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giovedì 22 ottobre 2015

Ultima preghiera

Titolo: Ultima preghiera
Regia: Norma Bailey
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Matthew Winkler, amato pastore di una chiesa del Tennessee, viene trovato ucciso nella sua abitazione. Della moglie Maria e delle piccole figlie non vi è traccia e ciò spinge presto le autorità a concentrare i sospetti sulla donna, ritenendola colpevole di omicidio. Cosa l'abbia spinta a uccidere il marito mentre dormiva emergerà durante il processo a suo carico.

The Pastors Wife è un film televisivo, interpretato senza troppa enfasi da attori mediocri e nulla più tra cui spicca Rose McGowan non certo per bravura ma per popolarità.
Basato su una storia vera, è uno dei casi che più di tutti ha scatenato la stampa statunitense.
La regista sceglie la struttura del viaggio a ritroso e della scansione in flash-back per mostrare i fatti che hanno portato al processo e alcune interviste agli abitanti della cittadina.
Il resto è fiction senza colpi di scena, con il solito plot e il personaggio del pastore autoritario e punitivo nei confronti della moglie e dei vicini di casa.
L'unico elemento che ho apprezzato e la battuta di Maria nel finale ad un cliente in cui emerge forse l'unico colpo di scena a cui la regista lascia aperte diverse chiavi di lettura.
Per il resto anche se non è noioso è assolutamente prevedibile.


domenica 30 agosto 2015

Detention

Titolo: Detention
Regia: Joseph Kahn
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

La storia è incentrata su due adolescenti che devono sopravvivere al loro ultimo anno di liceo. Di fronte alla loro strada c'è un assassino di uno slasher-movie che apparentemente ha preso vita.

Sembra una via di mezzo tra SCREAM e un horror-teen che cerca di trovare modelli accattivanti nella scrittura della sceneggiatura per suggestionare il pubblico.
Il risultato è in bilico, pasticciato, rovinato da alcuni attori-poser, ma quello che è peggio e che non riesce a trovare un genere (forse la commedia demenziale o il trah senza intuizioni) in particolare risultando a tutti gli effetti un cocktail pieno di ingredienti che stonano tra di loro.
Forse per chi è completamente astinente dal genere o dai modelli proposti, potrà sembrare simpatico e divertente, mentre invece nel mio caso è fessacchiotto e inutile e rientra proprio nel filone horror-teen che sta spopolando diventando un vero virus che infetta le giovani menti dei giovani facendoli dimenticare cosa è veramente la paura.


martedì 28 luglio 2015

Into the Abyss

Titolo: Into the Abyss
Regia: Werner Herzog
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Conroe, Texas. Michael Perry è nel braccio della morte. Verrà ucciso tra otto giorni, per il triplice omicidio compiuto dieci anni prima. Il ragazzo che era con lui quella notte, Jason Burkett, sconta invece l'ergastolo. E così suo padre, per altri reati. Werner Herzog esce dalla grotta che ha visto gli esseri umani dei primordi esprimere se stessi attraverso l'arte e fermare la propria esistenza nel racconto ed entra nell’abisso di esistenze altrettanto senza tempo, congelate nella reclusione, dove la comune esperienza del passare dei giorni è alterata, per darcene il racconto altrimenti muto.

"I film non sono una giustificazione per i reati commessi; è inoltre lampante che i crimini di cui si sono macchiate le persone nei miei film sono mostruosi, ma non sono mostri coloro che li hanno commessi. Sono uomini e per questo li tratto con rispetto"
Herzog rimarrà sempre uno dei cineasti più importanti della sua generazione.
Oltre a tutta una nutrita serie di motivi, credo sia l'unico ad aver avuto l'accesso praticamente a tutti i luoghi più inaccessibili, impervi, sconosciuti e interessanti di questo strano e caotico pianeta.
Dopo una filmografia impressionante dal punto di vista storico, narrativo, attoriale e tutto quanto si possa ancora dire, con pochissime eccezioni (soprattutto concernenti gli ultimi anni, il più delle volte eseguite solo per soldi) il genio tedesco si è poi quasi esclusivamente interessato al documentario dando prova di essere un autore completo al 100% in grado di arrivare a portare alcuni contributi di altissimo spessore e livello che quasi nessuno poteva credere.
Ho imparato moltissimo dai suoi documentari, credo che il suo contributo debba trovare un riscontro anche tra le istituzioni scolastiche, diventando un esempio di uomo che si mette sempre in gioco, che và nel profondo, nella parte più viscerale dell'uomo in tutte le sue forme.
Il braccio della morte, come GRIZZLY MAN, CAVE OF FORGOTTEN DREAM, A YEAR IN THE TAIGA, L'IGNOTO SPAZIO PROFONDO, WHITE DIAMOND, KINSKY, è ancora una volta un altro sensazionale e spiazzante viaggio nell'ignoto spazio profondo della fragilità umana.
Quello che impressiona di Herzog è l'amore per la realtà del cinema che spesso e volentieri è molto più impressionante della finzione, rimanendo spiazzati di fronte alle sue reazioni nonchè alle sue inconsapevoli e misteriose visioni di morti folli ed eroiche.
E'un uomo prima di tutto e poi un regista, e lo si vede dal punto di vista con il quale non critica e non sembra mai dare un giudizio, sottolineando l'impossibilità di una sovrapposizione totale e univoca tra crimini e criminali; atroci i primi, umani i secondi, come accade in una toccante intervista al padre di Perry: l'intervista si supera regalando una voglia di redenzione e un'ammissione di colpevolezza davvero toccante e lucida.
Un'analisi in cui non manca nulla dalla alla pena detentiva, al sistema carcerario, ai criminali e ai parenti e al loro dolore senza fine. L'episodio di cronaca che Herzog descrive è una vicenda dolorosissima fatta di interviste e testimonianze, con un documentario diviso in cinque capitoli, più un prologo e l'epilogo.

Potrà sembrare alle volte eterno come l'abisso che il regista sonda, ripetitivo in alcuni meccanismi legati al montaggio, freddo, non godendo di una fotografia ma rimanendo di un'asetticità totale, eppure sono scelte volute che rafforzano il quantitativo e la mole di sofferenza di cui bisogna farsi carico prima della visione.

Blinky

Titolo: Blinky
Regia: Ruairi Robinson
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Alex è un ragazzino che passa la maggior parte del tempo davanti al televisore mentre nell'altra stanza i genitori, in procinto di divorziare, non smettono mai di litigare. Attratto dalla pubblicità di un nuovo robot che promette di rendere felici grandi e piccini, Alex convince i genitori a regalargli il Blinky per Natale. Dopo un po' di tempo, deluso dal non veder cambiare il suo stato d'animo e dall'assistere al deterioramento della sua famiglia, nota che dietro il sorriso rassicurante del suo robot si nasconde qualcosa di inquietante.

Ancora una volta la ribellione delle macchine.
Tocca ad un corto, con una fattura pregevole, dei buoni effetti e un ritmo tutto sommato avvincente.
Il problema di Blinky non è dunque nel reparto tecnico, ma negli intenti, nei temi che và a toccare, nello svolgimento e in una trama scontata che non prevede nessun colpo di scena.
I meriti di Robinson non si discutono a partire da un lavoro durato quasi nove mesi, e un budget di 45.000 dollari in cui il regista stesso si è prestato nel dare la voce a Blinky e che si è occupato di tutto il lavoro di post produzione interamente da solo oltre ad averlo filmato scritto, diretto e prodotto interamente.

Questi sono meriti innegabili ma la storia è importante, il dramma famigliare e il cambio di intenti del Bad Robot sono davvero troppo sintetizzati pur essendo un corto.

Madison County

Titolo: Madison County
Regia: Eric England
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 1/5

Un gruppo di universitari si reca in una città di montagna chiamata Madison County per intervistare l'autore di un libro su una serie di terribili omicidi che sono avvenuti sul posto. Tuttavia una volta arrivati i ragazzi non riescono a trovare l'autore e in città tutti dicono che non si è visto da anni e che in realtà non c'è mai stato nessun omicidio. Insospettiti i ragazzi decidono di indagare per scoprire la verità.

Madison county è la riprova che alcuni registi o sceneggiatori davvero non hanno idee.
L'horror per gente come questa è un profitto senza avere l'anima di inseguirne una logica.
Uno slasher copia incolla come purtroppo moltissimi altri.
Un'idea fasulla che cerca in una locandina becera di trovare fan del genere puntando su una maschera da maiale.
Madison County, località in cui si nasconde il male tra bifolchi e vecchie psicopatiche, è davvero il calderone del trito e ritrito.
Peccato perchè negli ultimi tempi ci sono stati alcuni registi in grado di sovverchiare gli stereotipi di alcuni sottogeneri dell'horror o di giocarci così bene e ridicolizzarli da diventare degli ottimi esempi di come invertire le regole come ad esempio EDITOR, IT FOLLOWS, LAS BRUJAS DE ZUGARRAMURDI.
Madison County, poi giusto per umiliarlo a dovere, trova nel finale dei buchi di sceneggiatura e tutto il non-sense che ci si poteva aspettare.
Non è semplicemente brutto e già visto, ma pure senza senso e trasmette la stessa ansia e il vuoto di un discorso del premier Renzi.

Sarà per il mio amore per l'horror, per l'America poco conosciuta, per i redneck, per i bifolchi, ma qui tutto è uno schifo, si salva ancora una volta solo la locandina.

lunedì 29 giugno 2015

Michael

Titolo: Michael
Regia: Markus Schleinzer
Anno: 2011
Paese: Austria
Giudizio: 4/5

Michael, 35 anni, lavora in una società assicurativa in cui è considerato un dipendente affidabile. Vive da solo in una villetta a schiera e incontra molto raramente la madre e la sorella a cui racconta di avere una compagna in Germania. Michael non ha una compagna oltre confine. Ha invece un bambino di 10 anni chiuso nello scantinato insonorizzato della sua abitazione che tiene prigioniero e di cui abusa sessualmente.

Michael è a tavola. Guarda di fronte a lui il bambino/vittima prescelta che mangia e cominciando a ridere si tira fuori il cazzo.
M-"Questo è il mio coltello e questo è il mio cazzo. Quale dei due devo ficcarti dentro?"
B-"Il coltello"
Fedele adepto di Haneke, Schleinzer se ne esce con un concentrato minimale di pura cattiveria, senza ricorrere quasi mai alla violenza fisica ma lasciando tracce indelebili difficili da rimuovere in un film d'autore lento e impressionante. Sceglie un uomo medio qualsiasi, una di quelle persone di cui non si sentirà mai la mancanza e che vivono nascoste senza volersi far conoscere dal resto della società.
E'un film molto complesso e psicologico quello del regista austriaco, in cui il rapporto tra vittima e carnefice si consuma in modo continuativo, facendo in modo che l'odio e lo sconforto vengano a tratti sostituiti da un barlume di fiducia, come terreno fertile, carta d'identità di ogni pedofilo che si rispetti.
Eppure è un mostro diverso dagli altri, che la caratterizzazione cerca quasi, ma senza riuscirci, di comprendere mostrando le umane debolezze con Michael che gioca e nutre il bambino in fondo cercando di volergli "bene" e dall'altra parte tenendo in scacco lo spettatore rendendolo partecipe di una liberazione. Un bene che non può esistere e che destruttura completamente la fisiologia e lo sviluppo della vittima.
Di troppi bambini scomparsi non si parla e chissà quanti potrebbero essere testimonial di drammi così viscerali come quello descritto dal regista con pochissimi dialoghi e insistendo a più riprese su alcuni dettagli. Eppure non cerca mai il sensazionalismo banale, non esagera mai con la portata delle immagini se non in qualche occasione.
Il finale è straziante.



martedì 9 giugno 2015

Blind Alley

Titolo: Blind Alley
Regia: Antonio Trashorras
Anno: 2011
Paese: Spagna
Giudizio: 2/5

Le cose stanno girando bene per Rosa: è bella, è desiderata, la sua carriera da modella e attrice sta decollando. Ma le cose possono cambiare in fretta e nella maniera più inaspettata, anche semplicemente andando a fare il bucato nella solita lavanderia nei pressi di casa.

Blind Alley entra nel filone degli horror spagnoli trashoni di ultima generazione con alcune strizzatine d'occhio al vecchio cinema e un acume predominante per le goliardate e le scelte più telefonate, contando un climax, per certi versi, spaventosamente esagerato.
Con un inizio abbastanza interessante, il film mostra subito (complici i cadaveri per le strade) che il film prenderà una piega sulla falsa riga del filone giallo dei vecchi Fulci e Argento.
Se è proprio il finale la stonatura maggiore del film (vampiri alla BUFFY), il film dalla sua ha un'ottima protagonista (oltre che affascinante) è una buona suspance tutta giocata all'interno di una squallida lavanderia, dove faranno a turno alcuni improbabili personaggi.

Un filmetto tutto sommato, ma che almeno ha il pregio, contando la manifattura, di non annoiare a morte, un'opera prima, quella di Antonio Trashorras (già sceneggiatore a fianco di Guillermo del Toro in LA SPINA DEL DIAVOLO) che certo non verrà ricordata, ma almeno cerca di dare un'idea su come in Spagna si scommetta ancora molto sul cinema di genere.

lunedì 27 aprile 2015

Kryptonite nella borsa

Titolo: Kryptonite nella borsa
Regia: Ivan Cotroneo
Anno: 2011
Paese: Italia
Giudizio: 2/5

Napoli, 1973. Peppino è il più giovane membro della famiglia Sansone. Neanche dieci anni, l'onta di una forte miopia giovanile e un'ammirazione per lo strambo cugino che crede di essere Superman. In seguito alla sua morte, il piccolo Peppino comincia a immaginarne la presenza, e di questo supereroe fantasma dal naso aquilino e dal forte accento napoletano fa il suo unico amico fidato. Quando la madre Rosaria entra in depressione dopo aver scoperto che il marito la tradisce, sarà infatti lui, più che i due zii giovani e incoscienti o i tre piccoli pulcini donati dal padre fedifrago, a insegnargli come trovare il proprio posto nel mondo.

La Kryptonite nella borsa, regia di Cotroneo, noto sceneggiatore televisivo, sancisce un limite del nostro cinema e del genere più abusato: la commedia.
Il limite è quello di saper confezionare alcuni interesssanti spunti, coadiuvate da un cast interessante, ma allo stesso tempo rimanendo fedele ad un certo tipo di scrittura e struttura, ormai portata quasi all'esaurimento.
Famiglie, sguardi sul passato, voce fuori campo, nostalgia, finale a lieto fine, tradimento, tipi eccentrici. Troppi stereotipi che probabilmente piacciono ma diventano ormai ben più che ripetitivi, senza nessun guizzo o moto narrativo che incoraggi a osare o sperimentare qualcosa di più.
Quindi regole che diventano limiti per un target che non riesce ad andare oltre la commedia d'effetto, ma sempre solidamente costruita su alcuni principi da cui non si riesce a fuggire.


Fixing Luka

Titolo: Fixing Luka
Regia: Jessica Ashman
Anno: 2011
Paese: Gran Bretagna
Festival: Cinemautismo 2015
Giudizio: 4/5

Anatre di gomma allineate e perfettamente in fila . Francobolli attaccati ad una parete nella camera da letto. Una piramide di ditali buttati a terra. Queste sono solo alcune delle routine ossessive di Luka, un rituale giornaliero sotto lo sguardo ansioso di sua sorella Lucy.
Luka però ha bisogno di riparazioni ogni volta che qualcosa disturba la sua routine e così Luka cade a pezzi. Letteralmente .
Una sera - martoriata dalla impossibilità di aiutare il fratello, Lucy perde la pazienza e fugge. Inciampando nella foresta, scopre un soldato orologio, all'interno di una baracca . Quando aiutandolo, riesce a fissare la sua testa, Lucy pensa di aver trovato la soluzione ai suoi problemi a casa e per Luka.

Scritto, diretto e animato dalla regista, Fixing Luka è un corto di '12 fantastico e commovente.
Sulla base dell'esperienza personale di Jessica Ashman di crescere con un fratello autistico, Luka è una storia di speranza, determinazione e accettazione.
La Ashman è una regista con la passione e specializzata in stop- motion, cut e animazione in 2-D. Fixing Luka mescola i generi, la fiaba con storie di ordinaria quotidianità, difficoltà nell'affrontare l'autismo e la solitudine di non trovare aiuti, cercando quindi nel mondo esterno un'arma di speranza per affrontare i problemi.
Rigorosamente senza dialoghi, ma con una colonna sonora convincente, Fixing Luka è uno di quei corti necessari, che parlando di un malessere interno ed esterno, trovano quella componente per arrivare dritti al cuore ma senza momenti melensi e una certa retorica di linguaggio.


El sexo de los angeles

Titolo: El sexo de los angeles
Regia: Xavier Villaverde
Anno: 2011
Paese: Spagna
Giudizio: 3/5

Carla e Bruno credono di avere le risposte per tutto quello che la vita gli ha offerto fino ad ora. Ma quando appare Rai, un uomo misterioso ed attraente che vive fuori dalle regole, in questa storia d'amore e di amicizia i confini si dissolveranno e si spezzeranno, trasformandosi in relazioni emozionanti e profondamente romantiche.

Il terzo film del giovane regista spagnolo Villaverde è frizzante, pieno di vita, solare, e bello come i protagonisti/e, oltre che dotato di un senso del ritmo notevole e a tratti riflessivo.
Quello che non convince è la quasi totale impossibilità dei fatti, soprattutto in un finale con lieto fine aperto a innumerevoli interpretazioni ma che non può certo durare perchè impossibile e immorale come penserebbe qualcuno.
Così come anche alcune scene ripetute e che stonano con il ritmo nello studio dove lavora Carla. Alcuni dialoghi «non posso vivere senza di te ma neanche senza di lui»; «l’amore viene dal cuore e non dal cervello» e per finire un incidente che grida al forzato sensazionalismo per far convergere quello che poteva rivelarsi un buco di sceneggiatura, sono i passi ingenui commessi da chi in fondo crede che tutto possa trovare una giustificazione.
Un film che sa essere un'irrestistibile commedia ma che sa anche trattare, anche se in modo sempre molto ottimista, il triangolo che può avvenire in una coppia quando subentra un terzo armato di fascino e languidi sguardi oltre che un rispetto altalenante per entrambi i partner.

Xavier sa benissimo di non essere il primo a trattare questo tema, i film ormai sono numerosi, ma lo fa in modo per certi aspetti innovativo, puntando su un triangolo poliamoroso irrestistibile rispetto ad altri film, in cui la componente drammatica emergeva molto di più.

domenica 19 aprile 2015

Sunsed Limited

Titolo: Sunsed Limited
Regia: Tommy Lee Jones 
Anno: 2011 
Paese: Usa 
Giudizio: 4/5 

Due estranei, senza punti in comune tra loro, si confrontano drammaticamente. Il Bianco e il Nero sono senza nome, distinti solo dal colore della pelle. Sono chiusi in casa e discutono, si scontrano sul significato delle sofferenze umane e sull'esistenza di Dio.

"Mostrami una sola religione che non prepari alla vita dopo la morte. Mostramene una che prepari al nulla. Ecco quella sì che farebbe per me." 
Cormac McCarthy è come Re Mida trasforma tutto ciò che scrive in oro. 
Tommy Lee Jones è quello che arriva subito dopo per la settima arte, dimostrando con i suoi film, come alcuni attori, siano ancora più bravi dietro la macchina da presa. 
Jones non solo ha saputo ridare enfasi ad un genere che per alcuni sembra morto come il western, ma ha saputo dargli quella carica di drammaticità che sembrava dimenticata per eccessi di forma che spesso portano i registi a veder sfumate un sacco di buone occasioni. Sunsed Limited parte da uno script teatrale e io amo gli script teatrali. 
Se poi dietro c'è qualcuno che ne sa particolarmente, allora un dialogo può trasformarsi in un lungometraggio, tenendoti incollato alla sedia e facendoti fare capitomboli dall'emozione e dai riferimenti, le riflessioni e le citazioni che si trascina dietro. 
Ed è proprio questo il caso. Tommy Lee Jones e Samuel Jackson. Una stanza. Un tavolo. Due sedie. Un divano. Punto. Il gioco è fatto e così il risultato e l'efficacia del film. 
Forse uno dei duelli filosofico-esistenziali più interessante degli ultimi anni, sviluppato e tratteggiato con acume come solo un drammaturgo attento, unito ad un bravo regista sono in grado di fare. 
La modernità che attraversa dogmi religiosi, diventando viscerale fino alla radice, senza mentite spoglie, ma rivelando l'essenzialità della natura dell'uomo è il fulcro, il perno a cui si prende parte in questo bellissimo film che non concede tregua e non può permettersi di darla. 
Ed è per questo che venero McCarthy, per il fatto che sia uno degli unici ad essere a tutti gli effetti disturbanti sondando la realtà della miseria e dei limiti dell'essere umano, eppure tratteggiando questo aspetto con una grazia e un'eleganza tale da renderlo quasi un unicum nel suo mestiere.

Bullhead

Titolo: Bullhead
Regia: Michael R.Roskam
Anno: 2011
Paese: Belgio
Giudizio: 4/5

Jacky Vanmarsenille, figlio di un piccolo allevatore delle Fiandre, si fa largo nella vita a suon di intimidazioni nei confronti degli allevatori come il padre. Ultima ruota del carro di un clan dedito allo smercio di ormoni, Jacky finisce in un giro più grande di lui, pilotato da un veterinario senza scrupoli, in affari con un commerciante di carne. L'assassinio di un poliziotto federale e un inaspettato confronto con un segreto del passato faranno vacillare il fragile equilibrio di Jacky.

Bullhead è spietato. Il suo punto di forza però non è la violenza come il film o la trama vorrebbero far intendere. Tutt’altra cosa invece è la potenzialità e la forza del film. 
Roskam è un regista atipico e i suoi film, nonché questa coraggiosa opera prima, ne sono la dimostrazione. Un talento, quello belga, che va tenuto sott’occhio soprattutto, per come si avrà modo di scoprire anche in THE DROP, sceglie sempre dei binari tutt’altro che convenzionali ed è proprio questo che affascina, una totale aderenza alla realtà. 
 La mafia in questione è quella delle Fiandre, di origine fiamminga, e il suo core business è lo smercio clandestino di ormoni che dopano gli animali destinati al macello. 
Questo clan di "allevatori" è più radicato sul territorio che nei gangli del potere politico ed economico. Anche se da questo punto di vista lo smercio degli ormoni serve solo come incidente scatenante, la questione dell’omicidio, la sceneggiatura anche se con qualche piccola defezione, ne coglie gli aspetti spietati con cui delinea e caratterizza il protagonista, un Matthias Schoenaerts davvero sull’orlo dell’esplosione, perfetto per concentrare su di sé e sul suo corpo bovino, la solitudine e la rabbia repressa.
Bullhead inoltre regala una delle scene di violenza più cruente degli ultimi anni (il trauma ai danni di Jacky). 
 Bullhead è un film con tratti decisamente atipici e ha il coraggio di non schierarsi mai, anche quando sarebbe facile, dalla parte della vittima, perché la verità è che ogni vittima è anche un po' carnefice e ogni carnefice è vittima della propria rabbia.


lunedì 2 marzo 2015

Tyrannosaur

Titolo: Tyrannosaur
Regia: Paddy Considine
Anno: 2011
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Joseph è un uomo solo divorato da una rabbia che lo spinge ad agire anche contro chi ama. Un giorno, reduce da un ennesimo scontro, cerca asilo nel negozio di Hannah, una devota cristiana che non può fare altro che dirgli che pregherà per lui. Joseph è disperatamente ateo ma le parole di Hannah lo toccano e lo spingono a tornare a cercarla. Pur non riuscendo a trattenersi dall'offenderla capisce che anche lei nasconde un dolore profondo.

Tyrannosaur è il nomignolo che Joseph aveva scherzosamente affibbiato alla moglie Pauline per via della grazia con cui spostava il suo corpo importante, generando vibrazioni del suolo che ricordavano quelle prodotte dal bestione che imperversava in Jurassic Park. Sono quei soprannomi che dietro presunti difetti fisici nascondono sentimenti veri.                                                                                                                              
Peter Mullan è un attore che va amato e basta. Non sbaglia nessun film, come interprete, ed è capace da solo di reggere tutto il peso del film, senza nessunissima difficoltà.
Un sessantenne in grado fi fare paura anche da fermo e che cerca di tenere sigillati con l’alcool dei demoni più forti di lui.                                    
L’esordio dell’attore Considine alla regia ne è l’esempio. 
Imperfetto, a tratti sbandato e con un amore profondo per i drammoni, grazie all’aura pervasiva dell’attore, riesce non solo a tirar fuori un bel film che mostra come tutte le generazioni soffrano lo stesso male, ma lo fa con delle scelte e alcuni guizzi di regia mica da ridere.                                                                                                                                                                                        
Il personaggio di Joseph in fondo vive una vita pervasa da eccessi di brutalità con forti accenti di verità e di malcelata giustizia nel prendere le parti dei più deboli.

Considine parte da un dubbio o forse da una necessità nel delineare una serenità che oggi come oggi è sempre più negata. L’egoismo sempre più anomalo che spersonalizza l’individuo è ottimamente rappresentato soprattutto nel modo in cui Joseph cerca i contatti e si relaziona con le persone.

sabato 14 febbraio 2015

Hors Satan

Titolo: Hors Satan
Regia: Bruno Dumont
Anno: 2011
Paese: Francia
Giudizio: 3/5

In un piccolo villaggio francese, una giovane ragazza ed un clochard condividono una strana e misteriosa amicizia. Lei sembra prendersi cura di lui in maniera del tutto disinteressata, specie in relazione all’apparente apatia dell’uomo. Questo loro rapporto passa essenzialmente attraverso una serie di piccole routine, che però coprono buona parte della giornata. Lei prepara a lui da mangiare, lui mostra a lei come si uccide un uomo e via discorrendo, fino a che non è ora di coricarsi.

All’infuori di Satana è uno di quei film che si amano o si odiano ed è ad ogni modo squisitamente francese. Sono del primo schieramento perché amo la scelta dei registi, degli autori preciserei, di non palesare nulla allo spettatore quasi fino alla fine e poi forse, chi lo sa, nemmeno alla fine. Alcuni si sentono presi in giro, altri parlano di esercizio di stile senza un soggetto ma con il preciso compito di infastidire lo spettatore.
E’ un film scomodo e lento, in cui la fotografia e i paesaggi magnificamente scelti, le dune di Pas-de-Calais, danno le coordinate spazio/tempo della storia, in cui l’ambiente e la natura comunicano molto, forse troppo a dispetto della piccolissima manciata di dialoghi.
Le Gars sembra essere colui che detiene le chiavi della Giustizia, in una concezione che trascende qualsiasi argomentazione vertente sulla morale, mentre la Fille suo malgrado, si fida del suo compagno, nutrendo per lui una stima che, poco alla volta, muta in qualcosa di più intimo e profondo, lui non la vuole baciare e non sembra interessato a lei in termini fisici.
E’un film sugli atti di fede in cui se lo spettatore banalmente abbassa la soglia di attenzione (e dura ma deve per forza di cose rimanere sempre attento) rischia di perdere tutti i collegamenti e in un attimo ritrovarsi spaesato in mezzo a questi luoghi neutri (la scelta in cui la Fille cammina sul cornicione ne è un esempio lampante). Hors Satan da un lato è esageratamente criptico, composto da simbolismi, ampi spazi e orizzonti metafisici, ma allo stesso tempo se si ha la forza di prenderlo sul serio, risulta essere molto lineare nella narrazione, che manco a farlo apposta non esiste.

Consiglio di non leggere la trama di alcuni siti che parlano di un demone e altri elementi che potrebbero fuorviare. Bisogna vederlo senza sapere nulla e cercare di accettare il punto di vista di Dumont, autore scomodo, che sicuramente non ama regalare nulla al suo pubblico.

martedì 10 febbraio 2015

Fee

Titolo: Fee
Regia: Fiona Gordon
Anno: 2011
Paese: Belgio
Giudizio: 3/5

Dom è il portiere notturno di uno scalcinato hotel di Le Havre. Una notte, una donna scalza e senza bagaglio di nome Fiona si presenta al suo bancone dicendo di essere una fata e di poter esaudire per lui fino a tre desideri. Dom chiede e ottiene una Vespa blu e una provvigione di benzina a vita, recuperate in modo tanto facile quanto imprevedibile, e si riserva di pensare alla terza richiesta. Nel mentre, i due s'innamorano, fanno un bambino, e incrociano la loro stralunata esistenza con quella di un solitario turista inglese e del suo cane, di un trio di ragazzini immigrati clandestinamente e di un barista cieco. 

La regia a sei mani che porta la firma in particolare di Fiona Gordon è la stessa che ha contribuito ai due film precedenti del singolare terzetto che sembra sempre di più comporre deliziose fiabe moderne e surreali, con un ritorno alla slap-stick scegliendo il clownesco come humus per creare una coinvolgente commedia burlesque che parla d’amore.
D’altronde Abel e Gordon hanno studiato teatro a Parigi con Lecoq e conservato una concezione del mestiere di attore fortemente legata alle figure del mimo e del clown. Ma d’altro canto è stata anche un’impresa ardua soprattutto nella quasi totale assenza di dialoghi e in cui il corpo è la fonte da cui dare voce alla vicenda.

Ci sono dei momenti di grande poesia nel film, avallati ad altri quadri raffazzonati per la velocità della messa in scena, che certo non possono risparmiare alcune critiche così come qualcuno diceva che il rischio era alto per cui ciò che è troppo stroppia, ma il duo, lei canadese e lui belga, dimostrano, facendo incontrare la piccola fiammiferaia con una sparuta fata incompiuta che questo piccolo e artigianale risultato se non altro è degno di nota.

giovedì 4 dicembre 2014

Don't Look Up

Titolo: Don't Look Up
Regia: Fruit Chan
Anno: 2011
Paese: Usa/Giappone/Sudafrica
Giudizio: 2/5

Una troupe cinematografica si trova in Transilvania per girare un film, la cui produzione si rivelerà più difficile del previsto: da una vecchia bobina ritrovata, contenente dei frammenti video con impresso l'omicidio di una donna, si scatena una potente e maligna forza oscura.

Un regista cinese che con una produzione americana gira il remake di un film giapponese al cui interno è presente un soggetto che parla di zingari e maledizioni rumene è il top del non-sense.
E'difficile capire cosa sia andato storto del film che vanta anche un cast abbastanza dignitoso e con un cameo di Roth assolutamente inutile, come la recitazione del protagonista, che guarda a caso sfrutta le sue continue visioni paranormali per realizzare film dell'orrore.
Forse problemi di produzione, forse che Chan questo genere riusciva a sposarlo meglio nel suo paese, che dal punto di vista tecnico il film è imbarazzante con una fotografia quasi amatoriale contando che stiamo parlando del regista di DUMPLINGS e l'episodio di THREE EXTREMES con Takashi e Chan-wook.
Secondo me le produzioni americane vogliono sputtanare i registi orientali facendoli dirigere queste schifezze atroci, e dall'altra gli orientali accettano per soldi tanto sanno che qualsasi film che fanno, soprattutto se è di matrice horror, verrà rifatto dagli yankees.
Sdoganamento del franchising dell'horror...

lunedì 17 novembre 2014

Monsieur Lazhar

Titolo: Monsieur Lazhar
Regia: Philippe Falardeau
Anno: 2011
Paese: Canada
Giudizio: 4/5

In una scuola elementare di Montreal un'insegnante muore tragicamente. Avendo letto la notizia sul giornale, Bachir Lazhar, un immigrato algerino di 55 anni, si presenta nella scuola per offrirsi come supplente. Immediatamente assunto per sostituire la maestra scomparsa, si ritrova in una scuola in crisi mentre è costretto ad affrontare un dramma personale. Poco a poco Bachir impara a conoscere il suo gruppo di bambini scossi ma attenti. Mentre la classe inizia il processo di guarigione, nessuno nella scuola è a conoscenza del passato doloroso di Bachir; nessuno sospetta che è a rischio espulsione dal paese in qualsiasi momento...

L'elemento che ho molto apprezzato del secondo film del giovane e promettente Falardeau, è lo sguardo diverso e raffinato con cui coglie il rapporto tra un professore e i suoi studenti, elemento evidenziato dalle diverse connotazioni culturali, e la personalità davvero insolita e nuova del suo intenso protagonista.
Bachir sembra quasi un filosofo, attento alla natura umana dei rapporti sociali e a domandare e domandarsi, proprio ponendo riflessioni morali su temi spesso angosciosi, come l'incidente scatenante del film o a scoprire le componenti del bullismo o delle tensioni che emergono nelle aule anche per i più futili motivi.
La solitudine familiare, l'approccio autorevole nei confronti degli studenti, senza mai dimostrare esitazione, l'attenta presa in carico del suo lavoro e le nutrite relazioni del professore, delinenano anche quell'importanza cruciale che sembra spesso svanire nelle nostre scuole, il più delle volte perchè non vi è la possibilità, e i professori sommersi dalla burocrazia e dagli impegni molteplici non riescono a gestire.
L'empatia con cui Bachir cerca di portare una cura al dolore e alla sofferenza della perdita, resta una delle scene più commoventi e importanti del film.


domenica 2 novembre 2014

Bellflowers

Titolo: Bellflowers
Regia: Evan Glodell
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

In un mondo dove sembra regnare incontrastata l'apatia, Woodrow e Aiden spendono le loro giornate fantasticando sulla possibilità di essere eroi in un futuro apocalittico, e per questo costruiscono lanciafiamme e automobili potentissime. La loro vita è dedicata principalmente a fantasticare, almeno finché il primo non inizia una relazione con Milly e tutto sembra filare per il verso giusto. Anche Aiden inizia a provare dei sentimenti più che amicali per la bella Courtney, la migliore amica della nuova fidanzata di Woodrow. Milly però ha messo in guardia il suo compagno: non è una ragazza facile con cui stare, e quando le cose tra i due cominceranno ad incrinarsi la furia sopita di Woodrow diventerà un pericolo per chiunque gli capiterà intorno.

E'una piacevole sorpresa tutto ciò che arriva dal Sundance.
Bellflowers è il tipico esempio di indie slacciato da ogni tipo di responsabilità nei confronti del pubblico. Un cinema libero di usare la propria giostra di mezzi personali (in questo caso fuochi, fotografia, colori e inquadrature) per dare quella patina kitch squisita e oltremodo sporca e rozza.
Voluto a tutti i costi dall'attore che poi è anche regista, ideatore, sceneggiatore e montatore, Bellflowers sembra esere costato una cifra come 17.000 dollari.
Inoltre vieni a scoprire che Glodell è un pazzo scatenato.
Sembra aver utilizzato le sue doti di direttore della fotografia per progettare le telecamere concepite esclusivamente per il film e le sue conoscenze di ex studente di ingegneria per costruire la Medusa, la macchina che vediamo nel poster, che a differenza della Batmobile non ha bisogno di effetti speciali: presenta anche nella realtà le stesse attrezzature, gli armamenti e i gadget da sopravvivenza, come potrà verificare di persona il pubblico.
Girato in tre anni di tempo e con incredibili sforzi, punta tutto su un sistema di messa in scena davvero efficace e in alcuni casi struggente oltre che poetica e romantica (come la disperata scena finale in cui Woodrow perde la testa).
Dall'altra invece non si discosta molto dal genere e in questo il soggetto pare un pò abusato contando che ci sono pure alcune piccole defezioni nello script.
Un film imperfetto e riuscito solo a metà, che se da un lato con le musiche e alcune scene riesce a fare breccia nel proprio caos sentimentale, dall'altro forse proprio l'estesa agonia di vederlo finito, ha portato ad una costruzione troppo macchinosa, che perde molto soprattutto nel pathos con cui il pubblico si avvicina ai personaggi.


lunedì 22 settembre 2014

4:44 Last Day on Earth

Titolo: 4:44 Last Day on Earth
Regia: Abel Ferrara
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

In un grande appartamento in cima alla città abita una coppia. Si amano. Lei è pittrice, lui un attore di successo. È un pomeriggio come tanti – eccetto che non è affatto un pomeriggio come tanti, né per loro né per chiunque altro. Perché domani, alle 4.44 di mattina, secondo più, secondo meno, il mondo finirà più velocemente di quanto il peggior catastrofista avrebbe potuto immaginare. Arriverà lo sfacelo finale, non senza preavvisi, ma senza vie d’uscita. Non ci saranno sopravvissuti. Come sempre, c’è chi accendendosi l’ultima sigaretta e stringendosi i paraocchi spererà in un qualche rinvio. Un miracolo. Non i nostri due amanti. Loro – come la maggioranza della popolazione della Terra – hanno accettato il loro destino; il mondo sta per finire.

Negli ultimi anni sembra che diversi registi amino confrontarsi con il tema post-apocalittico.
Forse le cause potrebbero essere diverse, come dare ad esempio un proprio sguardo verso questo momento che sembra accoglierci tutti senza distinzioni, oppure convergere in una sorta di pensiero filosofico dove non mancano le mode e lo spirito new-age per affrontare la paura dell'infinito.
Ferrara è un regista che apprezzo in particolare per le sue scelte spesso antiestetiche e il suo impegno nel confrontarsi con progetti difficili e spesso tutt'altro che commerciali.
4:44 Last Day on Earth è un film che potrà non piacere perchè sembra senza una partenza e un arrivo. Si potrebbe definire come un ultimo sguardo alla società da parte di un uomo che forse, come molti, non sanno più a cosa credere. In questo Dafoe riesce a cogliere le sfumature e tutti i dubbi e disagi morali del protagonista.


giovedì 26 giugno 2014

Theatre Bizzarre

Titolo: Theatre Bizzarre
Regia: AA,VV
Paese: Canada/Usa/Francia
Anno: 2011
Giudizio: 2/5

The Theatre Bizarre è un modernissimo CREEPSHOW narrato attraverso gli stili diversi di sette giovani registi dalle origini e dalle esperienze differenti.
Il filo tematico che lega i sei episodi in cui è suddiviso il film, è il teatro del "grand guignol" francese, cui si ispira tutta l'opera. Il Teatro parigino, situato nel Nono Arrondissement, dalla sua apertura, nel 1867, fino alla sua chiusura, nel 1963, si specializzò in spettacoli decisamente macabri e violenti.

Di solito i film horror a episodi non me li faccio mai scappare soprattutto quando ci sono alcuni elementi come il teatro, Ugo Kier, e una buona atmosfera a farmi pensare che siamo sulla strada giusta. Purtroppo in questo caso, anche se con alcune intuizioni, non è così.
Il primo episodio The Mother of Toads è di una banalità sconcertante, mischia elementi legati a Lovecraft raccontando di una donna-rospo che ha dei coiti con un tipo abbastanza sfigato.
Il sogno Freudiano di un marito infedele si confonde tra fantasia e realtà.
Un amante paranoico fronteggia la furia di una partner che è stata spinta troppo oltre i limiti.
Gli orrori del mondo reale sono reinterpretati dalla mente di un bambino.
Una donna troppo desiderosa delle memorie della altre persone viene curata in un modo decisamente particolare.
Un'ossessione perversa ma dolce si trasforma in un'amara realtà per una coppia ormai troppo dentro certe situazioni...
Insomma pur avendo alcuni buoni nomi come Gregory (PLAGUE TOWN) e Buck (SISTERS), non sembra esserci mai quella completa immersione in un'atmosfera malsana che forse viene fuori solo con le scenette all'interno del teatro in cui forse proprio centellinando la suspance, si riesce ad avere l'effetto previsto e non esagerato come capita in quasi tutti gli episodi.
Un film che slacciandosi fuori da una produzione commerciale stereotipata, poteva davvero dare molto di più e argomentare meglio alcuni squarci di storia prendendosi alcune libertà che di solito i registi ottengono con episodi come questi.
Bisogna accontentarsi ma il prezzo da pagare è alto e ancora una volta bisogna pensare a serie come MOH oppure FEAR IT SELF o PELICULAS PARA NO DORMIR per comprendere come alcuni registi talentuosi vogliano narrare le loro storie.
Purtroppo di idee carine o nuove o almeno fatte bene, in questi sei episodi ce ne sono pochine, anzi sembra proprio che questo film con la sua aria retrò, voglia nascondere la sua epoca di provenienza o cercare quanto meno di riscattarla senza averne i fasti.