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lunedì 19 marzo 2018

Bruce Lee-La grande sfida


Titolo: Bruce Lee-La grande sfida
Regia: George Nolfi
Anno: 2016
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Tra le vie di Chinatown, a San Francisco, il giovane Bruce Lee, futura star delle arti marziali, sfida il leggendario maestro Wong Jack per una lotta senza esclusione di colpi.

L'ultimo film di Bruce Lee dopo DRAGON e la parentesi nel film YIP MAN è qualcosa di veramente anomalo. Prima di tutto non si capisce chi è il protagonista e non è di certo Lee ma nemmeno Wong Jack, ecco forse il ragazzino biondo che si innamora della povera cameriera cinese.
E'un film indigesto e tamarro, girato dagli americani senza un briciolo di senso, senza contare i combattimenti che anch'essi rispetto ai film orientali fanno davvero pena e non parlo solo del main event tra i due campioni ma della resa dei conti finale.
Un film che mostra elementi blandi e kitsch della cultura cinese ridicolizzandola senza aver peso e misura e soprattutto contando che stiamo parlando di una leggenda e come tale andrebbe opportunamente messa in scena quando invece l'unico con il sale in zucca sembra lo sguattero biondo occidentale.
Forse l'unico elemento che si salva è l'aria da tamarro di Bruce. Era effettivamente uno spaccone provocatore e in questo il film è la prima volta che mostra quest'aria insolente senza starci a girare molto dietro ma anche qui l'attore esagera andando fuori dal personaggio in troppi momenti.
Per il resto è puro mainsteram commerciale e senza guizzi, dai dialoghi ad una narrazione che diventa prevedibile dopo soli dieci minuti e con la vendetta finale per salvare la povera cinesina che rischia di finire a lavorare nelle "case".

martedì 27 febbraio 2018

Rocco


Titolo: Rocco
Regia: Thierry Demaizière, Alban Teurlai
Anno: 2016
Paese: Francia
Giudizio: 3/5

La pornostar più famosa al mondo, Rocco Siffredi, si presta totalmente all’obiettivo per una confessione fiume: da Ortona, il paese natale abruzzese, fino a Budapest, sede della sua società di produzione, i casting a Los Angeles e le riprese dell’ultimo film a San Francisco, sempre accompagnato dal cugino Gabriele, caotico ma onnipresente foto-operatore, assistente alla regia, autista.

La prima inquadratura mostra il cazzo dell'attore sotto una doccia con un rallenty impressionante e sfruttando una fotografia in b/n.
Tutti siamo invidiosi di Rocco Siffredi e questo documentario in cui si racconta farà in modo che lo invideremo ancora di più.
Rocco ha un puto fisso nella vita. Il sesso.
Così ha deciso di non mascherarlo e di basare tutta la sua vita su quello, facendo film porno e andandone orgoglioso senza nasconderlo pur con qualche pensiero riguardo alla moglie e alla crecita e il rapporto con il figlio.
Per il resto si è divertito portando a letto più di tremila donne e arrivando alla sua età con un fisico e una salute di tutto rispetto.
Il documentario funziona a tratti, alla regia abbiano una coppia di francesi che scelgono il taglio giusto per quanto concerne la messa in scena e le interviste, sondando però solo in piccole analisi o commenti lo squallore di tutto il mercato e l'industria che c'è dietro.
Spesso si pensa che le ragazze soprattutto straniere accettino per problemi di denaro e povertà. Sicuramente in alcuni casi è così ma parte delle interviste mostrano che tante di loro vogliano far sesso e amino le situazioni più bizzarre scegliendo ognuna una propria particolarità o perversione che più le aggrada.
Rocco si racconta, la famiglia, la madre, la morte del fratello, il cugino che si è sempre portato dietro e che vive come un'ombra, arrivando però così anche al limite più forte della docu-fiction.
Rocco si racconta mentre a tacere sono purtroppo i tanti che popolano la sua vita dalla moglie ai figli con cui si vedono solo attimi di pause ludiche senza peraltro dialoghi.
Il disagio alla fine per quanto la star cerchi di non farlo trapelare è come una maschera indossata da ogni attore sociale o che lavora in rete in questa consumazione di corpi che sembra un grido agonizzante di chi cerca di salvarsi da un futuro che non sembra concedere a chi non è così famoso spazi o possibilità di redenzione.

My friend Dahmer


Titolo: My friend Dahmer
Regia: Marc Meyers
Anno: 2017
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Tratto dalla graphic novel di John "Derf" Backderf. La storia, ambientata negli anni Settanta in una periferia, racconta la vita del serial killer Jeffrey Dahmer, da quando era un timido e rispettabile dodicenne fino al giorno in cui uccise la sua prima vittima, due settimane dopo la fine delle superiori. Il fumetto è raccontato dal punto di vista del suo migliore amico, Backderf, un vignettista politico nominato due volte per l'Eisner Award e vincitore del Robert F. Kennedy Journalism Award.

Marc Meyers è un nome che già potrebbe far paura. Per il suo secondo film passato in sordina, il regista ha scelto una storia che già potrebbe far storcere il naso.
Le biografie e i biopic sui serial killer sono materia saccheggiata dal cinema.
In questo caso la domanda da fare a Meyers potrebbe essere quella del perchè un personaggio come Dahmer diventato poi il cannibale che tutti conosciamo, dovrebbe interessare soprattutto nel periodo adolescenziale (quello in cui non ha commesso omicidi) quando stava cercando di capire cosa non andasse in lui (o meglio prima che lo scoprissero quelli attorno a lui).
Forse uno dei perchè potrebbe essere l'arco di tempo che il regista decide di raccontare ovvero il prima dei fatti un po come Zombie che racconta lo stesso Meyers nel remake o prequel di Halloween 2(2009).
Ne esce un film tutto sommato guardabile con delle belle prove attoriali soprattutto nell'autenticità del protagonista quando per attirare l'attenzione comincia a comportarsi come un autistico e nello strano e macchinoso rapporto con il gruppo di amici che poi è il pubblico che fa la sua conoscenza e piano piano si rende conto che c'è qualcosa che non va.
Le scene violente nel film sono quasi inesistenti così come il sangue e tutto il resto, ma l'atmosfera ovvero quella sensazione terribile di cosa si nasconda nella mente del ragazzo, è tangibile e in questo bisogna dar atto al regista di aver fatto un discreto lavoro.






martedì 5 dicembre 2017

Goonga Pehelwan

Titolo: Goonga Pehelwan
Regia: Vivek Chaudhary and Prateek Gupta
Anno: 2013
Paese: India
Festival: Divine Queer Film Festival
Giudizio: 4/5

Un documentario che segue l’atleta sordo più bravo dell’India sulla sua improbabile ricerca per raggiungere le Olimpiadi di Rio 2016 e diventa il secondo lottatore sordo nella storia delle Olimpiadi a farlo.

Davvero sorprendente questo mediometraggio indiano.
Il wrestler muto Virender Singh Yadav a parte essere un attore nato e una persona che buca la quarta parete mostrando la sua semplicità, la sua voglia di vivere e soprattutto il suo straordinario talento da lottatore. Virender però è sordo.
Proprio questo "limite" lo porta all'interno di questo documentario ad analizzare le cause per le quali l'atleta non ha mai potuto partecipare alle Olimpiadi per i normododati mentre invece ha solo partecpato alle Paraolimpiadi. Il perchè dal puto di vista burocratico è che l'atleta non sentendo il suono del fischietto non può competere. L'altra versione è che Virender è così forte che avrebbe sicuramente battuto gli atleti normodtati e questa particolarità forse non era ben accetta dal comitato olimpico.
Ancora una volta vengono analizzate diverse tematiche tra cui le disparità di trattamento e le opportunità o gli svantaggi che gli atleti disabili hanno ricevuto dal governo e dalla società.
Virender con il suo appello chiede e vorrebbe giustamente un cambiamento che ossa giovare e sostenere gli atleti disabili attraverso l'inclusione e a vincita di premi in denaro.
L'ispirazione alla base di questo documentario era un articolo di giornale che uno dei registi, Vivek Chaudhary, aveva letto. L'articolo parlava di Virender Singh, un wrestler sordo e muto che, nonostante fosse un Campione del Mondo e Deaflympics Gold Medalist tra le altre cose, non è riconosciuto e non è celebrato dal Paese e dal Governo. Il sogno più grande di Virender e uno degli obbiettivi del documentario è quello di raccogliere supporto e rendere possibile il desiderio di Virender Singh di rappresentare l'India alle Olimpiadi di Rio 2016 possa esaudirsi. Speriamo!


Sunday

Titolo: Sunday
Regia: Danilo Curro
Anno: 2016
Paese: Italia
Festival: Divine Queer Film Festival
Giudizio: 3/5

Fasasi Sunday lascia la sua casa, la Nigeria, perché non è più possibile per lui, come per molti altri, restarci.

In collaborazione con Lavori In Corto – Torino, il corto in concorso al festival di '23 racconta in un'intervista biografica il drammatico esodo di Fasasi Sunday in Italia. La sua testimonianza diventa lo specchio allargato di una barbarie che non accenna a finire, sempre dilaniato da scontri a sfondo religioso, dove spesso dopo l'omicio del padre, il figlio maschio diventa il capro espiatorio e per questo è costretto a scappare lasciando la madre e le sorelle.
A sfondo nero ma intervallato in location diverse, con gli amici, su un barcone, per le strade, Fasasi riesce anche a sorridere e a far capire quanto la voglia di vivere possa condizionare e far superare ostacoli che sembrano insormontabili.

Prodotto da Gabriele Muccino.

mercoledì 11 ottobre 2017

Leatherface


Titolo: Leatherface
Regia: Alexandre Bustillo, Julien Maury
Anno: 2017
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Texas, 1955: la famiglia Sawyer, dedita a omicidi e atti di cannibalismo, uccide la figlia del poliziotto Hal Hartman. Non avendo prove contro la matriarca Verna e i suoi complici, Hartman si vendica facendo internare il più giovane della famiglia, Jedediah detto Jed, da poco iniziato alle tradizioni ancestrali. Dieci anni dopo, quattro giovani mentalmente instabili - tre ragazzi e una ragazza - evadono dopo aver preso in ostaggio un'infermiera, e Hartman li insegue. Ma chi dei tre ragazzi, i cui nomi sono stati cambiati per proteggerli dalle famiglie violente a cui furono sottratti, è quello destinato a divenire il temibile Leatherface?

La coppia di registi francesi ultimamente sembrava aver perso qualche cartuccia per strada. Sinceramente ho amato anche i loro ultimi film in particolare Aux Yeux des Vivants seppur aveva quel qualcosa in meno nella trama e nella consistenza. Tuttavia rimangono tra gli outsider dell'horror post contemporaneo senza eccezioni.
Leatherface ne è una prova tangibile. Non amo i prequel e i sequel soprattutto negli ultimi anni quando sembrano baluardi disperati per una totale assenza di idee quando invece circolano abbondantemente in giro e basta saperle trovare, le idee.
In questo caso pur avendo un budget smisurato per i loro canoni, una produzione dietro tra cui figura anche Hooper e un cast internazionale dove spicca Lili Taylor. Per quanto concerne invece la messa in scena e i leitmotiv dell'azione questa volta la coppia di registi strizza l'occhio apertamente al buon Zombie riuscendo in tutta l'opera a passare da uno scenario all'altro senza mai abbassare il ritmo e l'atmosfera. Una missione difficile in cui la sceneggiatura è attenta e monta una buona impalcatura soprattutto per quanto concerne la mistery di chi sarà il serial killer (a metà film diventa comunque abbastanza chiaro).
Viaggio di formazione, tradizioni ancestrali, rednek a profusione, manicomio ed evasione, sceriffi e direttori istituzionali ancora più crudeli degli stessi bifolchi e più di una scelta non convenzionale fanno del prequel di NON APRITE QUELLA PORTA un tassello interessante e significativo pur facendo parte e aderendo alle regole di una saga.
Tra l'altro Leatherface è arrivato nelle sale poco dopo la morte dello stesso Hooper autore del primo cult e finora uno dei massimi esempi del cinema horror americano.
Una saga sfortunata che tra sequel e capitoli in 3d sembrava aver trovato la propria rovina ma che ora almeno è stata data in mano a gente seria che ama il cinema di genere e crea tanto materiale da raccontare e da sviluppare che diventa il mordente principale del film. Tra l'altro si tratta dell'ottavo film della saga.

martedì 16 maggio 2017

Più forte del mondo

Titolo: Più forte del mondo
Regia: Alfonso Poyart
Anno: 2016
Paese: Brasile
Giudizio: 3/5

La storia del lottatore José Aldo, che mentre mira a diventare campione di arti marziali deve affrontare i propri demoni dovuti a un'infanzia difficile.

Mais Forte que o Mundo è un film drammatico, biografico e solo alla fine un film sulle arti marziali, le cosiddette Mma che negli ultimi anni stanno portando diversi prodotti nelle sale e un certo fascino da parte dei fan che possono ammirare i combattimenti senza esclusione di colpi nella gabbia. La prima impressione guardando il film è di una certa confusione nell'arco in cui si concentra la vicenda mostrando uno spaccato di vita di Aldo ma senza rifletterne e coglierne alcune battute soprattutto per quanto concerne alcune sue vicende personali. E'un film di formazione ma anche di redenzione e di riscatto in un paese in cui è difficilissimo emergere soprattutto nelle discipline marziali.
Prima di passare però al Brazilian Jiu-Jitsu e poi al Vale tudo, Poyart disegna la storia della vita del lottatore diviso tra speranze e una sua missione personale che ne segna obbiettivi e intenti del personaggio motivato e condizionato a portare a termine il suo piano.
La prima parte mostra delle location bellissime portandoci dentro i villaggi e facendoci ballare con l'atmosfera di festa che sembra in molti momenti condizionare la vita dei personaggi e di una prima parte del film appunto più legata all'ambiente e meno agli spazi asettici e i ring dove avverranno gli incontri.
Poyart sembra cercare di mostrare le paure e i compromessi proprio nel momento in cui Josè Aldo sale sul ring e decide di essere il numero uno senza abbassare mai lo sguardo diventando un'animale nel vero senso della parola pur finendo la sua carriera appunto in una mission educativa e di redenzione che sembra spesso una vicenda nota per alcuni lottatori o sportivi particolarmente talentuosi.
I combattimenti sono girati bene senza avere quei guizzi di regia che gli Stati Uniti e l'Oriente ormai padroneggia con una rigorosa e straordinaria messa in scena.

E'una storia che ancora una volta ci racconta il difficile percorso di un giovane ragazzino delle favelas con un sogno nel cassetto, una famiglia povera e tanta voglia di essere il numero uno.  

lunedì 1 maggio 2017

Dark Horse

Titolo: Dark Horse
Regia: James Napier Robertson
Anno: 2014
Paese: Nuova Zelanda
Giudizio: 3/5

Ex campione maori di scacchi, Genesis Poltini è alla ricerca di una vita che rifletta la verità del gioco che adora. Convivendo con un disturbo bipolare, Genesis deve superare pregiudizi e violenza per salvare il suo club di scacchi in difficoltà, la sua famiglia e anche se stesso.

Sono pochi i film che parlano di scacchi soprattutto quando dietro c'è una storia di formazione e redenzione.
Gli scacchi possono insegnare molto e sicuramente necessitano di regole, precisione, attenzione e strategia. Un tema del genere ambientato in Nuova Zelanda con protagonisti un manipolo di ragazzini che devono partecipare ad un prestigioso torneo e il loro mentore, un ex campione con disturbi psichiatrici, sono solo alcuni degli ingredienti dell'opera prima del giovane regista. Possiamo aggiungere il passato che torna, le faide famigliari e il peso delle gang in sotto culture come queste, finendo per avere tanti elementi che ne fanno una buona storia in questo indipendente film che da noi è passato in sordina solo in alcuni festival. In più il film è tratto da eventi reali contando che questo Genesis ha passato tutta la vita ad insegnare le regole degli scacchi ai ragazzi.
Cliff Curtis è un veterano dei film, sempre costretto in ruoli minori e infatti in questa deliziosa prova da protagonista affetto da disturbo bipolare.
Dark Horse, da non confondere con il film di Solondz, in tutti i momenti in cui non si prende sul serio diventa un film meraviglioso mentre nei momenti decisivi mostra il suo lato melanconico e il bisogno di trovare un lieto fine a tutti i costi risolvendo alcune vicende peraltro in maniera troppo frettolosa (come le sorti di Mana e la gang) oppure nella scelta scontata della vittoria del torneo.
A parte l'ottimismo di risolvere e migliorare ogni sotto storia presente nel film, Robertson ha creduto fino in fondo in un film che entra a tutti gli effetti nella rassegna di quelle opere indie semi sconosciute e di un regista che se curerà meglio alcuni aspetti presto potrà essere chiamato autore.



venerdì 10 febbraio 2017

David Bowie-The last five years

Titolo: David Bowie-The last five years
Regia: Francis Whately
Anno: 2017
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Tramite le interviste ad alcuni dei più vicini collaboratori del musicista, “David Bowie: The Last Five Years” si pone l’obiettivo di tracciare un ritratto inedito che racconti il suo lato più intimo e umano, oltre ad un tipo di coerenza presente in tutta la sua carriera ma forse non così facilmente individuabile, viste la tante trasformazioni e i tanti personaggi scelti da Bowie nei suoi album.

Un documentario su David Bowie merita di essere visto per chi ha amato il poliedrico artista.
Un documentario però dovrebbe anche essere coerente con il titolo e concentrare l'arco della narrazione solo sugli ultimi anni della vita dell'artista e soprattutto il diario, di chi era con lui soprattutto, dell'ultimo infinito e importante tour dell'artista.
Una personalità multisfaccettata che non ha bisogno di presentazioni ma una cosa mi ha lasciato basito ed è la profonda umiltà e il suo coraggio.
Bowie ha sempre fatto quello che gli pare ottendendo lo stesso successo.
Questo deve (dovrebbe) essere d'insegnamento per le nuove generazioni. Non so se fosse uno dei suoi obbiettivi, di fatto non lo pronuncia mai, ma è quanto emerge da tanti suoi discorsi.
Il documentario dunque approfondisce la realizzazione degli ultimi due dischi “Blackstar” e “The Next Day” e del musical “Lazarus”. Nel racconto e nelle interviste inedite dei suoi collaboratori, scopriamo un'intimità e un'umanità che il Duca ha sempre in un certo qual modo nascosto o meglio non spiattellato così ai media, facendo custodia di un importante elemento ovvero di come sia importante la privacy e la serietà nel proprio lavoro.
E poi ovviamente la musica, i video dei primissimi anni e le sue performance fanno e dicono tutto il resto.


giovedì 22 dicembre 2016

White Lightnin

Titolo: White Lightnin
Regia: Dominic Murhpy
Anno: 2009
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Nel cuore delle montagne Appalachian in West Virgnia, dove ogni uomo possiede una pistola e una distilleria di liquori, si tollera la leggenda vivente Jesco White. Da giovane Jesco andava avanti e indietro dal riformatorio al manicomio. Per tenerlo fuori dai guai, suo padre D-Ray gli ha insegnato l'arte della danza di montagna, una versione frenetica del tip tap con la musica country suonato col banjo. Dopo la morte di suo padre, il pazzo Jesco prende le scarpe da tip tap di suo padre e porta il suo show per la strada.

La storia di The Dancing Outlaw, il ballerino fuorilegge è una ballata travolgente e disperata.
Un viaggio nella violenza pura, di una mente deviata, instabile e complessa e di un percorso di redenzione anomalo e senza nessuna concessione.
Una vita di eccessi di droga, alcool, di autodistruzione, di un biologico benessere nella ricerca dello sballo e delle sostanze. C'è tanta musica, ritmo, un montaggio veloce e perfettamente scandito.
Una prima parte fra gli hillbillies che popolano le zone più arretrate e degradate degli Appalachi dove si vive tutti assieme e dove l'ambiente ricorda a tutti gli effetti le carovane dei bifolchi.
Una comunità dove il giovane Jesco intuisce subito, come d'altronde suo padre, quale sarà il suo destino.
Macabro, grottesco, è riuscito in diversi momenti a ricordarmi un altro film folle, BAD BOY BUBBY, il quale puntava più sul disturbo psichiatrico e il suo impatto sulla società rispetto all'esordio di Murphy dove Jesco è un pazzo almeno fino a quando non incontra l'amore e soprattutto quando tutto rischia di degenerare ancor più dopo la misteriosa morte del padre.
Lo squallore (umano ed estetico) che regna nella pellicola disturba, lascia nauseati e straniati. Funzionale a questo punto la scelta registica di puntare su un b/n che sbiadisce i colori più chiari e crea un’atmosfera ora raffinata ora sordida ora laida e sozza.

Un film che seppur non dichiaratamente un horror e un biopic rientra prendendo registi e stilemi del genere diventando un'opera sconosciuta e assurda, un debutto trascendentale che seppure un flop al botteghino, spero faccia resuscitare dalle ceneri Dominic Murphy per il quale nutro profonda stima.

martedì 13 dicembre 2016

Solengo

Titolo: Solengo
Regia: Alessio Rigo De Righi, Matteo Zoppis
Anno: 2015
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

In una località di campagna un gruppo di anziani evoca la vita di Mario de Marcella, un eremita che viveva nei boschi circostanti. Le vivaci discussioni che seguono sono spesso contrastanti. L’eremita, noto come “il solengo” il cinghiale solitario, ha deciso di vivere fuori dal branco.

Il solengo è da tutti paragonato al maschio del cinghiale che vive lontano dal gruppo in solitario.
Ed è proprio così. Mario è un uomo difficile, diffidente e scontroso che preferisce le bestie alle persone e non ama interagire con gli altri. Gli secca pure di salutare le persone e infatti non lo fa, attirando ire e sguardi diffidenti. E'interessante scoprire che esistono persone che decidono di vivere nella società e allo stesso tempo fuori dalla società. La coppia di registi italo-americana continua una ricerca grazie al documentario (tra l'altro vincitore come miglior documentario del TFF 32) in spazi e luoghi desolati come in questo caso la Tuscia, una zona un tempo popolata dagli Etruschi.
E proprio questa incantevole e ostica location, una terra senza tempo, arcaica e primitiva che sembra piano piano scomparire come coloro che la abitano, contadini e cacciatori sempre in gruppo e sempre a testimoniare la loro diffidenza con i forestieri pensando invece al Solengo come un tipo diverso e forse solo un po strambo.
Tutti dicono di aver visto e sentito storie come nella profetica battuta detta durante tutto il mockumentary da quasi tutte le comparse“così dicono, eh, io non lo so”
Figlio di fattucchiera che annunciava apocalissi, forse assassina forse no, la madre di Mario aveva ucciso il padre in un raptus perché questi era sempre ubriaco. Il bambino sembra forse nato in carcere dove la madre scontava la pena o comunque cresciuto in quell’ambiente nei suoi primi anni di vita, scorbutico e anche violento, asociale, ora folle ora incompreso, più a suo agio con la natura che con i suoi simili, sembra addirittura essere stato un figlio illegittimo.
La complessità dell'infanzia, dei traumi e dei ricordi, la gravidanza non voluta, la vita solitaria, l'amore per la natura e tanto altro ancora sono gli strumenti per cercare di comprendere la natura selvaggia e misteriosa di Mario de Marcella.



domenica 11 dicembre 2016

Wind(2016)

Titolo: Wind(2016)
Regia: Saw Tiong Guan
Anno: 2016
Paese: Cina
Festival: TFF 34°
Sezione: Festa Mobile
Giudizio: 3/5

Christopher Doyle ha condotto un’esistenza a dir poco straordinaria: dopo aver lasciato i deserti australiani per l’oceano, ha viaggiato in tutto il mondo, lavorato come marinaio e scavatore di pozzi e vissuto in un kibbutz. Una vita avventurosa, che l’ha portato a Taiwan, dove, infine, a trentadue anni, ha imbracciato per la prima volta una macchina da presa, divenendo uno dei direttori della fotografia più noti e apprezzati del cinema contemporaneo, collaboratore di registi come Wong Kar-wai, Gus Van Sant, James Ivory e Neil Jordan. In questo film racconta la sua vita seduto di fronte all’obiettivo, fra ricordi, immagini e riflessioni.

Christopher Doyle è un artista poliedrico ed eccentrico.
Il premio vinto e consegnatoli al TFF 34° ha incorniciato un personaggio molto umile e divertente. La sua performance e le sue parole sono state caldamente apprezzate assieme al suo bisogno di parlare e dare valore alla settima arte. Il suo cinema e la sua professionalità come direttore della fotografia nasce da autodidatta da chi non ha tutto pronto ma si lascia immergere nelle scene trovando il punto giusto e la prospettiva dove inserirsi. Ha detto molto nella sua intervista Doyle, partendo dal potere della Cina che ci domina già tutti, delle nuove tecniche digitali, del suo amore per le droghe e l'alcool e per la sua straordinaria e assetata curiosità e voglia di scoprire.
A fare da sfondo una spiaggia, acqua, onde e scogli, il tutto frammentato come i ricordi del regista che si alternano in un b/n suggestivo e funzionale.


sabato 10 settembre 2016

Roman Polanski-A film memoir

Titolo: Roman Polanski-A film memoir
Regia: Laurent Bouzereau
Anno: 2012
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Era da tanto che aspettavo questa intervista.
Polanski oltre ad essere uno dei registi più importanti e interessanti della sua generazione è prima di tutto un uomo e un personaggio che ne ha passate davvero tante nella sua vita. Nel bene ma soprattutto nel male. Dunque un'intervista documentario era un'occasione troppo interessante per qualsiasi cinefilo interessato finalmente a saperne di più dal momento che il regista non aveva quasi mai rilasciato interviste e che decide di raccontarsi di fronte all'amico e produttore Andrew Brausenberg.
Il nazismo, la madre ad Auschwitz, la donna uccisa davanti agli occhi di Roman bambino - immobile di fronte al sangue che zampillava come da una fontanella, la deportazione del padre a Mathausen, la famiglia Manson e Sharon Tate e per finire la corruzione di una minorenne (consenziente) nel '77 che diede origine a una vera e propria persecuzione giuridica per la quale dopo la fuga dagli Stati Uniti in Europa si è arrivati all'arresto del regista nel 2009 in Svizzera.
Tra sorrisi, lacrime, emozioni e timidezza, Roman mostra un insolito coraggio e soprattutto rende chiaro un concetto che è quello di rialzarsi e non arrendersi mai.
Il cinema allora come per molti registi diventa un'ancora di salvezza attraverso cui raccontare la proria storia e le proprie vicissitudini, imparando e allo stesso tempo sbagliando, ma con l'obbiettivo di raccontare soprattutto nel caso in questione, di stupire e rimanere in alcuni casi anche scioccati.

Una vita che per fortuna o forse per stessa ammissione del regista non è mai stata banale e monocorde ma anzi struggente e piena di colpi di scena così come la descrizione del male che sottace ferino nell'individuo non è solo un leit motiv cinematografico, ma una infelice condizione personale.  

domenica 22 maggio 2016

Ip Man 3

Titolo: Ip Man 3
Regia: Wilson Yip
Anno: 2015
Paese: Cina
Giudizio: 3/5

Hong Kong 1959, la scuola frequentata dal figlio di Ip Man, maestro di arti marziali, è nel mirino di una gang che vuole rilevarne il terreno. Ip raccoglie i suoi discepoli e un guidatore di risciò che conosce il wing chun, Cheung Tin-chi, per fronteggiare i delinquenti e salvaguardare la scuola. Lo scontro porterà a un escalation di violenza, ma Ip Man oltre a questi problemi ne dovrà affrontare anche di familiari, gravi e inaspettati.

Ip Man 3 è un buon film con uno stile tecnico davvero iperstilizzato. Una regia solida che firma il terzo capitolo e l'attore più pagato della Cina, Donnie Yen, ancora una volta a vestire i panni del sommo maestro del Wing chun Ip man.
Qual'è il problema di questo terzo capitolo se non la completa inutilità di una storia che al termine del secondo capitolo aveva esaurito tutte le principali tematiche e i problemi con le scuole, i maestri rivali, la criminalità e la corruzione. Ragioni prettamente commerciali per un film che al botteghino ha davvero incassato molto. Questa trama sembra voler rimanere ancorata con i piedi a terra imbastendo delle coreografie e delle scenografie incredibili ma andando in alcuni momenti fuori dai binari come l'ingresso di Mike Tyson che poco si presta se non per creare interesse con il risultato di metterlo in imbarazzo per la goffaggine e l'inutilità del personaggio.
I combattimenti poi non sono molti rispetto ai precedenti pur avendo sempre in cattedra il grande Yuen Wo-ping e la presenza anche se per soli cinque minuti di Bruce Lee giovane crea uno smisurato interesse da parte dei fan di arti marziali.
La nota positiva è mostrare Lee per come era. Un tamarro che faceva andare via gli allievi dalla scuola per avere tutto per sè il maestro e imparare più velocemente.
Qui in questa modestissima scena in cui compare si prende solo un sonoro "no" alla richiesta di entrare a far parte della scuola di Ip Man.

Dunque pur avendo la sceneggiatura come anello debole e sperando che sia il capitolo conclusivo (ma la vedo dura) alla fine Ip Man 3 pur essendo narrativamente inutile risulta visivamente davvvero piacevole e ben realizzato.

domenica 24 aprile 2016

Love and Marcy

Titolo: Love and Marcy
Regia: Bill Pohlad
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Melinda lavora in una concessionaria di auto. Un giorno incontra nello showroom un tipo strano che le viene presentato come Brian Wilson. L'uomo è stato il frontman nonché l'autore delle canzoni di uno dei gruppi più famosi in assoluto: i Beach Boys. I due iniziano a frequentarsi e la donna scopre così le ragioni del profondo disagio psichico che Brian sta vivendo. Hanno le loro radici in una gioventù difficile e, allo stato attuale, debbono confrontarsi con le devastanti terapie di uno psichiatra che ne è diventato il controllore assoluto.

Love and Marcy è un biopic sul leader dei Beach Boys.
A differenza di molti film, Pohlad sceglie di prendere lo stesso personaggio da giovane mentre scala le hit e confrontarlo con il medesimo sè, ormai colto da numerosi problemi derivati dall'abuso di sostanze.
Se nel Dano che ricopre la parte giovane si coglie l'estro e una sorta di mente che altri non era che un piccolo precursore del rock, l'interpretazione dell'attore riesce nello stesso tempo a trasformare quelle insicurezze e le crisi della star con naturalezza e complessità. Allo stesso tempo un confronto con un trauma legato alle violenze domestiche e ad un rapporto con un padre rancoroso e violento.
"Mio padre era uno stronzo, ci trattava di merda e ci dava punizioni sadiche. Ma bastava suonargli qualcosa e diventava un pezzo di pane"
Cusack pensa a conferire fragilità a palate al Wilson ormai tramontato, quello che ormai nessuno saprebbe riconoscere ma che quando dice il suo nome lascia tutti basiti. Il rapporto tra lui e Melinda diventa un connubio di incertezze, di difficoltà e derive che colgono molti aspetti di come possa essere complesso cercare di affezzionarsi a quello che viene etichettato un malato, accompagnato ovunque dal suo psichiatra che lo redarguisce come un bambino di fronte alla sua amata.

Pohlad ha il merito di raccontare la non troppo rosea vita del leader e fondatore senza prendere spunto dal successo o dagli eccessi ma documentando gli aspetti complessi e variegati dell'artista e di chi entrava in contatto con lui.

lunedì 18 aprile 2016

End of the Tour

Titolo: End of the Tour
Regia: James Ponsoldt
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Il film porta al cinema un ritratto intimo e complesso dello scrittore David Foster Wallace, una delle stelle della letteratura americana e mondiale dei nostri anni, morto suicida il 12 settembre del 2008. Il libro di Lipsky, da cui il film è tratto, è la cronaca di cinque giorni da lui trascorsi assieme a DFW mentre era in giro per gli Stati Uniti per un tour di reading del suo "Infinite Jest"

"L'America è uno tsunami di roba che ti viene addosso"
Forse per apprezzare i discorsi di Wallace bisognerebbe prima leggere uno dei suoi libri.
Pur non avendolo fatto ho avuto il piacere di farmi un'idea con questo film e di assistere alle sue divagazioni, monologhi, critiche e osservazioni sulla società.
In realtà quello che Ponsoldt, veterano del Sundance, riesce a fare è ben più articolato e complesso.
Un personaggio interessante e particolare, per certi versi ambiguo, timido e solitario, che preferisce vivere con i cani che con le persone (e non è certo l'unico).
Segel riesce a dare un ritratto di Wallace molto intenso, rubando in più riprese la scena al giornalista Eisenberg, un altro attore che sta riscuotendo molto successo.
Un road movie sulla memoria e i ricordi dello scrittore che con un umiltà spaventosa, crea una sorta di confidenza importante con Lipsky fin da subito, mettendolo e mettendosi in crisi solo nei momenti in cui entrambi hanno a che fare con l'esterno, con delle donne e in cui non rimangono soli in una sorta di limbo a dare spazio all'intervista.
Un intervista che alla fine dei conti smette di essere tale, condensata in cinque giorni di frequentazione, amicizia e un intensa dialettica.
Proprio l'intervista di nuovo vacilla per scandagliare tematiche e questioni più interessanti spaziando tra concetti esistenziali, sociali, culturali, religiosi e politici di ciascuno dei due.



giovedì 24 marzo 2016

Legend(2015)

Titolo: Legend(2015)
Regia: Brian Helgeland
Anno: 2015
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 2/5

Nell'East End londinese degli anni Sessanta nessun criminale era più temuto e più ammirato dei gemelli Krays. Reginald, detto Reggie, era attraente, elegante, e dotato di un grande senso degli affari. Ronald, detto Ronnie, era "sanguinario e irrazionale", uno psicopatico con tendenze schizofreniche. Il loro rapporto veniva spesso descritto come complementare, ma Legend, scritto e diretto da Brian Helgeland, preferisce esaminarlo attraverso l'ottica dottor Jekyill/Mr. Hyde. Ronnie infatti viene dipinto come la parte animalesca e istintiva che Reggie cerca disperatamente di tenere sotto controllo, senza mai riuscire a liberarsene. Ma nella sua follia Ronnie è più onesto con se stesso e con gli altri - anche nell'affermare apertamente le sue preferenze omosessuali - e più abile nell'afferrare le conseguenze di lungo termine delle azioni e delle scelte del fratello.

Il problema di Legend è negli intenti e nella sua furba mossa commerciale che in un modo o nell'altro il film paga a caro prezzo. Quando si cerca di sfruttare troppo la nomea di un attore che sta vivendo un momento d'oro, si rischia di esagerare scommettendo troppo su di lui senza dare la principale importanza al motore del film ovvero la narrazione.
Hardy è un attore più che altro fisico che riesce a conquistare il pubblico in quasi tutti i suoi film.
In questo, per assurdo, in cui viene addirittura sdoppiato. Sono troppi gli eccessi a cui il film si affida, troppo il bisogno di creare l'ennesimo gangster-movie senza avere quell'acume nella sceneggiatura. Come per BLACK MASS affidato anch'esso ad un attore, il rischio è dietro l'angolo.
Helgeland è un mestierante a cui piace molto l'action, risultando uno dei tanti che tende ad un eccessiva edulcorazione dei fatti, nello specifico su una coppia di fratelli quanto mai sconosciuta.
Legend poi è troppo patinato, tutto sembra funzionare in modo troppo meccanico senza mai un vero colpo di scena. Il british humor non spicca mai e i gangster o una storia che sembra almeno assomigliarci dista anni luce.


lunedì 22 febbraio 2016

Joy

Titolo: Joy
Regia: David O.Russel
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Joy è una Cenerentola moderna: sogna un principe, ha una sorellastra che non perde occasione per denigrarla, e passa gran parte della giornata con le ginocchia a terra, a passare lo straccio sul pavimento. Sarà proprio il brevetto di un mocio a portarla dalle stalle alle stelle, ma la strada sarà tutta in salita, costellata di tradimenti, delusioni e umiliazioni, un po' come nelle soap opera che la madre, malata immaginaria, guarda giorno e notte, confondendo il sonno di Joy e annullando il confine tra fantasia e realtà.

Ancora non mi è chiaro il tipo di cinema di David O.Russel e non capisco se mi piace o meno.
Sicuramente Joy non sceglie un soggetto facile e il rischio che il film diventi noioso è forse la critica maggiore che è stata rivolta alla pellicola. I film biografici poi non sono facili soprattutto quando ci propinano i melò familiari e l'odissea familiare, televisiva e infine legale di una donna che ha inventato di fatto una scopa.
L'ultimo film di Russel è un caos totale all'interno di una favola moderna che non sembra concludersi mai. Anche se la Lawrence è molto brava nel far sentire ogni singolo sentimento della protagonista, non riesce da sola a fare i miracoli.

L'ultimo nucleo familiare su cui si struttura il film parte bene, ma non va oltre, spegnendosi minuto dopo minuto rimanendo come un coro greco però con un ruolo passivo, una giuria che cerca di misurare le delusioni e umiliazioni della loro piccola Joy senza riuscire di fatto ad aiutarla.

venerdì 29 gennaio 2016

Danish Girl

Titolo: Danish Girl
Regia: Tom Hooper
Anno: 2015
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Pittore paesaggista della Danimarca dei primi anni del '900 Einar Wegener ha vissuto due vite, la prima con una moglie a Copenhagen, e la seconda a Parigi come Lili Elbe. Infine ha tentato la prima operazione chirurgica della storia finalizzata al cambio di sesso. Attratto dall'abbigliamento femminile dopo un gioco erotico con la moglie e sempre meno capace di smettere di vestirsi e atteggiarsi da donna, nel corso di diversi anni Einar vuole lasciare il posto a Lili, che percepisce come un'entità separata. Aiutato e supportato attraverso molte difficoltà da una moglie da cui è sempre meno attratto, Einar fugge dalla medicina del proprio tempo che lo vuole internare o dichiarare schizofrenico e si rifugia nella chirurgia sperimentale, conscio che quella che intende provare è un'operazione mai tentata prima e dai rischi immani.

"Ogni artista è formato dalle storie che racconta"
E'difficile a volte esprimere un giudizio su una pellicola quando i nobili intenti che si nascondono dietro diventano ancora più importanti della messa in scena.
Come in questo caso trattasi del pittore danese, pioniere del transgender che da Copenaghen arriva fino a Dresda per coronare il sogno di diventare donna.
E'un film elegante, soffice e lieve, che pur trattando un argomento che avrebbe potuto essere esaminato in modo più sconvolgente ne coglie i riflessi morbidi e le pulsioni del suo timido protagonista, intrappolato per metà film, riuscendo a fare uno sforzo in cui lui (Einar) diventa libero mentre lei (Lili) è prigioniera della sofferenza.
Con un cast efficace su cui svetta l'interpretazione del giovane Eddie Redmayne e la bellissima Alicia Vikander, Hooper compattta tutto facendo di un'unica anima fotografia pittorica, scenografia e costumi. E'una storia di trasformazione e carne, di doppi e di conoscenza della propria persona, senza mai eccedere in una storia che poteva essere trattata in modo turbolento e bestiale trattando di corpi, amori e trasformazioni.

Danish Girl è un film appassionante, coinvolgente, triste e malinconico che si chiude nel modo più astuto possibile e lasciando vari livelli di lettura.

domenica 3 gennaio 2016

Mr Holmes

Titolo: Mr Holmes
Regia: Bill Condon
Anno: 2015
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Ritiratosi da tempo in una casa di campagna e abbandonata ormai la professione, Sherlock Holmes è un anziano che lotta con la perdita di memoria e le difficoltà di una vita senile. C'è però ancora qualcosa che deve scoprire, un dettaglio nella sua memoria che non riesce a mettere a fuoco, relativo alla maniera in cui ha chiuso la sua carriera. Un disastro con le api della sua coltivazione, un non ben chiaro viaggio in Giappone e il rapporto con la donna che bada alla casa e il suo bambino, condiscono questa ricerca privata.

Mr Holmes è un film che non eccelle proprio dove dovrebbe ovvero nell'indagine.
Crea diverse sottotrame, forse troppe, perdendosi a volte nei meandri e nella perdita della memoria del suo protagonista.
Condon inoltre è un regista che non ammiro soprattutto per le scelte e per essersi inchinato di fronte alle major e alle grandi produzioni cinematografiche.
Però la descrizione sull'investigatore tra i più famosi della storia, smarcandosi da tutte le stronzate che hanno descritto Holmes nei modi più disparati, ne da forse il quadro più veritiero o meglio crea quel pathos con il personaggio che in tanti film mancava.
Una critica di cinema ha scritto una grande verità sul film.
"Sherlock Holmes può non avere mai camminato sulla terra, ma il film lo umanizza a tal punto che esci dal cinema praticamente convinto di aver appena visto un film biografico"
D'altro canto chi se non un mostro di bravura che più british non si può, poteva fare suo un personaggio come questo. Ian Mc Kellen si supera, complice l'età e le rughe che lo trasformano continuamente.
La parte poi del confronto con il ragazzino Roger e tutti i dialoghi e la loro complicità è semplicemente meravigliosa.

Inoltre lo Sherlock Holmes di Bill Condon viene dal romanzo "A slight trick of the mind" di Mitch Cullin, che ne da una descrizione profondamente diversa dal momento che non ha mai portato il caratteristico berretto che conosciamo, non fuma la pipa ma preferisce le sigarette e, ormai anziano, non sopporta di vedere se stesso nelle molte versioni per il cinema, piene di bugie; non è insomma lo Sherlock dei racconti di Watson ma uno più terra terra e questo è un elemento che rafforza lo spirito della narrazione, con alcune pecche ma almeno originale.