feste e party di lusso incontrando vecchi amici e collezionando figure di merda.
Passa il tempo a fare cose tra cui guardare col binocolo le vicine di casa hyppie che escono nude in balcone. Sembra sempre in attesa Sam come se dovesse succedere qualcosa da un momento all'altro e scegliere proprio lui come una sorta di predestinato.
L'arrivo di Sarah è una brutta scottatura soprattutto quando lei sparisce nel nulla e da quel momento il film per ben 140' si riproduce all'infinito, senza seguire una pista precisa ma mostrando una processione interminabile di sotto trame, alcune per nulla funzionali, portando Sam ovunque anche in mezzo al deserto se necessario. Verso il finale finalmente veniamo a sapere cosa sta succedendo e il messaggio è davvero allucinante parlando di poteri forti e di quell'1% dei veri ricchi che si nascondo in ville iper lusso sottoterra dove si portano belle ragazze da scopare fino alla morte.
Qualche indizio prima c'era ma era subliminale, con questa ossessione di Sam per provare a risolvere grattacapi con strumenti ai limiti della follia e del non-sense.
Il vero mandante e ideatore finale con cui si confronta Sam, quello che controlla tutto e ha sempre avuto l'ultima parola, per certi versi è una metafora di Weinstein, in una scena memorabile che da sola basta a far perdonare almeno 90' precedenti di seghe mentali ma fatte bene.



martedì 7 gennaio 2020

I saw the devil


Titolo: I saw the devil
Regia: Jeen-woon Kim
Anno: 2010
Paese: Corea del sud
Giudizio: 4/5

Dopo aver vissuto in diretta telefonica la morte della fidanzata per mano di un serial killer, un agente speciale si scatena in una caccia all'assassino senza esclusione di colpi, con l'intento di infliggergli le stesse sofferenze subite da troppe vittime innocenti.

Credo che di film sulla vendetta, i revenge-movie, così ispirati e con una trama così spiazzante e niente affatto scontata siano davvero pochi, la maggior parte negli ultimi anni e in particolar modo sud-coreani.
L'autore prolifico che sguazza tra i generi e che ci ha regalato perle indimenticabili, arriva al suo film più assoluto in generale, dove non esistono e non si fanno sconti, non è tollerato quel'umorismo che in altri film potevamo permetterci, ma forse l'unica risata è quella grottesca per scoprire quale brutta fine toccherà a Kyeong-Cheol.
Un noir, un poliziesco, un thriller, un horror con tante torture possiamo perfino definirlo.
Un film che mostra fino a che punto può spingersi la rabbia umana, senza arrestare o uccidere il colpevole ma costringendolo in una lunga spirale di sofferenza, un calvario prima della morte.
Il regista porta agli eccessi una coppia di personaggi così diversi ma così pronti a far emergere tutto il loro degrado e la loro eccessiva violenza e disperazione. Un protagonista che sembra una contraddizione unica, una trama che seppur semplice è montata e possiede un ritmo da farlo sembrare un meccanismo a orologeria dove ad ogni lancetta corrisponde un colpo basso al killer di turno andando a stanarlo in ogni dove dal momento che Su-Hyeon gli fa ingoiare una ricetrasmittente che gli permette di localizzarlo in ogni momento. Un film che poi oltre ad avere una storia entusiasmante ha uno stile tecnico e una regia deliziosa in grado di restituire tutti gli aspetti del cinema di genere su cui è profondamente radicato


5 è il numero perfetto


Titolo: 5 è il numero perfetto
Regia: Igort
Anno: 2019
Paese: Italia
Giudizio: 3/5

Peppino Lo Cicero è un sicario di seconda classe della camorra in pensione, costretto a tornare in azione dopo l'omicidio di suo figlio. Questo avvenimento tragico innesca una serie di azioni e reazioni violente ma è anche la scintilla per cominciare una nuova vita.

Tra il 2017 e il 2019 ci sono stati importanti traguardi per gli esordi alla regia in Italia.
Nest-Il nidoGo home-A casa loroCampioneEdhelMcBetterProfezia dell'armadilloKrokodyleTerra dell'abbastanzaFinchè c'è prosecco c'è speranzaMetti la nonna in freezerEnd-L'inferno fuori, tutti usciti in questi ultimi anni che confermano quasi sempre un cinema dalle idee chiare, tanti talenti e ottime maestranze e la voglia di puntare molto sul cinema di genere.
Il film di Igort, prima regia pur avendo già lavorato come sceneggiatore, è un film brillante, un noir scontato ma di lusso che a conti fatti mantiene un livello tecnico e attoriale indubbiamente sopra la media senza sfigurare di fronte ai film europei o americani.
Un noir che sembra uscito dal passato per sposare la modernità e raccontare una grapich novel senza mostrare l'ennesima storia drammatica di Camorra, cercando invece di sposare le mode visive della vignetta, mettendo tanta azione hard-boiled e cercando fino alla fine di non soffocare i ritmi action della storia con una struttura piuttosto lineare (tentativo meno riuscito).
Quindi l'azione come parodia, poche risate e toni molto seri, il bellissimo gioco di luci e ombre, i tratti fisici marcati per sottolineare alcuni personaggi e poi Toni Servillo ancora una volta immerso nel dare enfasi e caratterizzare un personaggio che si carica quasi tutto il peso del film sulle spalle.
5 è il numero perfetto fa delle sue imperfezioni i punti di forza, gioca col pubblico cercando di divertire, di regalare scene che potrebbero essere tutte delle tavole, senza avere quei fasti che hanno certi autori cinematografici, ma promuovendo comunque un tipo di cinema d'intrattenimento importante per il nostro paese in cui sempre più opere danno che la conferma che la salute generale, soprattutto nell'indie, è quella buona.

domenica 15 dicembre 2019

Hwayi a monster boy


Titolo: Hwayi a monster boy
Regia: Jang Joon-hwan
Anno: 2013
Paese: Corea del sud
Giudizio: 2/5

Hwayi è stato allevato da una banda di criminali, i quali lo hanno istruito sin da piccolo alle tecniche di arti marziali e all’utilizzo delle armi. Seok-tae, il capo del gruppo, decide di sottoporre il ragazzo al battesimo del fuoco ordinandogli di eliminare Im Hyung-taek, un attivista che si oppone a un piano di riqualificazione edilizia. L’assassinio, però, porterà Hwayi a scoprire una sconvolgente verità sul suo passato.

Come spesso capita con il cinema orientale, in particolar modo in quello coreano, le cose non sono mai quelle che sembrano, le storie mano a mano che il film prosegue mutano e le radici si diversificano trasformando i generi e sapendo diventare quella mistura che abbraccia un po di tutto.
Thriller, poliziesco, action-movie, dramma, noir, in parte anche qualche pennellata horror, Jang Joon-hwan riesce e affina la sua seconda opera con un film complesso, solo apparentemente semplice nell'idea di trama che si espande nel primo atto, per poi cambiare rotta diventando sempre di più uno sguardo sul passato, sulla psicologia per cercare di fare luce su tutti i fantasmi che nel film appaiono e di cui vogliamo sapere la storia e la provenienza.
Purtroppo pur riconoscendo tanti sforzi e alcune capacità notevoli il film soprattutto nel terzo atto, per porre fine a sotto storie e personaggi, incappa in una quantità di errori di scrittura davvero inusuale per questo tipo di cinema e per una storia che già aveva tanti di quegli elementi senza bisogno di aggiungerne altri o renderli ancora più complessi.
Il film prende tante direzioni, non riesce a imbroccarle tutte, ma ha quel bisogno e fa quello sforzo di cercare di dire quanto più possibile, grazie ad un cast funzionale, una messa in scena impeccabile e alcune intuizioni davvero niente male come i continui colpi di scena (basti vedere la scena iniziale e l'incidente scatenante).

sabato 16 novembre 2019

Cyber City Oedo


Titolo: Cyber City Oedo
Regia: Yoshiaki Kawajiri
Anno: 1992
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

OEDO (ex Tokyo), anno 2808. Sengoku, Benten, Gogul: intraprendenti cybercriminali condannati a scontare dai 295 ai 375 anni di carcere. Le alte sfere governative decidono di sospendere tutte le sentenze in cambio della loro collaborazione nella lotta contro il crimine. Riusciranno i tre neo-agenti della Cyber Police a portare a termine ogni missione con successo? Il collare esplosivo che sono costretti a indossare non lascia loro molta scelta.

Ancora l'immenso Yoshiaki Kawajiri, un regista d'animazione come non si sono quasi mai più visti che ha saputo regalare perle per quanto concerne la nutrita gamma di generi a cui il suo cinema attinge e aderisce. Un'autore in senso ampio del termine di cui credo su questo blog di aver recensito tutte le sue opere, tante, diverse, una più bella dell'altra di cui questa mini serie composta da tre Oav da quaranta minuti l'uno raggiungono i fasti più alti del suo cinema.
Sci-fi, poliziesco, thriller, horror. Cyber City Oedo è composto da tre episodi diversi ma collegati dove in ognuno è presente una storia incentrata su uno dei tre protagonisti principali.
Con una soundtrack dominante e ipnotica Kawajiri inserisce quasi tutte le sue tematiche raggiungendo e inserendo però alcune meta riflessioni filosofiche sul destino e tante altre domande e argomentazioni affrontate in passato. I complotti, il governo corrotto, le macchinazioni politiche, i collari per controllare i prigionieri e usarli come schiavi per i propri scopi, gli esperimenti militari a danno di alcuni prigionieri usati come cavie. Temi e portate che vengono inserite in maniera più che perfetta, dove il nostro autore si sbilancia affrontando anche l'horror con una storia che vede protagonista un vampiro, tantissimo sangue e un livello di violenza che rimane uno dei marchi di fabbrica del cinema di Kawajiri come in alcuni film possono esserlo le scene di sesso.Gli scenari poi sono curatissimi, il delirio cosmico e le ambientazioni cyberpunk rendono ancora più suggestivo un universo creato ad hoc per dare ancora più enfasi alla storia.
Lo stile poi ormai da tempo non ha più nulla da mettere in discussione, è rodato e ormai consolidato con alcune scene d'azione realizzate in maniera impareggiabile dando sempre una profonda riflessione sullo spirito di sacrificio, sull'enorme senso di spettacolarità e alcuni scontri che inseriscono anche un certo discorso sull'onore e sul rispetto che merita un discorso a parte.
I criminali che Kawajiri mostra, tre personaggi che come sempre si distinguono in tutto e per tutto come se fossero straordinariamente diversi nel design e nel character, sono gli stessi anti-eroi che abbiamo conosciuto in altre opere come sempre prediligendo e distinguendosi per delle storie che non prevedono dei veri e propri eroi canonici ma in fondo dei buoni che sanno sacrificarsi per la giusta causa e al tempo stesso rimangono anarchici in tutto e per tutto, odiando le regole e un sistema che gli vende e gli usa come vittime sacrificali e capri espiatori.




domenica 27 ottobre 2019

Perfect Creature


Titolo: Perfect Creature
Regia: Glenn Standring
Anno: 2006
Paese: Nuova Zelanda
Giudizio: 3/5

Siamo in "Nuovo Zelandia" un luogo in cui le ere (quella Vittoriana e una più recente) sembrano essere entrate in commistione. In questo mondo esistono i vampiri, creature originate 300 anni prima da una mutazione genetica. Essi però hanno stretto un patto con gli umani e si sono uniti in una comunità di "Fratelli".
I vampiri fanno uso delle loro superiori conoscenze e dei poteri attribuiti loro dalla particolare conformazione fisica per aiutare gli esseri umani. I quali li ricambiano con spontanee donazioni di sangue. Tutto è sempre andato per il meglio finché un giorno Edgar, un vampiro, ha iniziato a vedere gli umani come prede. Edgar è figlio del Grande Sacerdote della comunità e fratello di Silus il quale si allea con la polizia umana per metterlo in condizione di non nuocere

Standring al suo attivo ha due film, questo è il suo esordio, un film particolarmente brutto anche se con qualche trovata simpatica L'INCONFUTABILE VERITA'SUI DEMONI.
La prima volta che vidi il film non ne rimasi affascinato, anzi, mi era sembrato abbastanza privo di forza e non trovavo particolarmente stimolante la trama e la messa in scena.
Riguardandolo però ho avuto modo di ricredermi, certo non è uno dei miei cult tra i film di vampiri, ma mette tanta carne al fuoco, in maniera abbastanza approfondita e caratterizzando bene i personaggi, caratteristiche che nel cinema d'azione-horror non sempre trovano una buona gestazione. In questo caso invece la comunità dei Fratelli, il contesto di un'era o meglio un'ambientazione steampunk che non viene perfettamente decifrata, la creazione dei vampiri che avviene geneticamente e la comunione con gli umani e lo scontro tra i due fratelli crea un bel mix di elementi che si affacciano al cinema di genere in maniera se non altro originale che parlando di vampiri non è un elemento da poco.
Action, horror, dramma, noir, poliziesco, thriller. Standring crea un suo piccolo universo da cui potrebbero trarre numerose stagioni di una serie tv nel voler anche solo ampliare la storia e parlare di come tutto è stato creato e del perchè, elementi che nel film vengono esaminati con poche battute per dover riuscire a far convergere tutto fino alla fine.




giovedì 24 ottobre 2019

Goku midnight eye

Titolo: Goku midnight eye
Regia: Yoshiaki Kawajiri
Anno: 1989
Paese: Giappone
Serie: 1
Episodi: 2
Giudizio: 4/5

Goku Furinji è un abilissimo investigatore privato, tra i migliori nel suo mestiere. Presto però deve  indagare su Genji Hyakuryu, noto mercante d'armi, e durante uno scontro con i suoi uomini si salva a stento perdendo l'occhio sinistro. Aiutato da un misterioso individuo, si risveglierà scoprendo di poter vedere ancora: il bulbo oculare gli è stato sostituito con uno cibenetico avanzatissimo che, permettendogli di connettersi a qualsiasi sistema informatico del mondo, lo rende ipoteticamente un Dio...

Sempre dall'Oriente con un'altra perla nipponica. Due episodi per un perfetto cocktail
poliziesco, sci-fi, action, cyber-punk, thriller, ed action movie con tante scene violente e alcune scene di sesso abbastanza spinte per l'anno di uscita.
L'idea alla base permette a Kawajiri di potersi avvalere di una sceneggiatura davvero ben strutturata, piena di ritmo, di riflessioni interessanti, in grado per tutta la sua durata (due episodi da 45')di coinvolgere lo spettatore facendolo passare da una situazione all'altra in un quadro noir e quasi spettrale dove dalle scelte di look e di forma notevoli, il film dalla sua per fortuna non ha particolari regole o target da rispettare inserendo sparatorie, squartamenti, scontri violentissimi e un linguaggio che non nasconde la sua vena esplicita. Kawajiri ha sempre uno stile molto tetro, scuro e macabro che si ricollega ad altri suoi film d'animazione da vedere assolutamente come MANIE-MANIE (l'episodio dell'uomo che correva), CITTA' DELLE BESTIE INCANTATRICI, NINJA SCROLL, VAMPIRE HUNTER D-BLOODLUST, ANIMATRIX, Highlander(2007).
Nei suoi due episodi Kawajiri fa un salto in avanti rispetto ai suoi precedenti lavori, affinando meglio la tecnica, ma soprattutto dando alla storia quel tratto da noir urbano che complice anche le raffinate inquadrature, riesce a dare equilibrio e ritmo a tutti i generis inseriti.

lunedì 17 giugno 2019

In Bruges


Titolo: In Bruges
Regia: Martin McDonagh
Anno: 2008
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Ray e Ken , due killer, sono costretti dal loro capo a riparare a Bruges. La loro ultima missione è andata storta: Ray ha ucciso per sbaglio un bambino.

In Bruges è un film particolare da definire come la carriera del regista che al suo attivo vanta tre pellicole che devo ammettere funzionano tutte e tre seppur molto diverse, trovando un paragone tra questo e il successivo. In Bruges adotta una strategia particolare e non è così facile da definire proprio per le vicende narrate e come vengono trattate. Una coppia di killer che si trova in terra straniera a doversi quasi scontrare in un bel finale (forse la parte più tesa e ritmata dell'intera pellicola) dopo aver passato tutto il resto del film a girare per le strade e i musei, incontrare brutti ceffi e ragionare su cosa è andato storto nella vita. E' un film che parla di killer che non vediamo quasi mai con una pistola in mano, un film malinconico che sembra voler interessarsi, come per la città, di troppe cose, perdendone di vista alcune e invece dall'altra parte avendo delle buone intuizioni quasi tutte rese al meglio dall'ottima scelta di cast.
Come per 7 psicopatici tutti cercano pace e riposo nella loro vita travagliata, tra redenzione, riposo e tranquillità. Elementi assurdi e in totale contrapposizione con le vite di chi ha deciso di privarne altre per soldi. Un film che mano a mano apre altri spiragli, alcuni tragici come il senso di colpa legato all'omicidio di un bambino, ma soprattutto inserisce una donna come metafora e simbolo della speranza e dell'amore. Per certi versi un noir che non è propriamente un noir e altri generi che soprattutto nel cinema di McDonagh sembrano rincorrersi e unirsi al contempo.


lunedì 3 giugno 2019

Arrivederci amore ciao


Titolo: Arrivederci amore ciao
Regia: Michele Soavi
Anno: 2006
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Giorgio è un terrorista di sinistra condannato all'ergastolo e rifugiato in un avamposto guerrigliero nel Centro America. Nel 1989, col crollo del muro di Berlino e successive smobilitazioni, Giorgio decide di rientrare in Italia ma soltanto per tornare ad essere un uomo normale. Consegnatosi alla polizia italiana, come da copione e su suggerimento del vice questore della Digos, Anedda, l'ex-terrorista "canta", rivelando i tanti nomi dei suoi vecchi compagni. Scontata una pena minima in carcere, il Codice Penale prevede cinque anni di buona condotta per ottenere la riabilitazione e Giorgio la vuole ad ogni costo e con ogni mezzo. La strada verso la reintegrazione sociale abbatterà vite colpevoli e innocenti. Giorgio non ripara, non risarcisce, non si pone interrogativi morali e i suoi delitti restano senza castigo

Soavi è uno dei registi contemporanei più interessati e capaci sul territorio.
Bastano pochi film per capire che il regista nostrano abbia i numeri come Dellamorte dellamore
In questo caso particolare parliamo di un film molto complesso che deve dalla sua una scrittura che ha avuto diverse mani da cui trarre materiale del romanzo di Massimo Carlotto che non ho letto.
Mi ha ricordato per certi versi nella messa in scena il film di Incerti Complici del silenzio
Soavi continua a prediligere il cinema di genere inserendo tutto il suo cinismo e la sua violenza all'interno della pellicola, facendo fare i salti mortali ad un cast funzionale dove Boni può togliersi le catene e urlare tutto il suo disagio espresso con la sua carica fisica ed emotiva.
La volontà e il bisogno di fare cinema per Soavi si vede fin dalle prime inquadrature per un autore purtroppo relegato ad essere un mestierante per fiction italiane imbarazzanti dove l'esperienza si nota subito. Qui gli esiti estetici sono per fortuna meno televisivi rispetto alla porcheria che gli tocca girare per la Rai, come addetto ai lavori, cercando di andare oltre, sovvertendo le regole dell'appiattimento stilistico e cercando di osare qualcosa di nuovo che il nostro cinema sembra aver dimenticato.



Dellamorte dellamore


Titolo: Dellamorte dellamore
Regia: Michele Soavi
Anno: 1994
Paese: Francia
Giudizio: 4/5

Francesco Dellamorte lavora come custode al cimitero di Buffalora, un piccolo paesino lombardo. Il luogo però è infestato da una strana maledizione: la notte infatti le persone decedute negli ultimi sette giorni ritornano in vita, e a lui e al suo goffo aiutante Gnaghi tocca l'arduo compito di eliminare i morti viventi. Il tutto naturalmente all'oscuro di chiunque, pena il rischio di perdere il lavoro e passare per matto. Le cose però si complicano inesorabilmente quando Francesco viene sedotto da una giovane vedova. I due hanno un rapporto sessuale proprio sopra la tomba del marito appena scomparso, che inferocito si risveglia dalla tomba e uccide la ragazza. Da qui in poi per Francesco la vita diventerà un vero inferno, e oltre ad occuparsi dei "ritornanti", sempre più numerosi, dovrà fare i conti con la propria coscienza.

Fino ad oggi il miglior film su Dylan Dog.
Qualsiasi altro tentativo non è mai stato all'altezza nonostante gli sforzi interessanti di un indie come Dylan Dog-Vittima degli eventi oppure tentativi beceri e terribili come sempre ad opera degli americani girati in fretta e furia e senza rispecchiare nessuna poetica dell'autore con Dylan Dog-Dead of Night
Tratto da un romanzo di Tiziano Sclavi, il film funziona prima di tutto per l'atmosfera che riesce a confondere lo spettatore facendogli pensare di essere in una sorta di limbo (siamo a Boffalora vicino Milano) dove in mezzo alla nebbia e soprattutto tra la nebbia, tutto può succedere.
Sembra inoltre di uscire da un film di Fellini ed entrare nell'orrore di Fulci.
Tutto funziona perfettamente anche la presenza di una modella come Anna Falchi che rimane statuaria nella sua bellezza e nella sua iconografia che soprattutto all'inizio è ispirata alla Venere del Botticelli. E' un film che se a livello tecnico funziona molto bene, è soprattutto il ritmo e il linguaggio a farla da padrone dove il grottesco non manca, ma neppure il cinismo beffardo e la malinconia romantica di fondo con continui rimandi al cinema e alla letteratura e alcune scene indimenticabili. Oltre ad essere il miglior film su Dylan Dog e un ottimo horror zombie-movie, una interessante commedia nera e un dramma romantico girato con un decimo del budget del coetaneo americano con cui in comune ha solo il nome del protagonista.