Visualizzazione post con etichetta Berlino. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Berlino. Mostra tutti i post

martedì 20 marzo 2018

Sami Blood


Titolo: Sami Blood
Regia: Amanda Kernell
Anno: 2016
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Elle Marja ha 14 anni ma sa già di non voler seguire le tracce della famiglia. Figlia di allevatori di renne della comunità Sami nell'estremo nord svedese, la ragazzina è vittima della discriminazione etnica degli anni '30. Sottoposta alla certificazione della razza per frequentare la scuola riservata solo ai Sami, Elle Marja sogna una vita migliore in cui non sentirsi più diversa. Così, inizia a farsi chiamare Christina, a parlare svedese, trasferirsi in città, allontanandosi sempre più dalla sua famiglia e dalla cultura della sua gente.

Sami Blood è un istant cult. Uno di quei film indipendenti e di rara bellezza che ti rapisce fin da subito per traghettarti verso dei luoghi sconosciuti e ameni di quelli che forse non vedrai mai nella vita ma che almeno vuoi scoprire grazie al cinema.
Un film antropologicamente molto importante che da la possibilità di parlare di un fenomeno che almeno in Svezia ha fatto discutere molto. Sami Blood ci da la possibilità di conoscere una popolazione quella dei Sami (indigeni lapponi) e di scoprire come la discriminazione etnica è un tema presente in tutto il mondo pure nella parte europea più estrema.
Un flash back lunghissimo per un viaggio della memoria che racconta molto più di quello che sembra senza doversi arrovellare dietro troppi dialoghi ma lasciando spesso in risalto le espressioni dure e sofferte di alcune attrici scelte alla perfezione che riescono a dare il giusto risalto soltanto mostrando le loro cicatrici di vita.
Sami Blood è un'altra se vogliamo metafora del western, uno scontro, quello che il cinema non smette mai di fare, tra wilderness e civilisation.
Bisogna ricordare che nel 1909 fu fondata a Stoccolma la Società Svedese per l’Igiene razziale che, basandosi su analisi di tipo antropologico positivistico, identificava nella minoranza etnica Sami (a noi più comunemente nota come lappone) una razza inferiore. I Sami furono relegati da una parte in confini ben precisi, furono sottoposti dall’altra a processi di ‘svedesizzazione’ forzata, orientati all’annientamento della loro cultura tradizionale. Chi tra i Sami volesse integrarsi acquistando o affittando terreni agricoli o proseguendo l’elementare istruzione offerta loro (tagliata espressamente per le loro presunte limitate capacità), era costretto a cambiare identità, assumendo un nome svedese. Contemporaneamente coloni svedesi furono incentivati in vari modi a spostarsi in territorio sami, sempre nell’ottica di una violenta compressione di questa minoranza. Una legge per la selezione della razza (1935) portò addirittura alla sterilizzazione forzata di migliaia di Sami. Orrori di cui sappiamo poco o niente.



mercoledì 20 dicembre 2017

Casting

Titolo: Casting
Regia: Nicolas Wackerbarth
Anno: 2017
Paese: Germania
Festival: 35°Torino film Festival
Giudizio: 4/5

Nell'anniversario della nascita di Fassbinder, la televisione tedesca decide di realizzare il remake di Le lacrime amare di Petra von Kant e le candidate al ruolo della protagonista si succedono davanti a una regista inflessibile, che continua a scartarle tutte nonostante manchino pochi giorni all'inizio delle riprese. Speranze e inadeguatezze, isterismi e illusioni del dietro le quinte, con al centro la frustrazione dell'attore di secondo piano che ha accettato di far da spalla alle candidate per i provini.

Ci sono film che riescono ad essere sorretti da alcune grandi prove attoriali.
In questo caso recitazione e improvvisazione per dirla con le parole del regista presente in sala.
Un regista/attore che ha scritto e diretto questo ammirevole film che cerca di raccontare il dietro le quinte muovendosi su piani emotivi e fragilità da entrambe le parti (regista, attrici, maestranze, produzione). Attori ma soprattutto attrici, donne che riempiono la scena mettendo a volte il povero Gerwin in difficoltà tra la vergogna e la sua totale esposizione e flessibilità alle richieste di Vera.
Un film che mano a mano che prosegue diventa sempre più stimolante nel mostrare la tensione e i gradi di potere (la scena con l'attrice famosissima che minaccia la regista è pura estasi chissà se sarebbe piaciuta a Fassbinder), la rabbia e poi il perdono, la voglia di credere in un progetto al di là delle incomprensioni e del proprio orgoglio che sembra essere alla base di quasi tutte le scelte delle protagoniste. Tutti temi, plot e dialoghi che Wackerbarth riesce a mescolare al meglio rimanendo tra l'altro per quasi tutto il film in un unico interno sfruttando lo stesso spazio che di solito viene adottato per i provini anche quelli "improvvisati".
Andreas Lust, dopo il bellissimo e intenso Robber torna a dare un interpretazione forte e celebrale, una caratterizzazione e un personaggio complesso e importante, che pur sembrando marginale diventa testata d'angolo per far intuire tutte quelle problematiche che stanno alla base di un attore e una natura quanto meno incline a cercare di fare sempre la differenza come in questo caso.



giovedì 15 giugno 2017

Humidity

Titolo: Humidity
Regia: Nikola Ljuca
Anno: 2016
Paese: Serbia
Giudizio: 4/5

Petar è un uomo d'affari ambizioso, saldamente parte di quella classe sociale denominata dei "Nuovi ricchi", che vive in appartamenti arredati con mobili di design, ed una sicurezza che non li vede mai vacillare nella loro apparente perfezione. Un giorno, sua moglie Mina svanisce. Egli mantiene il segreto sulla sua assenza, mentendo dietro una facciata di serenità per cui decide addirittura di organizzare una cena di famiglia. Intano, sempre più preoccupato, passa le sue giornate tra affari loschi sul posto di lavoro ed eccessi con i suoi colleghi.

L'opera prima di Ljuca è un film impressionante in arrivo dalla Serbia. Questa storia di dolore e devastazione è ambientata in una solitaria e spettrale Belgrado dove ognuno sembra rincorrere il proprio tornaconto e la corruzione generale rimane sempre spaventosa.
Petar rappresenta il Serbian Made di famiglia aristocratica che grazie alla furbizia e al proprio tornaconto è abile nella scalata personale cercando sempre e a tutti i costi di avere sempre tutto sotto controllo soprattutto la vita e gli spostamenti della moglie Mina.
Cosa può succedere quando la normalità viene apparentemente sconvolta? Cosa può fare Peter per nascondere la sua fragilità, l'insicurezza, la frustrazione e la rabbia che cominciano ad affiorare dopo l'apparente scomparsa della moglie. La realtà sociale, la famiglia, le apparenze, i giochi di potere. Tutto sembra per un attimo assumere una forma grazie ad una profetica battuta della sorella del protagonista in una lussuosa Spa "Non ho tempo per essere depressa". Una madre che assieme al marito è impegnata a iniettarsi botox e non vedere che suo figlio, un nativo digitale doc, in realtà più che un ritirato sociale in realtà critica il lusso borghese dei suoi genitori e mostra uno spiccato talento teatrale come nel bellissimo monologo con il nonno materno.
Humidity è scandito dai giorni della settimana e quasi alla fine di ogni giornata la camera si chiude in dissolvenza su una strada notturna e solitaria che ricorda per molti aspetti LOST HIGWAYS di Lynch.
Il regista Ljuca si ritaglia un cameo all'interno del film curioso e ambiguo che sembra mettere in allarme il protagonista rivelandogli in macchina un dettaglio curioso sulle sue amicizie e i valori che dovrebbe condividere con la moglie.
Humidity è qualcosa che come per il bellissimo Clip mostra come la Serbia stia facendo i conti con i demoni del passato dopo i drammi della guerra, di Milosevic e la totale inutilità delle Nazioni Unite in un conflitto che non ha mai compreso a fondo dando spazio ad una società di consumi in cui il capitalismo viene accettato come totem in risposta a tutti gli ideali privati.
Humidity mostra grazie ad un protagonista in stato di grazia con una ghigna fenomenale il dramma dell'identità, della solitudine imposta e accettata per non mostrare fragili e umane sofferenze (il protagonista crolla ad un certo punto in macchina in una scena toccante e più che reale). Una fotografia tutta color crema, tanti primi piani, una messa in scena semplice ma al contempo geometrica nella scelta dell'impostazione della camera e un risultato straordinario per un paese che quando vuole dire la sua riesce grazie ad una critica feroce a non aver bisogno di altro se non di scandire la realtà e approfondire la quotidianità che a volte è più spaventosa di qualsiasi minaccia esterna.
«Durante la Grande Depressione, che io sono vecchio abbastanza da ricordare, la maggior parte dei membri della mia famiglia erano lavoratori disoccupati. Si stava male, ma c'era la speranza che le cose potessero andare meglio. C'era un grande senso di speranza. Oggi non c'è più» (Chomsky)



martedì 16 maggio 2017

Pieles


Titolo: Pieles
Regia: Eduardo Casanova
Anno: 2017
Paese: Spagna
Giudizio: 4/5

Il nostro corpo determina le nostre relazioni sociali, che lo si voglia o meno. Il film racconta la storia di persone deformi costrette a nascondersi, ma sempre connesse tra di loro. Samantha, che ha il sistema digestivo retroverso, Laura è invece una ragazza nata senza occhi, e Ana, una donna che ha il volto sfigurato. Personaggi solitari che stanno lottando per trovare il proprio posto in una società che accetta solo corpi perfetti, sempre volta ad emarginare il diverso.

Pieles è uno dei film più strani del 2017. Forse assieme a Greasy Strangler se la gioca di sana pianta se non fosse che il lavoro di Casanova và ben oltre la commedia hipster di Hosking. Infatti il giovanissimo autore scoperto e portato alla luce grazie a Alex De la Iglesia, uno dei registi spagnoli contemporanei più importanti della sua generazione, crea in apparenza un film patinatissimo dove predomina una fotografia sul rosa e una dominanza di spazi asettici.
Pieles è un film che parla del corpo, di come percepiamo i nostri corpi e di come gli altri percepiscono e vedono il nostro corpo.
In apparenza potrebbe sembrare una galleria grottesca di fenomeni da baraccone ma se così fosse o meglio se qualcuno dovesse sminuirlo a tal punto farebbe un grosso errore.
Freaks, personaggi strambi e menomati e brutalmente sfigurati dalla nascita nonchè persone "normali" che fanno paura per la loro totale assenza di scrupoli, la debolezza, il disprezzo totale per chi non è come loro e che vuole soltanto sfruttarli sono coloro che Casanova ci vuole far conoscere entrando di fatto nelle loro vite e soprattutto nella loro intimità. Se da un lato si potrebbe aprire a tutta una serie di considerazioni e una certa e indubbia semplicità nel capire come andranno le cose, a livello di sceneggiatura in ottanta minuti si è cercato di fare un ottimo lavoro soprattutto contando le varie storie riescono a trovare un incastro soddisfacente nel climax finale.
Solitudine, marginalizzazione e diversità. Questo è il triangolo che attraversano tutti i personaggi nei loro calvari personali e nelle storie che di fatto spesso li relegano a rifiuti della società.
I personaggi di Casanova si comportano esattamente come tutti gli altri esseri umani pur rimanendo rilegati ai margini, nascosti nelle loro case e sommersi dalle loro insicurezze e paure, sopravvivendo e vivendo di stenti nei modi più strani e curiosi possibili.
Amano e litigano, si arrabbiano e non accettano di portare maschere per nascondere la loro vera natura. La loro imperfezione riesce poi a creare ancora più suggestività nelle minimali inquadrature dove il colore e la prospettiva sono frutto di una ricerca maniacale. Un film tanto bello quanto potente e sicuramente non adatto ai deboli di stomaco ma che regala uno scenario pieno di colori e vita e alcuni momenti di puro cinema che lo spettatore non dimenticherà mai.

martedì 15 novembre 2016

Katalin Varga

Titolo: Katalin Varga
Regia: Peter Strickland
Anno: 2009
Paese: Romania
Giudizio: 3/5

Katalin Varga è costretta ad abbandonare il villaggio in cui vive. Il marito ha da poco appreso che Dobrán, il figlio adolescente che credeva suo, è frutto di uno stupro di cui la moglie non aveva mai avuto il coraggio di parlargli. Ora Katalin parte con Dobrán su un carretto trainato da un cavallo. Al figlio ha detto che si stanno recando dalla nonna che è ammalata. In realtà la donna ha una meta precisa: vuole saldare i conti con quell'episodio atroce.

Ancora Strickland, in questo caso con un film controverso, scomodo e doloroso, come parte della sua finora interessantissima filmografia. A questo giro però non siamo ne in Inghilterra ne in Italia ma il regista britannico di origini greche sceglie la Transilvania ungherese, a due passi dalla Romania per questo revenge-movie classico e che strizza l'occhio al cinema muto e ai grandi autori del passato. Sembra quasi di vedere un quadro e la natura (ostile e confortevole) diventa di nuovo uno dei simboli che il regista sfrutta al massimo (in questo caso come testimone dello stupro della protagonista all'interno del bosco che come un incubo ritorna in più flash all'interno del film) in un'opera tutta legata all'atmosfera di attesa, al cercare di comprendere la psiche di Katalin sempre più compromessa e legata ad un'altra sotto-storia drammatica che prende piega e porta ad un finale pesantissimo.
L'attrice rumena Hilda Péter riesce a dare naturalezza e spessore ad un personaggio scomodo e difficile. E cosa fai infine quando scopri il tuo carnefice. Cosa fai quando incontri l'orrore nell'orrore ovvero la scelta che sembra condizionarti la vita ma che sai ti porterà in un oblio ancora maggiore.
Quando Katalin incontra lo zingaro lui le dice "Sai, il fatto che io non sia mai stato punito è di per se stesso una punizione". Allora tutto il peso legato ai sensi di colpa in questo sconosciutissimo film del regista, diventa un fatto sociale a cui dare risalto e strutturarlo con una realisticità impressionante.


domenica 18 settembre 2016

Comune

Titolo: Comune
Regia: Thomas Vinterberg
Anno: 2016
Paese: Danimarca
Giudizio: 2/5

Copenaghen 1975. Erik ed Anna, architetto e insegnante lui e conduttrice di TG lei, hanno una figlia adolescente e si trovano ad ereditare una casa molto grande. Anna ha un'idea e spinge il marito ad accettarla: invitare alcuni amici a vivere con loro dando origine a una comune. Ben presto il gruppo si forma e si dà delle regole non sempre rispettate da tutti ma fra riunioni, pranzi e feste di Natale le cose sembrano funzionare. Fino a quando una nuova persona entra nella vita di Erik mutandone le prospettive.

Vinterberg pur essendo un regista danese tra i più famosi e i più interessanti (andatevi a vedere quasi tutti i suoi film) rievoca in forma nostalgica ma anche dura e impietosa, una parte della sua vita vissuta dai 7 ai 19 anni all'interno di una comune.
Era un'altra generazione e ora questa formula di convivenza in tempi moderni sembra essere tornata di moda, più negli altri paesi che nella nostra penisola.
Il regista decide di rievocare quel tempo proprio negli anni della sua esperienza, provando a trarre ispirazione da uno spaccato di verità che però alla fine dei conti è tutto tranne che naturale. Artificiale direi.
Risulta a tratti eccessivamente e singolarmente noioso, prendendo i vari personaggi nonostante alcune ottime performance, e spostandosi su monologhi noiosi e troppo intimisti che però a differenza di altri registi, non riescono a scavare a fondo.
Poi il regista si sofferma solo su alcune coppie e non da spazio a tutti.

I problemi e i dissidi più che interni alla Comune sono esterni, momenti e concatenazioni troppo irritanti e un climax finale che suona quasi ridicolo.

lunedì 18 luglio 2016

In grazia di Dio

Titolo: In grazia di Dio
Regia: Edoardo Winspeare
Anno: 2013
Paese: Italia
Giudizio: 3/5

Non c'è concorrenza con i cinesi, così una famiglia di fasonisti (i sarti che confezionano abiti per le aziende del Nord) è costretta a chiudere la propria fabbrica di fronte ai debiti e alla bancarotta. Mentre l'unico fratello cambia paese assieme alla sua famiglia, le due sorelle tornano dalla madre in campagna, una insegue le sue aspirazioni d'attrice e l'altra che prima si occupava della fabbrica per non essere sormontata dai debiti comincia a lavorare le proprie terre. La figlia di quest'ultima infine, non intende prendere la maturità e vive tutto con atteggiamento futile e superficiale, in contrasto con ogni cosa, anche nei riguardi dell'inaspettata storia d'amore della nonna vedova con un contadino.

Sono le donne le protagoniste dell'ultimo film del nostro buon Winspeare, quattro personaggi di tre generazioni diverse, tutte unite però dalla loro casa e dalla terra in cui vivono.
Un regista insolito, politicamente scorretto, sconosciuto per molti ma una garanzia per il nostro cinema e per il ritorno al Salento terreno fertile e ostile per diversi film precedenti del regista.
La crisi economica colpisce tutti anche e soprattutto nei paesini. La concorrenza investe e non risparmia neppure un potere tradizionale come quello di questi fasonisti.
Winspeare dirama e struttura un film per certi versi corale puntando sulla realisticità e la naturalezza della recitazione in dialetto contando che come spesso capita nessuna è un'attrice di professione.
Lo fa mettendo in campo risorse, regia e una linearità che cresce di continuo mantenendo una certa coerenza e un proprio stile personale. L'unica pecca è la durata che in alcuni casi appesantisce la narrazione lasciando alcuni strascichi e una macchinosità che sembra quasi collocarlo con una soap opera o una fiction. Cosa infatti costituisce il nostro mondo e ci è indispensabile come gli affetti e un'occupazione, che diano un senso e una dignità alle nostre giornate?

E allora cosa rimane per giovani e anziani. Credere nel potere dell'amore e affidarsi alla grazia di dio.

Stereo

Titolo: Stereo
Regia: Maximilian Erlenwein
Anno: 2014
Paese: Germania
Giudizio: 2/5

Erik ha un negozio di riparazioni di moto in una piccola e tranquilla cittadina. Tutto nella sua vita sembra filare liscio e il rapporto con la nuova fidanzata Julia lo rende felice. Anche la piccola figlia Linda si sente a sua agio fino al giorno in cui l'arrivo del misterioso Henry spezza ogni idillio.
Erik tenta di sbarazzarsi di Henry ma senza riuscirvi, quando la minaccia di un gangster che mette in pericolo la vita di Julia lo costringe a provare a fidarsi del nemico.

E'un peccato che Stereo nonostante alcune trovate interessanti sia un film così limitato e scontato.
Un vero e proprio delirio che sembra per certi versi accompagnare la filmografia tedesca spaccata da alcuni film straordinari e altri che lasciano increduli e perplessi.
Stereo non sembra avere mai una coerenza narrativa per più di venti minuti con una trama dettata da scelte incomprensibili e quasi autolesioniste piena di dialoghi stereotipati che traumatizzano lo spettatore per i primi dieci minuti, poi come sempre il rischio diventa quello di essere assuefatti per notarli. Un plot che scivola rapidamente in un crescendo di scelte che sfuggono e non trovano mai una coerenza, virando nell’assurdo e nel già visto che, unita alla sovrabbondanza di cliché di cui sopra, rende il film da dimenticare.
L'incidente scatenante dell'incubo che si rivela una vera ossessione poi andava combinato meglio altrimenti sembra un'altra copiatura da film ben più strutturati e famosi.
Poi tra l'altro le prime manifestazioni di Henry sopra i camper in campi deserti sembra l'apologia del non-sense.


lunedì 18 aprile 2016

Queen of Earth

Titolo: Queen of Earth
Regia: Alex Ross Perry
Anno: 2015
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Due donne si ritirano in una casa al mare per prendersi una pausa dalla pressione del mondo esterno, solo per realizzare quanto sono diventate scollegate l'una nei confronti dell'altra, permettendo al loro sospetto di invadere la realtà.

Era da tanto che sentivo parlare ai festival di questo Alex Ross Perry, un trentenne molto easy e tranquillo, e dei suoi indie introvabili.
Poi dalla Berlinale sento di questo suo ultimo lavoro e dal titolo e dal cast mi metto subito alla ricerca. Ci metto un po ma alla fine lo trovo.
Queen of Earth è un thriller psicologico di quelli che ultimamente sfruttano le idee e l'innovatività di alcuni impianti di regia.
Due amiche decidono di andare a casa di una di loro al mare per prendersi una pausa dalla pressione del mondo esterno, solo per realizzare quanto sono diventate scollegate l'una nei confronti dell'altra, permettendo al loro sospetto di invadere la realtà.
Una location, due buone attrici, dialoghi convincenti e un montaggio che come per i capitoli, in cui è suddiviso il film, scandisce l'arco temporale del film.
Queen of Earth è assolutamente femminile e crea e dipana una lenta analisi sull'amicizia, sulla gelosia, sulla paranoia e in particolare gli abissi della follia femminile.
Un film nostalgico con poche musiche e tanti suoni che distorcono e complicano la percezione delle cose divorando l'amicizia di Virginia e Catherine senza però mai cadere nell'esagerazione.
I personaggi vengono lasciati in bilico, in questa villa lasciandole libere di poter fare qualsiasi cosa nascoste come sono dalla società, ma al contempo glaciali nelle loro mosse e nel fluttuare come fantasmi in mezzo alla casa senza avere contatti l'una con l'altra, ma quasi studiandosi e osservandosi di nascosto e silenziosamente.
E'un film complesso o meglio che dichiara le sue complessità, inattuale e sfruttando con uno stile molto consapevole ampi dettagli in 16mm e con tanta camera fissa che sembra invadere lo spazio degli attori. Elisabeth Moss poi da TOP OF THE LAKE sta dimostrando tutto il suo talento.



martedì 12 aprile 2016

Revanche- Ti ucciderò

Titolo: Revanche- Ti ucciderò
Regia: Gotz Spielmann
Anno: 2008
Paese: Austria
Giudizio: 4/5

In città o si diventa arroganti o farabutti: con queste parole viene descritto Alex a pochi minuti dall'inizio il quale, occorre dirlo, di certo stando a Vienna non è diventato arrogante. Uscito di galera qualche tempo prima dell'inizio del racconto, ora fa l'autista per il padrone di un bordello e ha commesso il terribile errore di innamorarsi, ricambiato, della prostituta più richiesta. Insieme meditano la fuga per la quale gli occorrono però parecchi soldi, lei infatti è seriamente indebitata. C'è solo un modo per Alex di procurarsi quella cifra e in fretta: una rapina ben fatta. Purtroppo un piccolo ingranaggio del meccanismo non va per il verso giusto influendo sulla fuga dei due amanti dalla città e dando alla storia una seconda parte radicalmente diversa. Nel passaggio da città a campagna (dove il dolore si rimugina tagliando la legna e ha la forma della gigantesca catasta di ciocchi che ne risulta), il silenzio della seconda si contrappone al caos della prima e il noir diventa una dramma a due: la lentissima caccia che l'autoproclamato giustiziere dà al colpevole, suo ignaro vicino di cascina.

Sono appassionato dei viaggi di redenzione e degli anti-eroi.
Diciamo che quando calcano scelte morali che distruggono la psiche per tuttta la durata del film mi piacciono ancora di più. Riesco a vedere più realisticità e poesia in loro di moltri altri personaggi di Fiction o di televisione.
Revanche è un poliziesco classico austriaco, un noire sulla malavita "immigrata", con dei bruschi cambi di struttura che lo risparmiano dall'essere telefonato e scontato e dall'altro inseriscono delle pause di riflessioni interessanti sui cui portare lo spettatore a chiedersi cosa avrebbe fatto al posto di Alex.
Un film che indaga il senso della vendetta senza concedersi in modo forzato ma cercando di mantenere degli intenti che lo collocano come un'opera a tratti esagerata ma sicuramente matura e intensa.
Lo sguardo freddo e distaccato della regia e di Alex sono doverosi per dare un'idea di un luogo, dei grigi confini della periferia e di una quotidianità fatta di nulla e di espedienti.
L'ottica di Spielmann sembra essere proprio questa, molto esistenzialista.

Una convinzione che ci sia un senso a guidare gli accadimenti e l'esistenza, in una prospettiva percorsa da una qualche forma di ottimismo senza lieto fine.  

domenica 10 gennaio 2016

Taxi Teheran

Titolo: Taxi Teheran
Regia: Jafar Panahi
Anno: 2015
Paese: Iran
Giudizio: 4/5

Un taxi attraversa le strade di Teheran in un giorno qualsiasi. Passeggeri di diversa estrazione sociale salgono e scendono dalla vettura. Alla guida non c'è un conducente qualsiasi ma Jafar Panahi stesso impegnato a girare un altro film 'proibito'.

Cinema neorealista e militante. La settima arte come strumento di conoscenza e di lotta.
Così verrebbe da definire il lavoro di Pananhi che merita due righe soprattutto per cercare di capire gli intenti di questa insolita opera.
Panahi è stato condannato dalla 'giustizia' iraniana a 20 anni di proibizione di girare film, scrivere sceneggiature e rilasciare interviste, pena la detenzione per sei anni.
Ma non c'è sentenza che possa impedire ad un artista di essere se stesso, ed ecco allora che il regista ha deciso di continuare a sfidare il divieto e ancora una volta ci propone un'opera destinata a rimanere quale testimonianza di un cinema in un paese in cui le contraddizioni si fanno sempre più stridenti.
I passeggeri che salgono sul taxi non sono moltissimi.
Per target d'età e la differente condizione economica, riescono tutte a dare un quadro e un'idea di come sta la gente a Teheran, di cosa la preoccupa, di quale può essere il senso di giustizia, captando chi più chi meno la profondità della società.
Il film ci mette un po a decollare ma dal momento in cui entrano in gioco l'avvocatessa dei diritti umani, amica del regista, la nipotina fastidiosa che vuol fare la regista e perfettamente in linea con l'educazione del regime e l'omuncolo che vende dvd pirata da altri paesi, il film indossa tutta la sua forza drammaturgica e il bisogno di dare testimonianza del termometro di una capitale.
Panahi dopo due film, anch'essi clandestini, sfrutta grazie alle più recenti tecnologie, il modo per contrattaccare i divieti dal momento che è sempre più difficile per i regimi impedire agli individui di fare testimonianza di quanto accade
Il finale è profetico e allarmante.

Due poliziotti in borghese penetrano violentemente nella macchina momentaneamente abbandonata da Panahi e dalla nipote, alla ricerca di un “girato” da distruggere o di cui servirsi contro il regista  

sabato 9 gennaio 2016

Aloft

Titolo: Aloft
Regia: Claudia Llosa
Anno: 2014
Paese: Spagna
Giudizio: 2/5

Quando Ivan era un bambino viveva con sua madre Nana in una fattoria insieme al fratellino Gully che soffriva di un problema di disagio mentale conseguente a una malattia debilitante. La passione di Ivan per l'addestramento dei falchi gliene aveva fatto adottare uno in particolare di nome Inti. Un giorno era arrivato nella zona un guaritore che aveva fatto scoprire a Nana doti analoghe. Un incidente che aveva coinvolto Inti aveva profondamente segnato la vita di Ivan ma non era stato il solo. Ora da adulto, sotto la spinta di una giornalista, decide di andare a cercare la madre attraversando ampie distese ghiacciate.

La regista vincitrice dell'orso d'oro per IL CANTO DI PALOMA e il quasi sconosciuto Madeinusa
torna con un cast internazionale e una storia davvero atipica, elementi entrambi, che ne hanno sancito alcuni limiti e scoperto alcune fragilità.
Diciamo che un soggetto in cui la madre cerca di far curare il figlio a un uomo sulla base di dicerie circa il suo dono, potrebbe essere una base forte su cui incanalare alcuni buoni elementi, fattore che purtroppo non è riuscito alla regista.
Aloft è un dramma su un trauma in due momenti temporali diversi, passato e presente che si inseguono, in un piatto paesaggio freddo e uniformemente grigio composto perlopiù da ghiaccio e una comunità di persone che non nascondono una certa inquietudine.
Dall'inquietudine infatti si passa alle debolezze, alla depressione e infine alla quasi completa incapacità di saper generare emozioni solide e reali, creando un miscuglio di rimorsi e generando infine un'espiazione dalle colpe in una situazione di malessere comunitario e sociale.
Il film della Llosa riesce comunque a mantenere una buona messa in scena, ma soffre e paga per alcuni ridicoli intrecci legati al plot e al personaggio di questa Nana, che cerca in tutti i modi di essere caratterizzata in modo eccessivo dalla Connelly sempre brava nei ruoli drammatici.
Così come non è chiaro il vero significato di questo falco che rimane sempre attaccato a Ivan.
Aloft è un film forse troppo pretenzioso che portato alla luce in alcuni suoi difetti mostra e palesa tutti i suoi limiti.
Nulla possono nemmeno Cillian Murphy, attore molto malleabile e Melanie Laurent per cercare di dare un tono e un empatia ai personaggi che non si percepisce mai.






mercoledì 30 dicembre 2015

Victoria

Titolo: Victoria
Regia: Sebastian Schipper
Anno: 2015
Paese: Germania
Giudizio: 4/5

Victoria, una ventenne spagnola che vive da qualche tempo a Berlino, incontra fuori da un locale notturno Sonne e i suoi amici. Sono berlinesi 'veri', così si definiscono e possono mostrarle la città ignota agli stranieri. Victoria li segue divertita fino a quando qualcuno si fa vivo per esigere dal gruppo un credito

Le riprese della copia definitiva sono iniziate alle 4.30 del mattino e sono terminate alle 6.54 senza soluzione di continuità.
Sturla Brandth Grǿvlen è un operatore probabilmente importante quanto Schipper alla sua opera prima. Sfide come queste non sono tante e non passano inosservate soprattutto quando si ha il sentore che possano essere dei fiaschi e che non riescano a vincere la scommessa.
Victoria e il gruppo di berlinesi ci sono riusciti.
Ovvio alcuni momenti sono dilatati troppo, alcune forzature sembrano accendere troppo velocemente alcuni cambiamenti della pellicola che possono sembrare esagerati. Ci sono dei discutibilissimi vuoti e delle incronguenze incredibili forse dovute ad una drammaturgia carente che non ha puntato molto sulla sceneggiatura.
Nel complesso però ci sono tanti e squisiti elementi di questo film passato inosservato presso molti festival che faranno girare la testa agli amanti di cinema come un girotondo di generi capace di travolgere per l'estrema fluidità con cui è stato progettato.
Un cast in cui alcuni giovani volti sono noti solo per indie autoriali apparsi in sporadici festival come KING SURRENDER o WE ARE FINE.
Victoria perde forse parte della sua preziosità della sua incredibile ingenuità e freschezza proprio quanto si trasforma in un action tirando fuori troppo le palle e volendo diventare straordinariamente drammatico.
Nella sua notte di incontri Victoria travolge e lascia sempre in una strana atmosfera, proprio perchè nella sua ingenuità sembra sempre essere sul punto di diventare la vittima sacrificale di questo gruppo di ragazzi affamati di vita e di illusioni.
Schipper dimostra di saper giocare bene con la suspance, regalando un film che in un piano sequenza di più di due ore non perde mai di vista l'obbiettivo e crea una miscela di elementi e empatia verso tutta la "banda" davvero irresistibile.
Victoria proprio in questo blocco unico diventa un gioco forza di incredibile impatto e realisticità.



martedì 15 dicembre 2015

Cloro

Titolo: Cloro
Regia: Lamberto Sanfelice
Anno: 2015
Paese: Italia
Giudizio: 3/5

Jennifer ha diciassette anni, un fratellino e un padre caduto in depressione dopo la morte della moglie. Virtuosa del 'cloro', si allena nelle piscine di Ostia per partecipare alle prossime gare nazionali di nuoto sincronizzato. Ma la sua vita sopra la superficie dell'acqua è complicata. Il padre ha perso il lavoro e hanno dovuto lasciare il mare per la montagna abruzzese, dove lo zio Tondino gli ha messo a disposizione una baita vicino a un vecchio hotel dismesso. Precipitata in una realtà ostile, a causa del clima e della distanza dai centri abitati, Jennifer prova comunque a fare funzionare le cose, accompagnando il fratellino a scuola, accudendo il padre, tenendo vivo il sogno e allenati i muscoli. Occupata come cameriera presso un albergo, scopre molto presto la presenza di una piscina, dove ogni notte continua gli allenamenti. Il tentato suicidio del padre, la fragilità infantile del fratello e l'incontro con Ivan, il guardiano venuto dall'est che la osserva allenarsi di nascosto, cambieranno il suo sguardo e le sue priorità.

Cloro è un indie che si distacca enormemente dalle solite produzioni italiane.
Presentato al Sundance e a Berlino, tratta un argomento ormai abbastanza abusato come il viaggio di formazione ma avendo la lucidià e l'acume di trasformarlo in un dramma in cui la consapevolezza della protagonista diventa il fulcro su cui sviluppare la vicenda.
Con una messa in scena sempre equilibrata e un cast notevole, l'esordio di Sanfelice mostra un altra faccia del nostro paese, partendo da una passione che è il nuoto sincronizzato, tratta la rinuncia ai propri sogni, la piscina e le vasche come riscatto da un dolore quotidiano difficile da sopportare.
Un rito di passaggio dunque, e una presa di coscienza matura e adulta che non concedono spazio al divertimento in un rapporto e una nucleo familiare assente e con un fratellino che si trova ad avere una sorella/madre con cui scontrarsi nel quotidiano.
Cloro è un film composto perlopiù da opposti e dualismi nei luoghi, nelle scelte e nelle intenzioni, avendo il fascino, l'atmosfera e la consapevolezza di un film d'autore.

Un film sul dolore ma anche sulla speranza e la decisione che sprona e muove le azioni di Jennifer, un quadro di immagini in cui l'autore rivela e procede con cautela, suggerendo e rivelando mano a mano che la narrazione procede senza esagerare con i dialoghi e le spiegazioni ma descrivendo più che raccontare e costruendo un significativo spaccato di realtà.

lunedì 16 novembre 2015

Station of the Cross

Titolo: Station of the Cross
Regia: Dietrich Brüggemann
Anno: 2014
Paese: Germania
Giudizio: 4/5

Maria è una quattordicenne figlia di una famiglia devota alla Società di S. Pio XII, organizzazione religiosa ortodossa che rinnega le innovazioni del Concilio Vaticano II e rivendica una dimensione stretta e oscurantista del cristianesimo. L'adolescente si trova quindi intrappolata tra le pulsioni della sua età, i corteggiamenti di alcuni ragazzi a scuola e i duri insegnamenti familiari che l'hanno convinta a mantenersi pura nel cuore per il signore. Serve a poco la presenza di una ragazza alla pari, anch'essa religiosa ma in maniera più ragionevole, Maria è convinta che i durissimi rimproveri della madre siano giusti e che il peccato sia ovunque, ad ogni angolo, in ogni parola, in ogni uomo. In armonia con tutto ciò ha infatti preso una decisione che non ha confessato ancora a nessuno.

Cosa succede in una famiglia quando domina l'ideologia.
Una domanda e una scelta di intenti così interessante e affascinante da poter creare un insieme di elementi e simboli maturi e realistici per tutto l'arco del film.
Scandito in quattordici diversi capitoli che hanno come titolo le diverse stazioni della via crucis, Kreuzweg adotta una linea minimale e statica, un quadro dopo l'altro di eventi e scelte, puntando su alcuni dialoghi di intenso spessore come ad esempio l'incipit iniziale con il gruppo di catechismo in vista del sacramento della Confermazione in un piano sequenza a camera fissa di diciassette minuti.
La tragicità della sopportazione, il fanatismo ideologico, il prete che crea dei modellini, dei soldatini di Dio è un tema che non poteva non essere affrontato, soprattutto in tempi come questi dove i monoteismi stanno vivendo momenti di crisi, modernità, rivoluzione culturale e purtroppo anche vendetta spietata.
Sono molti e complessi i temi che il regista affronta.
Il sacrificio più di tutti che può portare alla santificazione crea un filo conduttore tra tutte le stazioni diventando una componente fondamentale per intuire dove gli intenti vogliano arrivare.
Si rimane attoniti di fronte ai gesti di Maria, alla sua forza, alle spaventose reazioni del nucleo familiare, con alcuni dialoghi spirituali che creano una tensione sempre crescente.
Quando ogni piacere diventa una colpa, allora ogni sistema che non accetta altra verità che la propria… è la negazione stessa della vita, citando le parole di Anna Brüggemann, sorella del regista che ha contribuito alla stesura della sceneggiatura.

Kreuzweg non attacca la religione, porta alla riflessione il sistema iper razionale della fede cattolica, con un'ironia crudele e criticando la cultura reazionaria dell'apoteosi religiosa in questo caso cattolica.

domenica 30 agosto 2015

A somewhat gentle man

Titolo: A somewhat gentle man
Regia: Hans Petter Molland
Anno: 2010
Paese: Norvegia
Giudizio: 3/5

Dopo aver passato gli ultimi dodici anni della sua vita in carcere, il killer professionista Ulrik non sa bene come poter tornare ad una vita normale. La sua indole è fondamentalmente quella di un uomo buono e gentile, ma è il suo passato a non concedergli una vita normale. Appena uscito, Ulrik si allea con il suo vecchio amico gangster Jensen per vendicarsi del poliziotto che lo ha arrestato. Nel frattempo, comincia a riprendere contatti con il mondo esterno, trovando lavoro come meccanico presso un'officina gestita da un ometto verboso e ospitalità nello scantinato di una bisbetica signora. Quando dalla ex moglie viene a sapere che il figlio conduce un'esistenza felice con una ragazza per bene che sta per renderlo padre, Ulrik cerca di riappacificarsi con lui per dimenticare tutti quegli anni di assenza, ma deve anche affrontare le pressioni di Jensen e quelle di tutte le varie donne che gli stanno attorno.

Molland è un regista che dopo qualche passo falso è riuscito a meritarsi una buona reputazione tra i cineasti norvegesi. Questa parabola sul ruolo dell'uomo in una società fredda e cinica come viene raffigurata la capitale, è funzionale e molto ben recitata con uno scipt ben dosato, alcuni momenti morti, ma nel complesso delle scene decisamente divertenti e incisive.
Stellan Skarsgård, attore su cui non c'è bisogno di soffermarsi, riesce con quello sguardo freddo e stralunato a reggere sulle spalle tutto il film, dando vita ad un personaggio che nel senso di colpa e nelle difficoltà economiche cerca l'equilibrio tra il non rifiutarsi mai nelle richieste di sesso con qualsivoglia tipo di donna e un avvicinamento con un figlio dimenticato oltre che cercare di superare i suoi demoni personali e non ritrasformarsi in un killer
E' un film che gioca molto sui particolari, sugli eccessi e i dettagli eccentrici, senza mai annoiare ma anzi rafforzando la narrazione in un crescendo di azioni e formule che trovano un ottimo equilibrio.
Purtroppo il film non è mai stato distribuito in Italia.


domenica 19 aprile 2015

'71

Titolo: ‘71
Regia: Yann Demange
Anno: 2014
Paese: Gran Bretagna
Festival: TFF
Giudizio: 3/5

Inghilterra 1971. La recluta Gary Hook viene inviato in Irlanda del Nord. La situazione sarebbe apparentemente semplice (i Protestanti 'amici' da una parte e i Cattolici 'nemici' dall'altra) se non fosse che all'interno dell'Ira ci sono due fazioni in lotta tra loro. L'accoglienza non è ovviamente delle migliori ma le cose si aggravano per il soldato quando scopre casualmente che alcuni ufficiali dell'esercito sono coinvolti nella fabbricazione di ordigni per gli attentati.

Il film di Demange, in concorso a vari festival tra cui il 32°Tff, ha almeno due pregi che devono essere presi in considerazione. 
Il primo è la sceneggiatura, volutamente contorta e convulsa (anche quando in fondo non fa altro che dire che i corrotti sono ovunque e in questo caso nell’esercito) ma è il modo in cui Gregory Burke intreccia le vicende a tenere alta la suspance del film. 
In secondo luogo lo stile tecnico e le caratterizzazioni dei personaggi, nonché una geografia di luoghi labirintica e devastante.
Il primo scontro con la popolazione cattolica merita una standing ovation per il semplice fatto che risulta disarmante e mostra quanto la disperazione e l’odio nei confronti delle forze dell’ordine diventi, come in questo caso, una missione sociale di tutti perfino donne e bambini. 
Demange come in altri momenti topici del film, decide di descriverli e narrarli alternando l’instabilità della camera a mano con un’attenzione ai dettagli e ai piccoli movimenti di macchina, tanto che questa prima parte, mantiene una tensione estrema e brutale.

L’unico problema è quando intraprende nella seconda parte una strada che lo accosta molto ad un’action-spy, diventando ripetitivo e non riuscendo a restituire il senso di minaccia e di claustrofobia come nel primo atto. 
Ottimo il cast tra cui il beniamino british O’Connelly, nemmeno troppo ispirato e l’ottimo Sean Harris sempre nella parte del cattivo vista la sua fisionomia.

venerdì 20 febbraio 2015

Racconti da Stoccolma

Titolo: Racconti da Stoccolma
Regia: Anders Nillson
Anno: 2006
Paese: Svezia
Giudizio: 2/5

Quando scende la notte Stoccolma si scopre intollerante e violenta. Dentro le case e fuori, sulle strade, esplode l'odio incontrollato di padri, mariti, fratelli. In una di queste notti si incrociano i destini di Leyla, figlia di una numerosa famiglia mediorientale, cresciuta secondo un rigido codice morale e religioso, Carina, madre generosa e giornalista di talento, umiliata dalle parole e dalle percosse di un marito meschino e geloso, e Aram, giovane proprietario di un locale, innamorato di uno degli uomini della sicurezza. Con modi e tempi diversi, Leyla, Carina e Aram impareranno a difendersi e a reagire ai soprusi. Il mondo è duro con tutte le donne che cercano di adattarlo alle proprie esigenze e alle proprie inclinazioni invece di lasciarsi condizionare dai genitori, dai mariti, dai fratelli o dalla persona amata. 

Che la violenza è una delle cose nascoste fin dalla creazione del mondo c’è lo diceva Rene Girard, probabilmente il massimo studioso mondiale sul tema. 
Ora che la violenza è presente anche in Svezia, non mi stupisce, mentre invece mi stupisce, purtroppo, l’analisi molto macchinosa e piena di elementi squisitamente già visti, con cui il giovane regista sceglie di narrare gli episodi drammatici.
E’ un film che in svariate scene e scelte, mostra purtroppo, una staticità e una ridondanza a sottolineare ed esplicitare alcuni particolari che secondo me andavano messi da parte per puntare verso altri settori. 
Da questo punto di vista ne esce un film che seppur tecnicamente ben fatto, appare insipido (potrebbe sembrare un paradosso vista la crudeltà intenzionale espressa dai personaggi in diverse scene) ma che manca “l’obbiettivo” di descrivere un malessere sociale presente ovunque.

Alla fine mostrando una violenza interna, annidata dentro la comunità come un male inestirpabile e incurabile, Nillson ci dice che non per questo è destinata ad avere il sopravvento sulle sue vittime, eppure, per qualche strana ragione, non sembra convincere la sua presa di posizione.

sabato 14 febbraio 2015

Robber

Titolo: Robber
Regia: Benjamin Heisenberg
Anno: 2010
Paese: Austria
Festival: TFF
Giudizio: 3/5

Johann Rettenberger sta scontando i suoi ultimi giorni di carcere per rapina. Gli anni di internamento non hanno sopito la sua passione per la corsa agonistica, che Johann ha continuato a praticare costantemente fra le mura del carcere e il tapis roulant della cella. Quando viene rilasciato, il programma di recupero lo iscrive all'ufficio di collocamento, dove ritrova una sua vecchia conoscenza, Erika. Ma Johann non è interessato ad un lavoro normale e ad una posizione stabile, e investe tutte le energie e il suo tempo in allenamenti per la corsa, alternando maratone dove risulta sempre anonimo vincitore a una serie di frenetiche rapine a mano armata. Nel frattempo si trasferisce da Erika e inizia una relazione con lei, ma la possibilità di raggiungere una stabilità nulla può contro le esigenze estreme del suo battito cardiaco.

"Non ho mai smesso di correre", o ancora "quello che faccio non ha niente a che vedere con quella che tu chiami vita"
Robber è un film piacevole che denota dietro la macchina da presa, un regista con idee interessanti che deve solo cercare di essere meno ambizioso e più in linea con la narrazione.
L’elemento che crea più problemi nella pellicola è la soluzione di continuità, passando da un estremo di rapine all’altro di silenzi e sguardi all’interno della casa con la co-protagonista Erika. Il finale è l’elemento migliore, davvero struggente anche se un po forzato come nel caso in cui le pattuglie della polizia che controllano i boschi sono stranamente sempre nello stesso punto in cui si trova il protagonista.
Però allo stesso tempo Walter Huber lavora molto sul contenimento riuscendo allo stesso tempo ad apparire convincente e verosimile con il malessere che lo pervade e i continui stati d’ansia che si impossessano di lui.
Potrà inoltre apparire scarno per quanto concerne la psicologia e la caratterizzazione dei personaggi secondari, ma credo sia in parte funzionale, non dimenticando le caratteristiche di un personaggio come quello di Johann, disturbato a causa del lungo periodo di prigionia.

Il film tra l’altro è l'adattamento dell'omonimo romanzo ispirato a Martin Prinz dalla storia vera di un rapinatore di banche e maratoneta austriaco . In Italia non è mai stato distribuito nei cinema ed è passato in sordina ai festival nonostante il regista abbia riscosso un certo successo con il film precedente.

A soap

Titolo: A soap
Regia: Pernille Fischer Christensen
Anno: 2006
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Charlotte, 34 anni, è proprietaria di una clinica di bellezza. Un giorno decide di abbandonare il proprio compagno Kristian e di andare a vivere in un appartamento che conserverà l'aspetto della provvisorietà. Al piano di sotto abita un giovane transessuale che la donna conoscerà comprendendone i problemi.

A soap  è l’esordio alla regia della danese Christensen. Un film che inizia bene con una narrazione extradiegetica per nulla noiosa o fuori luogo che riassume gli eventi come se stesse introducendo un nuovo episodio di una soap opera (come da titolo del film) e che insieme alle note di musica classica ci fa presto scoprire i due personaggi su cui si dipanerà la storia.
E’un film molto classico che narra due vite parallele tra dolori, scelte da cui non si potrà tornare indietro e minestre scaldate che non riescono a convincere mai fino in fondo. 
Senza retorica e girato in pochi interni, il film è un concentrato di dialoghi che non risparmia niente di tutti i temi e le problematiche dei giorni nostri sui legami di coppia, ma anche sulla paura di amare il proprio corpo e di non sentirsi più desiderati. L’avvicinamento tra la forza di facciata di Charlotte, Trine Dyrholm bellissima e bravissima, e la fragilità apparente di Veronica, non lasciano spazio a retoriche, ma si studiano, si toccano e infine cercano di trovare una loro “equilibrata” armonia.
L’unico problema su cui il film inciampa in alcuni punti, è proprio quello di continuare a insistere sui dialoghi e infatti alcune sequenze appaiono di minor gusto, come gli incontri di Charlotte con Kristian, che hanno quel sapore di ripetitivo e monotono. 
E’un film che gioca continuamente tra gli eccessi di Charlotte e la delicatezza di Veronica.