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martedì 13 dicembre 2016

Zhit

Titolo: Zhit
Regia: Vasili Sigarev
Anno: 2012
Paese: Russia
Giudizio: 4/5

Un luogo imprecisato della Russia, oggi.
Tre storie che si intrecciano. Un comune denominatore: il lutto o, meglio, il tentativo di elaborarlo. Si sa, ognuno tende a superare una tragedia a modo suo, e non sempre ci riesce. Non è mica facile. Spesso si scelgono strade impervie, sentieri non tracciati, vicoli ciechi.

Zhit aka Living è un dramma lento e straziante ambientato in una imprecisata landa desolata russa. Tre storie di cui una in particolare riesce a far provare quel senso di ingiustizia, di squallore che sembra essere il modus operandi di una popolazione in parte sessista e maschilista soprattutto nelle aree periferiche e abbandonate dallo stato.
La donna, sempre lei, si ribella, si oppone, rendendosi presto conto che la militia russa e le istituzioni non stanno dalla sua parte e quindi dovrà elaborare e farsi carico di tutta la sofferenza attorno a lei. Una disamina sull'accettazione del lutto che come la giovane protagonista investe anche altre madri senza contare il supporto del prete e il suo ruolo di mantenere alto il peso della politica e delle istituzioni.
E'un film cupo e disperato, in cui l'illusione di poter credere e affidarsi alla giustizia sembra già perso in partenza in un paese gelido e complesso negli ideali che promuove.
La scena in treno e straziante, forse la peggiore, che colpisce con una brutalità lo spettatore e lascia impunita la tragedia diventando uno dei termometri maggiori di un film che in fondo approfondisce il rapporto con la morte.
Una coralità sui generis che abbraccia altre due store, anch'esse drammatiche sviluppate su altri drammi familiari e cambiando target generazionale.

Un film minimale, poche e scarne location che come il freddo e il bianco sembra assurgere ad una sorta di limbo dove le persone cercano di dare un obbiettivo alla loro vita senza impazzire o alcolizzandosi come unico divertimento dimenticandosi così e accettando parte delle ingiustizie e delle violenze.

Truffa perfetta

Titolo: Truffa perfetta
Regia: Michael Winnick
Anno: 2012
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

La storia è incentrata su John Smith, ingiustamente accusato di avere rubato un prezioso manufatto apache in un casinò. Il malcapitaro si ritrova a essere cacciato da assassini, sceriffi, cowboy, indiani, nativi americani, prostitute e sosia di Elvis Presley. E, purtroppo per lui, avrà solo 24 ore di tempo per chiarire la questione ed evitare di essere ucciso.

Gli americani spesso per cercare di dare smalto e curiosità ad un film che muore già negli intenti aggiungono accessori come in questo caso una sorta di taglio pulp (che ne sancisce un limite enorme dal momento che è di una stupidità imbarazzante) performance senza senso (Gary Oldman in formato Elvis) e un protagonista sborone e già a conoscenza di tutto che rischia di diventare estremamente noioso e antipatico.
Tutto il film è costruito su un colpo di scena finale che crolla malamente verso l'inizio del film (e tutto in realtà estremamente chiaro) cercando di creare un prodotto appunto di accessori, patetici abbellimenti e dialoghi così stereotipati da renderla una commedia unicamente commerciale e in fondo senza nessuna pretesa se non quella di fare qualcosa di già visto inserendo elementi a caso tra cui una bounty killer in tuta di lattice nero e formosa che quando si vede non fa altro che cimentarsi in sparatorie e acrobazie. Un intrattenimento purtroppo senza ritmo che non riesce in alcun modo a far ridere e Slater sembra essere il primo a non credere nel progetto.

Un fiasco totale.

venerdì 23 settembre 2016

Motorway

Titolo: Motorway
Regia: Pou-Soi Cheang
Anno: 2012
Paese: Cina
Giudizio: 3/5

Per il giovane Cheung, membro di una squadra della polizia specializzata in inseguimenti di auto, la cattura di Jiang diviene una sorta di ossessione, specie dopo le umiliazioni impartite da questi al dipartimento di polizia. Il veterano Lo dapprima cerca di dissuadere Cheung, per poi convincersi a dargli una mano, anche considerato l'antico conto in sospeso con Jiang.

C'è poco da fare. Anche quando gli orientali trattano i "b-movie" trasformano la merda in oro.
Poi di fatto parlare di serie B in un film che vanta alcune sequenze che da noi, nel cinema europeo, vederle stilisticamente così all'avanguardia capita quasi di rado è un altro discorso.
L'ultimo film di Cheang, pur avendo una trama abbastanza scontata, è una lezione tecnica, trovando in una perizia della messa in scena perfetta e a tratti all'avanguardia, delle scelte raffinate e stilisticamente impressionanti. Anche se la storia può apparire scontata, supera di certo quella saga tamarra americana e brutta di FAST & FURIOUS.
Motorway è un action minimale con un buon cast e il regista di KILL ZONE 2 e della saga di MONKEY KING (dunque stiamo parlando di qualcuno che sa dirigere gli action perlomeno da dio e non stupisce che sia uno dei pupilli di To).
Un film tutto di inseguimenti e di colpi di scena che in 80' non concede attimi di noia e cali di tensione.
Una truzzata con stile che riesce sempre bene agli orientali.



sabato 10 settembre 2016

Roman Polanski-A film memoir

Titolo: Roman Polanski-A film memoir
Regia: Laurent Bouzereau
Anno: 2012
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Era da tanto che aspettavo questa intervista.
Polanski oltre ad essere uno dei registi più importanti e interessanti della sua generazione è prima di tutto un uomo e un personaggio che ne ha passate davvero tante nella sua vita. Nel bene ma soprattutto nel male. Dunque un'intervista documentario era un'occasione troppo interessante per qualsiasi cinefilo interessato finalmente a saperne di più dal momento che il regista non aveva quasi mai rilasciato interviste e che decide di raccontarsi di fronte all'amico e produttore Andrew Brausenberg.
Il nazismo, la madre ad Auschwitz, la donna uccisa davanti agli occhi di Roman bambino - immobile di fronte al sangue che zampillava come da una fontanella, la deportazione del padre a Mathausen, la famiglia Manson e Sharon Tate e per finire la corruzione di una minorenne (consenziente) nel '77 che diede origine a una vera e propria persecuzione giuridica per la quale dopo la fuga dagli Stati Uniti in Europa si è arrivati all'arresto del regista nel 2009 in Svizzera.
Tra sorrisi, lacrime, emozioni e timidezza, Roman mostra un insolito coraggio e soprattutto rende chiaro un concetto che è quello di rialzarsi e non arrendersi mai.
Il cinema allora come per molti registi diventa un'ancora di salvezza attraverso cui raccontare la proria storia e le proprie vicissitudini, imparando e allo stesso tempo sbagliando, ma con l'obbiettivo di raccontare soprattutto nel caso in questione, di stupire e rimanere in alcuni casi anche scioccati.

Una vita che per fortuna o forse per stessa ammissione del regista non è mai stata banale e monocorde ma anzi struggente e piena di colpi di scena così come la descrizione del male che sottace ferino nell'individuo non è solo un leit motiv cinematografico, ma una infelice condizione personale.  

Blancanieves


Titolo: Blancanieves
Regia: Pablo Berger
Anno: 2012
Paese: Spagna
Giudizio: 4/5

La vicenda si svolge nel sud della Spagna, presumibilmente in Andalusia, tra gli anni '10 e '20 del secolo scorso. Carmen è una graziosa bambina, figlia del noto torero Antonio Villalta. L'uomo, pur essendo facoltoso, è paraplegico e ridotto su una sedia a rotelle, dopo un grave incidente nell'arena. Inoltre soffre per il dolore della perdita dell'amata consorte, deceduta in occasione del parto della figlia. È accudito da Encarna, un'infermiera ambiziosa e falsa. La donna, che brama il lusso e uno status sociale elevato, riesce a sposarlo e diventa la matrigna di Carmen. Consumata dalla gelosia, odia la figliastra e la tratta con dispotismo sadico. Fortunatamente la bambina gode delle amorevoli attenzioni della nonna, una famosa ballerina di flamenco che le insegna la danza. Suo padre invece le insegna segretamente l'arte della tauromachia, fino a quando è vittima della terribile vendetta di Encarna. Carmen, ormai adolescente, riesce a sfuggire dalla custodia della perfida matrigna e si unisce a un gruppo di toreri nani, diventandone la pupilla. Grazie ai loro insegnamenti diviene un torero di grande fama, assumendo il nome di Blancanieves. Trionfa nell'arena principale della città, suscitando la terribile ira di Encarna che assiste alla corrida.

La bellezza e il fascino del cinema è quello di riuscire a stupire e incantare rinarrandosi in maniere e schemi diversi dal solito. Per questo alcuni personaggi, eroi, mostri, e altro non moriranno mai. Perchè hanno la possibilità di essere reinterpretati usando una narrazione e forme compositive nuove, originali e diverse.
Biancaneve di Berger è un perfetto esempio.
Il regista spagnolo va a fondo, contamina la storia con leggende e folklore popolare della sua terra cimentandosi in una sfida ambiziosa e difficile ma che alla fine paga e ripaga tutti con la sua incredibile suggestione, un b/n elegante, una decisione di puntare sul cinema muto e alcune interpretazioni perfette e ruoli caratterizzati a dovere.
Vanità di vanità. Blancaneves rispetto ad alcune sue sorelle non ne ha.
Insegna come dicevo prima che per quanto un soggetto possa essere inflazionato, spetta a chi ha l'onere di mettersi dietro la cinepresa e alla sceneggiatura il compito più arduo.
In questa sua opera con molte travagliate difficoltà, il regista ha esaudito il suo desiderio e il nostro di vedere l'opera dei "maledetti" fratelli Grimm in tutto il suo splendore, nella sua drammaticità e allo stesso tempo poesia.
Blancaneves potrà continuare a specchiarsi ed essere sempre la più bella del reame.

Seasoning House

Titolo: Seasoning House
Regia: Paul Hyett
Anno: 2012
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

In un bordello dei Balcani, le ragazze rapite dai soldati nelle zone di guerre sono costrette a prostituirsi indifferentemente con soldati e civili. La giovane sordomuta Angel è costretta a prendersi cura dei clienti che sotto effetto di droghe si intrattengono con lei ma, all'insaputa dei suoi aguzzini, pianifica la sua fuga muovendosi tra le pareti e le intercapedini della casa. Quando i responsabili del massacro della sua famiglia si presentano al bordello per soddisfare i loro contorti appetiti, per Angel arriva il momento di passare ai fatti e mettere in atto la sua brutale e ingegnosa vendetta.

Hyett è un mestierante che ha solcato molti set inglesi importanti negli ultimi anni lavorando praticamente con quasi tutti i registi della nuova generazione del cinema di genere.
Questo suo esordio è un revenge-movie dove alla base si trova l'elemento migliore del film che purtroppo poi degenera facendo perdere parte dell'atmosfera e finendo per essere come tanti simili.
L'idea della guerra come teatro feroce di una consumazione di corpi come appunto la Seasoning House è forse lo spunto migliore.
Un universo di violenza sulle donne senza pari mentre la guerra nei Balcani fa da sfondo a tutto questo orrore in cui domina lo sporco e la perversione e in cui il regista è molto attento e preparato nel disegnare questo squallore.
Grazie ad un buon cast, le vittime tra i soldati nonchè la protagonista, funzionano e per tutta la durata anche nelle scene di vendetta più efferate, non c'è autocompiacimento, basti pensare che nemmeno le donne drogate che aspettano la loro sorte vengono mai mostrate nude.


venerdì 29 gennaio 2016

Sapore di ruggine e ossa

Titolo: Sapore di ruggine e ossa
Regia: Jacques Audiard
Anno: 2012
Paese: Francia
Giudizio: 4/5

Nel nord della Francia, Ali si ritrova improvvisamente sulle spalle Sam, il figlio di cinque anni che conosce appena. Senza un tetto né un soldo, i due trovano accoglienza a sud, ad Antibes, in casa della sorella di Alì. Tutto sembra andare subito meglio. Il giovane padre trova un lavoro come buttafuori in una discoteca e, una sera, conosce Stephane, bella e sicura, animatrice di uno spettacolo di orche marine. Una tragedia, però, rovescia presto la loro condizione.

Audiard è sicuramente da annoverare tra i più importanti registi francesi di questi ultimi anni.
Sembra proprio che i suoi ultimi film cerchino sempre più di elevarsi, a volte esagerando e senza trovare per tutta la durata una coerenza interna, ma insistendo su una politica e degli intenti robusti e cinematograficamente eccelsi e funzionali.
Prima di DEEPHAN e dopo IL PROFETA, questo film di redenzione, continua e insiste sui temi cari al regista, senza però portarli alle estreme conseguenze, ma monitorando una storia di disgrazie e di speranza, in un melodramma che non è mai romantico e banale, ma teso e intenso come la scioltezza dei dialoghi e le azioni dei suoi protagonisti.
Bravissimi e intensi i protagonisti. Matthias Schoenaerts sembra per certi versi il personaggio di BULLHEAD ma con meno ormoni e più cervello. La Cotillard è sempre eccezionale così come anche Bouli Lanners, attore purtroppo sempre in secondo piano.
E'un film senza tregua che non da mai pace ai suoi personaggi, vuoi perchè troppo carichi di adrenalina, ed è questa la scintilla che come per il cinema di Audiard, mischia insieme dramma e azione, sempre disomogenei e mai bilanciati, ma allo stesso tempo grezzi e affascinanti.

Dalla seconda metà in poi dopo gli incidenti scatenanti, le maschere che vacillano dei personaggi e una normalità apparente, la forza di tutto ciò che diventerà il riscatto e il disegno della provvidenza sulle spalle dei personaggi, diventa la parte migliore, dove la simbiosi tra Ali e Stephane trova tutta la sua carica esplosiva.

lunedì 5 ottobre 2015

Drug War

Titolo: Drug War
Regia: Johnnie To
Anno: 2012
Paese: Cina
Giudizio: 4/5

Un'unica lunga operazione antidroga, che inizia con la cattura di un gruppo di corrieri portatori di pacchetti di cocaina dentro il proprio corpo e mira ad arrivare fino alla cupola del narcotraffico. Tutto è visto attraverso le azioni di Lei, un funzionario di polizia sveglio e totalmente dedito alla causa (come il resto del suo team), e attraverso il rapporto che sviluppa con Ming, trafficante pentito che decide di fare il doppio gioco per la polizia tradendo i suoi sodali.

Johnnie to è uno dei più interessanti maestri di cinema contemporaneo capace di muoversi tra i generi come pochi e sapendo portare il poliziesco e il noir a dei traguardi incredibili.
Drug War ne è la perfetta dimostrazione. Non che bisognasse averne altre dopo i numerosi capolavori del maestro, ma Drug War è complesso, disturbante, drammatico, ipnotico, di denuncia oltre che recitato ottimamente.
Girato in maniera sontuosa è un film in primis di denuncia che attraverso un carosello di maschere e tradimenti, raffredda la manichea divisione tra buoni e cattivi facendocene cogliere tutte le ambiguità in un thriller sfumato e ricco di complessità.
To in conferenza stampa dice a proposito del film che la differenza tra i criminali di Hong Kong e quelli del Mainland è che i secondi devono fare i conti con la pena capitale.
E infatti uno dei temi più interessanti del film è proprio la tematica relativa alla pena capitale per i trafficanti di droga in Cina attraverso l'iniezione letale.
L'asetticità disumana di tale tortura (forse per la prima volta sugli schermi) vorrebbe dimostrarci che "il crimine non paga", ma la coda finale mette alla berlina un sistema che sfrutta, fino all'ultimo e senza pietà alcuna, la sua posizione di vantaggio per carpire informazioni e continuare la sua (giusta) crociata.
Dovendo scendere a compromessi con la censura cinese, per poter trattare il complesso tema della guerra alla (e per la) droga in Cina, il regista è dovuto passare attraverso non poche difficoltà, in primis la serie di lunghi controlli sulla sceneggiatura e sull'esito finale da parte del governo.
Drug War non ha eroi e non ci sono vincitori come non esiste un happy-ending.

E'tutto straordinariamente reale e coinvolgente. Vergognoso che in Italia non abbia fatto capolino se non in qualche festival.

martedì 29 settembre 2015

Colt 45

Titolo: Colt 45
Regia: Fabrice Du Welz
Anno: 2012
Paese: Francia
Giudizio: 3/5

Vincent, 25 enne poliziotto , preferisce la balistica e lo studio di nuove pallottole da fabbricare all'azione e ai gruppi operativi di cui non intende far parte perché di temperamento solitario e schivo. Preferisce fare l'istruttore di tiro e il consulente ma quando conosce il poliziotto corrotto Milo Cardena viene tirato dentro una guerra tra diverse fazioni di poliziotti, una guerra sangunosa che vede implicato anche il suo superiore, il comandante Chavez e che lo costringerà a venire a patti con il suo lato più oscuro.
Per sopravvivere dovrà passare per forza all'azione.

Du Welz è attualmente nella cerchia dei miei registi preferiti e non c'è bisogno che mi soffermi dal momento che basta dare un'occhiata alla sua breve ma intensa filmografia e la sua personalissima idea di cinema.
Colt 45 è un film di genere puro e senza compromessi, in termini di azione e violenza, un progetto che finalmente vede la luce dopo un periodo molto travagliato in cui il regista non ha potuto prendere parte alla post-produzione e di fatto uscito dopo quel capolavoro di ALLELUIA anche se girato prima.
La sceneggiatura è stata firmata da Fathi Beddiar, critico cinematografico di Mad Movies, appassionato di noir e cinema di genere e autore del saggio Tolérance Zéro: La justice expéditive au cinéma.
Colt 45 rispetto ai predecessori cambia traiettoria puntando sull'hardboiled in un polar moderno con un cinismo spietato e una critica aspra nei confronti delle istituzioni, sottolineando tutto il marcio che c'è dietro alcune lobby del potere in particolare quelle che dovrebbero occuparsi di giustizia.
E'un film in cui non manca l'azione, la suspance, il dramma, l'indagine e tutto il resto.
Recitato molto bene e con intense scene d'impatto emotivo e senza mai lesinare sulla violenza, appare tuttavia come il film meno personale del regista, forse potremmo definirlo (anche se non lo è) il più commerciale dei suoi film.
Un'opera che lascia comunque un duro colpo allo stomaco, lasciando nella disperazione pubblico e protagonista, in una lunga discesa negli inferi che non conosce sosta ma che alza invece sempre di più la posta man mano che procede nella sua indagine.

Colt 45 è stato girato in otto settimane a Parigi, è il film più costoso nella carriera di Du Welz, con un budget di 10 milioni di euro e che vede come direttore della fotografia sempre quel genio di Benoît Debie.

Found

Titolo: Found
Regia: Scott Schirmer
Anno: 2012
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Marty, dodicenne che ama guardare film horror e progetta di realizzare una graphic novel con il suo migliore amico, è il classico bravo ragazzo che a scuola ottiene buoni voti, ascolta gli insegnanti e non causa problemi. La sua esistenza prende però una piega oscura quando comincia a trovare delle teste mozzate nell'armadio del fratello maggiore Steve. Terrorizzato da quella che potrebbe essere la reazione del fratello nello scoprire che il suo segreto non è più tale, Marty si ritroverà a mettere a dura prova il suo amore fraterno in una spirale di eventi che provocherà molte vittime e distruggerà l'esistenza.

Found è come dovrebbe essere un horror.
Angosciante, inquietante e doloroso in alcune scene madri che difficilmente arriverranno alla psiche dello spettatore indisturbate come l'epilogo familiare che non mostrando crea una devastante violenza immaginifica.
Una tragedia che esplode in modo deflagrante e tremendo, una locandina e alcune immagini che possono ingannare lo spettatore portandolo a credere che il film sia uno splatter come tanti.
Invece il lavoro di Schirmer, un giovane esordiente che ha studiato teoria del cinema, sceneggiatura e metodologia della videoproduzione all'università dell'Indiana, inquadra in modo ipnotico, maturo e in fondo reale, il tema del fraterno declinato come aspetto del perturbante.
Il rapporto tra i due fratelli e la situazione famigliare è raccontata in modo funzionale per far emergere alcuni particolari inquietanti tra cui un disarmante vuoto affettivo e la difficoltà degli adulti a confrontarsi con la post-adolescenza di Steve e la fragilità di Marty.
Ora alcune lacune legate allo script non mancano e evidenziano il limite del film e della totale sospensione dell'incredulità da parte dello spettatore soprattutto legate alla serialità con cui il fratello psicopatico commette gli omicidi.
Ancora più notevole poi è il fatto che il film sia stato girato con ottomila dollari.


martedì 28 luglio 2015

Paura 3D

Titolo: Paura 3d
Regia: Manetti Bros
Anno: 2012
Paese: Italia
Giudizio: 2/5

Tre giovani amici della periferia romana, dove tutto scorre come da copione, si ritrovano tra le mani le chiavi di una bella villa in campagna appartenente allo strano e facoltoso Marchese Lanzi, fuori per il fine settimana per un raduno d'auto d'epoca. I tre non resistono alla tentazione di passare due giorni indisturbati nel lusso, ma qualcosa nella cantina comprometterà inaspettatamente i loro goliardici progetti.

Una caduta di stile e di intenti catastrofica per i Manetti Bros.
Dopo aver amato ZORA LA VAMPIRA, aver apprezzato PIANO 17 ed essermi vergognato con L'ARRIVO DI WANG, mi ha profondamente deluso vedere trattato in modo così banale e scontato il tema della tortura e con alcuni protagonisti particolarmente antipatici e investendo ancora una volta su una storia che definire canonica è poca cosa.
Credo si possa definire tramontata l'era dei Manetti Bros.
Il villain della situazione, un Peppe Servillo stereotipato al massimo, e non caratterizzato a dovere nonostante il talento, una struttura banale e scontatissima, un uso della violenza in parte gratuito e assolutamente non necessario che nel bagno di sangue finale risulta ingenuo e ridondante.
Alcune scelte davvero di poco gusto come l'occupazione della casa del Marchese (addirittura si portano le chitarre per i videogiochi) e alcuni momenti che non riescono a mantenere alta la suspance come ci si aspettava.
La critica lo ha risparmiato per il semplice fatto che in Italia il cinema di genere è morto, quindi nell'imbarazzo generale e nei film davvero inguardabili che vengono portati alla luce, Paura 3d può forse sembrare uno spiraglio ma non è affatto così.

Se Paura 3d (ma poi perchè in 3d...pensateci bene) è il primo horror della coppia di registi e mai la macchina del terrore fa paura o crea quella tensione necessaria, allora possiamo fin da subito, a meno di non essere ciechi, notare le innumerevoli incongruenze e limiti del film.

lunedì 29 giugno 2015

Oltre le Colline

Titolo: Oltre le Colline
Regia: Cristian Mungiu
Anno: 2012
Paese: Romania
Giudizio: 4/5

Alina torna dalla Germania per convincere l’unica persona che abbia mai amato, Voichita, assieme alla quale è cresciuta nell’orfanotrofio di un piccolo centro nella Moldavia rumena, a ripartire con lei. Quest’ultima però, nonostante l’affetto per l’amica, è entrata in un convento ortodosso e non sembra disposta a rinunciare a Dio. Alina, accolta temporaneamente nel monastero, decide allora di rimanere al fianco di Voichita, sperando di farle cambiare idea. Le conseguenze saranno impensabili e tragiche.

Mungiu al suo terzo lungometraggio fa di nuovo centro facendo incetta di premi a Cannes (vincendo come miglior sceneggiatura e migliori interpretazioni femminili).
Sceglie di nuovo due protagoniste, in cui è di nuovo la più forte a farsi carico delle debolezze dell'altra, e mette ancora una volta l'uomo a lato come una sorta di mentore che altro non fa che cercare di ottenere i suoi interessi in modo autoritario (come succedeva anche per il capolavoro precedente del regista).
In questo caso non è la gravidanza e l'aborto il tema, ma la religione, lo scontro tra civiltà e diverse anime abbandonate in un luogo isolato, asettico, ostile e soffocante.
La normalità è un concetto di maggioranza, questo è il monito che le monache sembrano dettare con le loro regole dentro il monastero e a cui l'insofferenza e il rifiuto di Voichita risulta un grido disperato in una muraglia di silenzi e gelo totale.
Mungiu è partito da un fatto avvenuto in un convento sperduto della Moldavia, nel quale una ragazza ha trovato la morte in seguito ad un esorcismo, e ha trasformato la cronaca dell'evento in evento cinematografico, (ri)aprendo grazie agli strumenti del cinema ciò che la storia aveva chiuso.
Un risultato che risulta ancora più efferato e brutale, soprattutto contando che le violenze sono perlopiù psicologiche e non fisiche, una mossa astuta che il regista rumeno compie in modo magistrale.
Oltre le colline è quel grido di libertà che non verrà mai udito, un inno di amore contro ogni costrizione, spirituale, materiale, scientifica

Forse l'unica nota dolente del film è la durata e alcuni momenti che sembrano eterni, ma fanno probabilmente parte di un limbo in cui il regista ci catapulta, per farci entrare ancora di più in empatia con Voichita.

sabato 27 giugno 2015

Simon Killer

Titolo: Simon Killer
Regia: Antonio Campos
Anno: 2012
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Uno studente del college laureato da poco vola a Parigi per lasciarsi alle spalle l'ex fidanzata. Partito con molte speranze, non riesce però a non pensare alla grave perdita ed essere uno straniero in una terra straniera aggrava solamente la sua situazione. Quando si innamora di una giovane prostituta, per lui ha inizio una difficile odissea.

“Visto da vicino nessuno è normale"
Il merito del film di Campos, regista indie newyorchese che aveva già fatto parlare di sè per AFTERSCHOOL, è di rimanere sempre in una via di mezzo tra esplosioni di violenza e calma apparente, grazie anche alla recitazione di un attore come Corbet, indimenticabile nel film MYSTERIOUS SKIN, che sempre con quell'aria da psicopatico ambulante, convince in un ruolo e una caratterizzazione rischiosa e scomoda.
Simon in fondo crea subito un'empatia forte con il pubblico, le sue scelte e le sue azioni sono impulsive e altalenanti, la sua psicologia è fragile quanto contraddittoria, trovando un perfetto sodalizio in una terra straniera, come quella di Parigi, che sembra periferica e pericolosa oltre che ostile (eccezzion fatta per alcuni incontri con delle ragazze solo apparentemente ingenue).
Uno studente neolaureato che dietro la parvenza da bravo ragazzo nasconde una fragilità allarmante, un border line, lo conosciamo e lo scopriamo poco per volta, camminando assieme a lui vedendolo cambiare e crescere in un rapporto anomalo con una bellissima prostituta molto più matura di lui.
Simon Killer è un film spiazzante e in parte disturbante, destinato a far parlare di sè nel territorio dell'indie perché così “estremo” nelle sue intenzioni da suscitare inevitabilmente una reazione, che come dicevo Campos è molto in gamba a non far mai diventare gratuita, ma giocata su degli elementi realistici e verosimili.

Un film in fondo ricco di intuizioni con un climax finale abbastanza originale e alcune musiche davvero raffinate.

lunedì 22 giugno 2015

Blackbird

Titolo: Blackbird
Regia: Jason Buxton
Anno: 2012
Paese: Canada
Giudizio: 4/5

Sean Randall, adolescente problematico, stringe una anomala amicizia con Deanna, una giovane ragazza già fidanzata. Dopo un violento scontro con il ragazzo di Deanna, Sean fa intendere con il suo atteggiamento minaccioso on line di voler fare una strage sul modello di quanto successo alla Columbine. L'intervento della polizia in casa sua rivela la presenza di un arsenale di armi - tutte appartenenti al padre di Sean, accanito cacciatore - e una lista nera contenente una ventina di nomi di persone, tutti in qualche modo legate a Sean. Mentre le autorità e i media proclamano di aver sventato in tempo un massacro senza senso, Sean si ritrova ad affrontare una terribile prigionia in un centro di detenzione giovanile e a dover tentare di dimostrare la propria innocenza.

Blackbird è un atipico film sul sociale, sulla paura della devianza, sull'omologazione, la redenzione e le vessazioni costanti dentro e fuori la società.
Un film inoltre sul potere dei media e sulla suggestione.
Il quarto film di Buxton è solido nella sua descrizione di un microcosmo in cui vive il giovane Sean con diversi problemi alle spalle giocando su una buona psicologia del protagonista (i dialoghi non sono quasi mai forzati o ridondanti) e sfruttando un cast poco conosciuto ma molto funzionale.
Il rischio di una seconda Columbine e la psicosi di gruppo degli adulti in un paesino impeccabile, ingigantito dalla debolezza dei tribunali, sembrano far emergere una critica nei confronti delle istituzioni che rovinano le certezze e il futuro di alcuni giovani, non riuscendo a trovare altre formule se non quelle della pena detentiva nonchè una sopravvivenza forzata.
Blackbird ha il merito in quasi due ore di spaziare dal contesto familiare e scolastico, a quello carcerario e del tribunale ed infine di tornare al paesino freddo di Sean che non ha creduto per un solo minuto della sua innocenza.



Fin

Titolo: Fin
Regia: Jorge Torregrossa
Anno: 2012
Paese: Spagna
Festival: TFF 30°
Giudizio: 3/5

Alcuni amici che non si vedono da vent'anni organizzano un weekend in una località sperduta dei Pirenei. Mentre la rimpatriata si trasforma in un inquietante ritorno al passato, gli orologi e i cellulari si bloccano, le auto non si avviano.

Sebbene il film di Torregrossa incappi in diversi evidenti limiti di sceneggiatura e corre il rischio come molti film apocalittici di non spiegare la causa degli elementi, questo film spagnolo di genere, dalla sua ha diversi elementi che ne sanciscono comunque una buona riuscita.
A partire dall'incidente scatenante, alle sparizioni, ad alcuni sottotrame, come il dover apparire sempre diversi costruendo maschere e false relazioni, fino alle location forse tra le scelte più funzionali ed esteticamente interessanti del film.
In più sempre riferendosi ad alcuni schemi che credo Torregrossa abbia apprezzato molto di alcuni film, una sovrapposizione tra la fine imminente e la venuta in luce di crisi nascoste tra i protagonisti, che gli eventi finiscono per mettere in evidenza (vi ricorda qualcosa?)
Interessanti alcune scelte davvero funzionali del regista e buona la fotografia che riesce a mettere in evidenza contrasti soprattutto tra giorno e notte nelle diverse ambientazioni.
Al Tff è stato ignobilmente distrutto dalla critica che ha sottolineato in particolar modo la mancanza dei mezzi da parte della regia.
Non credo sia così.

Se proprio bisogna trovare un compromesso tra i pro e i contro della pellicola, il maggior difetto è la fuga dei protagonisti da qualcosa che fino alla fine non si sa cosa sia.

martedì 9 giugno 2015

Deadfall

Titolo: Deadfall
Regia: Stefan Ruzowitzky
Anno: 2012
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

I fratelli Addison e Liza sono in fuga con il bottino rubato in casinò durante un colpo andato storto. Nel frattempo Jay, tormentato ex-pugile, sta andando alla cena del Ringraziamento con i suoi genitori, June e Chet uno sceriffo in pensione. Cosa succederà quando i loro mondi si scontranno per colpa di uno strano scherzo del destino?

Perchè abbassarsi a vedere un filmetto come Deadfall che già sulla carta sembra deludere? Semplice. Il cast. Eric Bana, quella gnocca sconcertante di Olivia Wilde e non per ultimo il Charlie Hunnam di SONS OF ANARCHY.
Un thriller purtroppo insipido nonostante alcuni elementi che potevano essere giocati in altri modi e portando ad una fuga multipla di vari reietti che poteva essere resa in modi diversi ma non di certo così scontati e deludenti.
Inseguimenti che sembrano autorincorrersi, scene di sesso troppo lunghe e allo stesso tempo insipide, qualche apprezzabile scena d'azione e di violenza che non lesina dita mozzate e un finale purtroppo molto scontato.

L'elemento forse che riesce a creare più tensione è la location immersa tra bufere di neve e luoghi impervi dove ognuno a suo modo cerca di sopravvivere scampando dalle tormente che sono di sicuro più minacciose delle forze dell'ordine e dei criminali.

lunedì 27 aprile 2015

Funeral Kings

Titolo: Funeral Kings
Regia: Kevin McManus
Anno: 2012
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Alla Saint Mark's Middle School di Rhode Island è sempre un buon giorno per celebrare un funerale. Andy e Charlie, due chierichetti, non perdono l'occasione di presenziare a ogni cerimonia, anche a costo di alzarsi presto alla mattina o di marinare la scuola. La loro irriverente personalità, ben presto, finirà con il metterli in una situazione troppo grande da gestire per due ragazzini.

Funeral Kings nonostante tutte le ingenuità e i passi falsi che commette, ha quella componente genuina e frizzante che lo salva dal flop che rischiava di inserirlo nella bolgia di film di formazione già visti, prevedibili e infarciti di scene telefonate.
Il senso di infrazione di qualsivoglia tabù dei due adolescenti protagonisti, due nerd brufolosi e con delle genuine facce da schiaffi, è la miccia che fa innescare una buona serie di momenti esilaranti (la festa in casa) altalenandoli in un dualismo tra doveri come chirichetti e desiderio totale di abbandono ed eversione nonchè rabbia, facendo i conti con i bulli borghesi.

Il tutto però ripreso da una coppia di fratelli alla regia attenti a non esagerare mai troppo, rimandendo in una realisticità senza mai dimenticare di come proprio dosando i tempi e i modi, si ottiene un convincente film.

domenica 19 aprile 2015

Thanatomorphose

Titolo: Thanatomorphose
Regia: Eric Falardeau 
Anno: 2012 
Paese: Canada 
Giudizio: 4/5 

Laura si trasferisce nel suo nuovo appartamento a Montreal e conduce una vita complessivamente vuota tra giornate passate al lavoro, nottate passate tra le braccia del focoso Antoine, suo amante che la considera alla stessa stregua di un mero oggetto sessuale, e una scultura in fase di composizione, fatta di materiali organici , che non riesce a terminare, testimonianza tangibile dello stallo in cui si trova la sua vita artistica e non.
A una festicciola tra amici conosce Julian che le riserva molte attenzioni ma poco tempo dopo Laura si accorge che il suo corpo si sta deteriorando sempre più.
Cerca di porre rimedio ma il processo appare senza ritorno.... 

Sembra che dopo Thanatomorphose, vera sorpresa dell'indie post-contemporaneo, il cinema americano abbia detto “cazzo ma allora bastava concentrarsi sulla marcescenza del corpo” e infatti nel giro di pochi anni sono arrivate piogge di film, di cui ne ho visti solo un paio, che sembrano aver preso l'idea e mischiata con i soliti clichè di genere per arrivare di fatto a non sorprendere assolutamente, perchè a differenza di Falardeau, non si hanno le idee chiare. 
La pellicola del regista canadese è davvero una chicca che merita di decollare verso più ampie classificazioni e riflessioni, oltre che interpretazioni, dando al film grosse chiavi di lettura tra cui quelle legate alla sfera sessuale e la crepa nel muro che ha la forma di una figa, con tutta una serie di riferimenti dietro che dovrete scoprire. 
Bello, audace, violento, macabro, grottesco, reale, cinico, tutto senza forzature, senza grandi nomi (la forza del film infatti non ne necessita), ma rimanendo semplice nella sua fattura quanto complesso nei suoi punti chiave. 
Mi ha davvero colpito e soprattutto, cosa che capita di rado, mi ha per un attimo violentato e fatto sprofondare in un abisso di desolazione e disperazione. 
Mi è piaciuto come ha accostato la decadenza fisica all'orgasmo, come il materiale organico della scultura sia diventata metafora del suo impasse creativo, come il sesso ancora una volta sia solo valvola di sfogo e consumazione di corpi (anche se in questo caso viene rammentato solo in una scena). Senza poi contare l'enorme incisività creata dagli effetti speciali, uniti all'uso del sonoro e della putrefazione e un ronzio mai così insopportabile. 
L'idea di casa, come prigione dell'artista e dimora del corpo, che sembra la condanna della nostra società in questo caso scarnificata come i colpi che Laura si infierisce con la spara chiodi per cercare di rimanere tutta attaccata, sono quel valore aggiunto che ci trasmette ansia e claustrofobia che degenera lentamente. 
In più il fatto che Kayden Rose sia più affascinante quando perde i pezzi che non da viva, è un elemento che non mi fa dormire sonni tranquilli. 
Thanatomorphose è una parola che serve ad indicare i segni visibili di un cadavere in decomposizione.

White Frog

Titolo: White Frog
Regia: Quentin Lee 
Anno: 2012 
Paese: Usa 
Festival: Cinemautismo 2015 
Giudizio: 2/5 

Nick Young è un giovane liceale sofferente della sindrome di Asperger e costantemente trascurato dai suoi genitori. L'unico ad occuparsi di lui è il fratello maggiore Chaz. Quando Chaz muore in un incidente stradale, Nick è costretto a fare affidamento solo a sé stesso per continuare ad andare avanti nella vita. Inoltre si ritroverà a scoprire aspetti del fratello di cui nessuno era a conoscenza, come la sua omosessualità e il suo sogno di diventare un ballerino. 

White Frog tratta la sindrome di Asperger, di cui il cinema non è che ci abbia regalato molti film, soprattutto in Europa. 
Lee combina svariati elementi e tendenze cinematografiche e lo stile si può dire eccellente nelle riprese, musiche e in parte anche nelle interpretazioni. 
Quello che funziona è l'approccio del protagonista al tema dell'omosessualità quando scopre appunto che il fratello maggiore, “l'ideal-tipo” della società in tutti sensi, era gay e Nick cerca di farsene una ragione frequentando i suoi migliori amici e imbastendo una battaglia con la famiglia borghese e perbenista. 
Quello su cui il film invece non funziona, è quello di ricorrere a straordinarie dosi di melanconia, più un termine che poco mi piace “lacrima-movie”, cercando e sfruttando alcuni cliché di genere per ottenere un grosso clamore finale come il dialogo del piccolo Nick che mostra come i sentimenti superino a volte drammi maggiori. 
White Frog è quel misto di teen movie ( ci sono attori di Twilight), gay movie, film sulla malattia che alterna dei passaggi interessanti ad altri un po più ingenuotti e telefonati che sembrano cuciti apposta per dare maggiore effetto. Probabilmente nelle mani di Gregg Araki sarebbe stato un mezzo-capolavoro.

Leggenda di Kaspar Hauser

Titolo: Leggenda di Kaspar Hauser
Regia: Davide Manuli
Anno: 2012
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Giunto su una spiaggia disabitata del Mediterraneo, in un tempo e un luogo imprecisati, Kaspar Hauser è costretto a confrontarsi con la malvagità di una Granduchessa che sente minacciato il potere da lei esercitato sulla comunità. Per liberarsi dell'intruso biondo, costei chiede aiuto al Pusher, un criminale con cui ha una relazione, che sa come liberarsi del "nemico". Peccato che non abbia fatto i conti con lo Sceriffo, un dj che considera Kaspar come il nuovo Messia.

Penso che l’esordio di Manuli sia uno dei film italiani esteticamente più belli degli ultimi cinque anni.
I meriti sono tanti e doverosi. 
In primis la fotografia di Tarek Ben Abdallah. 
In secondo luogo le musiche dei Vitalic davvero ipnotiche e suggestive. In terzo luogo le scenografie naturali della Gallura scarne e infinite. 
In ultimo il cast, bizzarro e atipico, quindi, in questo caso, un’operazione riuscita (eccezion fatta per la Gerini che stona).
Un film sperimentale (un western di fantascienza?) di quelli che si amano o si odiano, ma quando si amano, il risultato è lasciarsi invadere mente e corpo da immagini mozzafiato, alcuni sketch che ricordano Cipri e Maresco e la Calderoni e Gallo che ballano in modo divino.
Con un calvario produttivo di tre anni, questo film vide la co-produzione di Bruno Tribboli, Alessandro Bonifazi della Blue Film e dalla Shooting Hope Production di Davide Manuli, con in più la collaborazione di Fourlab e il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Regione Autonoma della Sardegna e della Regione Lazio.
Pochissimi e coraggiosissimi i distributori che in Italia hanno creduto in questo film. Uno scandalo dall’altra parte che un’opera coraggiosa e insolita come questa non sia rimasta per più di una settimana nelle sale.
Un film, un’opera, una colonna sonora da ascoltare con le cuffie della protagonista e con cui lasciarsi proiettare verso mondi lontani su di un’astronave magica come quella che appare all’inizio.