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giovedì 19 luglio 2018

Body Melt



Titolo: Body Melt
Regia: Philip Brophy
Anno: 1993
Paese: Australia
Giudizio: 4/5

Più vicende che vedono protagonisti alcuni personaggi legati fra loro da un unico filo conduttore: la vitamina Vimuville. Si tratta di un prodotto realizzato da un'omonima industria farmaceutica, mirato alla cura e al mantenimento del fisico. Una volta entrato in circolo nel nostro corpo, il Vimuville crea dapprima allucinazioni, per poi culminare con uno spaventoso effetto a catena che si sviluppa rabbiosamente all'interno dell'organismo, sciogliendo i corpi di chi ne ha fatto uso.

Tra i film che hanno reso interessante il sotto filone dell'horror Body bags è sicuramente il Melt Movie (film dove sono presenti liquefazioni di corpi) e figlio di quel Body Horror che tutti amiamo.
Un genere bizzarro e weird che sempre con sangue a profusione ha avuto una sua piccola filmografia dopo i successi dei primi due film di Jackson evidenti caposaldi del genere e dopo altre incursioni da parte per esempio degli orientali su tematiche simili come gli esperimenti sul corpo ad esempio in NAKED BLOOD dopo essere passati dalla lente di Tsukamoto per i suoi Body Horror.
Body Melt è un po Troma, soprattutto la parte dei bifolchi, è un po tante cose che ci raccontavano la vita e la "quotidianità" degli australiani.
Multinazionale farmaceutica, trasformazioni, palestrati impasticcati, nella galleria di elementi con cui Brophy farcisce il suo film per farlo diventare quella schifezza purulenta che tutti aspettavamo non si è davvero risparmiato niente cercando però fino all'ultimo di portare avanti anche la sua critica e la sua politica su quanto queste pasticche e gli interessi da parte di dottori e squali delle grosse aziende pensino solo ai profitti senza avere nessun tipo di riguardo nei confronti dei pazienti (la scena della donna incinta con il feto/poltiglia che attacca il marito è incredibile).
Le scene cult sono davvero troppe è inutile provare ad elencarle tutte.
Un cult con una messa in scena che ha dell'incredibile a partire dalla fotografia e dai colori sgargianti senza mai arrestare il ritmo del film ma anzi passando da uno scenario all'altro in cui le situazioni tragicomiche, quelle poche che ci sono, si susseguono senza sosta .
Un horror trash favoloso che a distanza di anni non perde nessun colpo, anzi e in cui le fantasiose scene splatter sono montate in maniera rapida e convulsa, con vorticosi ed improvvisi movimenti di macchina per sottolineare gli effetti letali della vitamina come succedeva in Baby Blood prodotto anch'esso anarchico e splatter uscito in Francia tre anni prima.

mercoledì 11 ottobre 2017

Strange Colours

Titolo: Strange Colours
Regia: Alena Lodkina
Anno: 2017
Paese: Australia
Giudizio: 4/5

Una donna intraprende un lungo viaggio per ricongiungersi con il proprio padre malato e provare a ricostituire un legame che si è andato indebolendo nel corso del tempo.

Per il suo film d'esordio, Lodkina sceglie una storia semplice di riflessione e inquietudini.
Un viaggio nostalgico dentro le proprie radici familiari e fuori nella remota comunità nell'Outback australiano sempre affascinante con le sue regole e dove coloro che ci abitano, ormai quasi più solo vecchi, non sono altro che emarginati con un ferreo ideale di libertà, impegnati ad estrarre Opale dalle miniere. Proprio le miniere, le abitazioni, l'ambiente malsano che ricorda in diversi punti il capolavoro sull'Outback australiano Wake in fright riescono ad essere visivamente molto affascinanti. Un film dicevo di silenzi e distanze dove Milena avvicinandosi alle sue origini ne entra in contatto conoscendo gli amici del padre e a volte le loro strane abitudini come quella di sorprenderla in piena notte, oppure incontrare vecchi amori e chiedersi cosa non abbia funzionato. Tutto scorre tra paesaggi desertici e capanne di legno, un ambiente che comunica moltissimo diventando iconico nel cercare di dare risposte e far riflettere la sua protagonista. E poi i dialoghi con il padre riescono a non essere mai didascalici ma invece nudi mostrando le fragilità di entrambi in alcuni punti quasi commoventi.





domenica 4 giugno 2017

Scare Campaign

Titolo: Scare Campaign
Regia: Cairnes
Anno: 2016
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

Il popolare show televisivo Scare Campaign ha divertito il pubblico negli ultimi cinque anni grazie al suo mix di paure vecchio stampo e telecamere nascoste. Una volta entrati in una nuova era di tv on line, i produttori si ritrovano di fronte alla volontà di realizzare una serie web dal taglio molto più duro, che rende il loro show ancora più caratteristico e singolare. Per loro, è arrivato il momento di alzare la posta in gioco e di rendere il terrore ancora più tremendo, finendo però con lo scegliere come vittima la persona sbagliata.

Ogni tanto arrivano delle piacevoli sorprese in grado se non di spiazzare almeno di regalare qualche reale sorriso per quanto concerne alcuni colpi di scena inaspettati.
Ormai l'Australia sempre più si sta concentrando sull'horror in particolare lo splatter e i territori inospitali e le lande desolate dei nostri cari amici bifolchi in quel "redneck" che tutti conosciamo.
Ora questi fratelli Cairnes riescono in un'operazione interessante che riesce a portare a casa un traguardo soddisfacente in un'unica location. Dall'inizio fino al climax finale e se vogliamo all'ultima parte del terzo atto, purtroppo con un finale posticcio, il film funziona e regge proprio su un'atmosfera davvero ben studiata con un ritmo che riesce ad essere sempre travolgente e la tecnica di aprire un twist dopo l'altro, una matrioska perfetta che sembra non finire mai.

Il film apre poi un sipario interessante e politicamente necessario da inserire di questi tempi dopo alcuni recenti scandali e dati che germogliano sinonimo di quanto diventa sempre più possibile seguire tutto ciò che avviene in rete. Denuncia il peso di alcuni siti (e qui il passaggio di come si inserisce il filone snuff-movie nel film è purtroppo la parte meno originale e più scontata) e soprattutto quello dell'audience per cui si cerca di esagerare il più possibile con i contenuti per avere sempre la fascia dei consumatori giovani ovvero i nuovi adolescenti che fagocitano contenuti violenti sul web con una foga inquietante.

domenica 28 maggio 2017

Hounds of Love

Titolo: Hounds of Love
Regia: Ben Young
Anno: 2016
Paese: Australia
Giudizio: 2/5

La diciassettenne Vicki Malonie si imbatte in una coppia di pericolosi maniaci che la rapiscono in una strada di periferia. Osservando le dinamiche del rapporto che lega i suoi torturatori, Vicki capisce presto che, per poter restare viva, dovrà far leva su un possibile punto di rottura tra i due...

Cosa si è costretti a fare per comprare dell'erba. Ben Young è fresco, giovane e alla sua opera prima si immette in un binario che negli ultimi anni piace particolarmente ai registi esordienti vista la parentesi, unica location, quindi una produzione di fatto molto low budget.
Una coppia urbata e diabolica di maniaci sessuali diventa il punto di partenza in annate che vedono perlo più seviziatori, killer seriali, mentre di coppie se ne sono viste poche.
Ambientando la vicenda negli anni '80 Young si ispira a fatti realmente accaduti, anche se non si riferisce a nessun caso di cronaca specifico. Si tratta, più che altro, di una rielaborazione personale del regista a partire dalle testimonianze di alcune donne serial killer rinchiuse in carcere.
Il risultato è altalenante. Sembra che per quanto concerne la psicologia dei personaggi e l'attenzione di Vicki a studiare atttentamente le mosse dei suoi aguzzini il lavoro e l'atmosfera dimostrano un buon tentativo tuttavia non sempre funzionale ma rimanendo traballante in più momenti.
Il climax finale e le violenze (ho apprezzato la scelta di Young di non mostrare mai lo stupro e le violenze facendo soltanto intuire cosa succeda nello stanzino) soprattutto le grida che diventano ad un tratto insopportabili, diventando strumenti abusati e ripetuti ad oltranza.
La storia secondaria della mamma di Vicki che nonostante la rinuncia della polizia continua a portare avanti la ricerca è abbatanza interessante anche se spesso viene lasciata da parte e non sviluppata a dovere (un altro elemento a sfavore e che si piazza verso la fine del seconto atto).

Il momento in cui la madre arriva nel quartiere dove pensa si possa trovare la figlia e la conseguente scenata e una delle scene più belle del film così come la chiusura in cui guardando dallo specchietto retrovisore puoi rimanere piacevolmente stupita.

martedì 25 aprile 2017

Tanna

Titolo: Tanna
Regia: Martin Butler
Anno: 2015
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

In una società tribale del Pacifico meridionale, una ragazza, Wawa, si innamora di Dain, il nipote del capo tribù. Quando una guerra fra gruppi rivali si inasprisce, a sua insaputa Wawa viene promessa in sposa ad un altro uomo come parte di un accordo di pace. Così i due innamorati fuggono, rifiutando il destino già scelto per la ragazza. Dovranno però scegliere fra le ragioni del cuore e il futuro della loro tribù, mentre gli abitanti del villaggio lottano per preservare la loro cultura tradizionale anche a fronte di richieste di libertà individuale sempre più incalzanti…

Tanna ci invita a scoprire come ultimamente è accaduto con il colombiano EL ABRAZO DEL SERPIENTE la sempre più piccola realtà delle società tribali.
In questo caso la coppia di registi analizza i paesaggi e il melò tra i due protagonisti di Tanna, l'isolotto che fa parte dell’arcipelago vanuatuano, dominato dall’incombente figura del Tukosmerail, il vulcano attivo che si erge oltre i mille metri di altezza, e circondato da acque cristalline.
Oltre ad essere il primo film parlato in lingua bislama, questo strano lungometraggio che alterna documentario e melodramma, analizza tutte le tappe e i processi che avvengono all'interno di un viaggio sentimentale e antropologico naturalisticamente parlando affascinante oltre misura.
Cerca di sondare il dramma della scoperta al valore narrativo senza dover ricorrere a forzature evidenti, che invece di quando in quando fanno la loro apparizione nei dialoghi.
Tutti quei passaggi che troviamo nei testi antropologici e nel testo profetico di Girard qui prendono sembianze trasformando lo scenario in un connubio di passaggi e rituali che investono i matrimoni combinati, lo stregone e la magia, la vittima sacrificale e il capro espiatorio e infine riflette lo splendore della natura attribuendogli un valore narrativo.
Gli attori, che poi sono i membri della tribù, sono fantastici e i sorrisi di Wawa da soli bastano a regalare quella naturalezza e e semplicità che sembra ormai scomparsa nella nostra civiltà.

Wawa e Dain furono ribattezzati "Romeo e Giulietta" e fino ad oggi sono stati i primi a ribellarsi dinanzi ad una tradizione tanto secolare quanto barbara, imponendo alla silente donna un uomo a lei sconosciuto. Diventati leggenda, tanto da ispirare una canzone d'amore che i due registi faranno risuonare nella parte finale del film, Wawa e Dain si ritrovarono a dover scegliere tra la potenza dell'amore e il futuro della loro tribù, minacciata e messa in pericolo dal loro inedito e 'disperato' gesto' di ribellione.  

sabato 8 aprile 2017

Cat Sick Blues


Titolo: Cat Sick Blues
Regia: Dave Jackson
Anno: 2015
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

Quando l’amato gatto di Ted muore, il trauma rompe qualcosa nella mente dell’uomo, spingendolo a riportare in vita il suo amico felino: tutto quello che serve sono nove vite umane.

Cat Sick Blues fa parte di quei film strani, bizzarri e senza senso come ad esempio Greasy Strangler e Found. Quei film che guardi, che ti domandi il perchè mentre vai avanti nel non sense, ma che per qualche strana ragione ti incuriosiscono con quel loro essere bizzarri e grotteschi a volte in maniera eccessiva ma sempre funzionale alla causa weird.
Bisogna volersi male e sapersi prendere dei sonori schiaffoni quando si entra in questi sotto filoni di genere che sembrano sfuggire alla cinematografia indie underground folle e imprevedibile quanto a volte senza senso e fine a se stessa.
Gatti+Psicopatici+Travestimenti+Falli giganteschi con creste di gallo lubrificate+tante altre cose strane=un mix folle e malato, violento e perverso su come a volte le bestie che possediamo siano più intelligenti di noi. In tutto il film, tra l'altro senza avere una continuità fluida ma risultando spesso macchinosa, scopriamo che tutti i protagonisti sono soli e davvero bizzarri come la protagonista che per lavoro faceva video al proprio gatto e li postava su youtube, poi un bel giorno un ragazzo con evidenti problemi mentali le uccide il gatto per sbaglio, lo getta dalla finestra, la stupra, si porta via la videocamera che documenta il tutto e la lascia in giro in modo che la violenza sessuale finisca in rete e rovini la vita della giovane.
Jackson è giovane, è stato finanziato su Kickstarter con 14,5 mila dollari e alla sua opera prima firma uno splatter sadico imbevuto di una critica sociale non sempre pungente ma con qualche elemento interessante, dall'odiosa invasione di foto di gattini, alla fragilità individuale nella sovraesposizione socialmediatica, ai rischi che comporta confondere ciò che è reale da ciò che non lo è e infine alla solitudine in cui ci releghiamo consapevolmente passando il nostro tempo davanti a un qualsiasi schermo

giovedì 22 dicembre 2016

Wish you were here

Titolo: Wish you were here
Regia: Kieran Darcy-Smith
Anno: 2011
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

Quattro amici, due coppie, intraprendono una vacanza spensierata in Cambogia, ma solo tre di loro tornano a casa. Man mano che la storia del film si dipana, si comincia a capire cosa è successo durante il viaggio e quali siano i ruoli e le responsabilità di ciascuno di essi.

Wish you were here è stato il biglietto da visita di Kieran Darcy-Smith che dopo alcuni corti interessanti e un horror trascurabile si cimenta su un thriller in terra straniera.
L'idea di due coppie in vacanza dove succederà ovviamente qualcosa di tremendo è materia abusata su larga scala nel cinema più o meno inserito in diversi generi e sotto-generi (l'horror su tutti).
Ora l'intro è interessante, i personaggi sono caratterizzati abbastanza bene a parte lo scomparso Jeremy (interpretato dal protagonista della serie BANSHEE) il quale non si capisce bene che giri loschi abbia ma di fatto gioca un ruolo che assieme all'idiozia elevata nel climax finale di Dave ( il protagonista) porta e consuma il dramma su un finale prevedibile ma d'impatto.
Dal punto di vista tecnico, la regia non promuove chissà quale linguaggio preferendo tanta telecamera a spalla nelle strade cambogiane e un'ottima fotografia che da risalto alla bellissima e poco conosciuta location. Certamente un passo in più del regista che sfrutta molto nel montaggio gli archi temporali e i flashback come strumenti principali e coordinate per intessere la storia.
Un film che soprattutto nel finale conferma una morale di alcuni giovani-adulti che fanno difficoltà a tenere a freno le inibizioni (l'incidente scatenante, l'epilogo della festa in spiaggia) che mostrano i pugni alla prima difficoltà (ricordiamo che sono australiani) e non hanno proprio quel rispetto dell'altro culturale che dovrebbe essere una costante dei viaggiatori.

Un film bello e scomodo, mediocre e imperfetto, poco originale ma con alcune scene d'affetto e un'atmosfera che non abbassa mai il livello di tensione senza però amplificarlo mai se non in brevissime sequenze.

domenica 18 settembre 2016

Wake in Fright

Titolo: Wake in Fright
Regia: Ted Kotcheff
Anno: 1971
Paese: Australia
Giudizio: 5/5

John Grant, giovane insegnante australiano di discendenza britannica, viene trasferito nell'entroterra, in una comunità popolata quasi esclusivamente da gente senza morale, primitiva e derelitta. Interessati più alla macellazione dei canguri e alle depravazioni sessuali piuttosto che all'educazione e alla decenza, i nuovi concittadini fanno precipitare John in una profonda discesa verso la degenerazione personale.
Wake in Fright è diventato istantaneamente un cult.
Un film enorme, maledetto, affascinante quanto bizzarro.
Un'indagine sociologica su un male sociale accettato e diventato presto un concetto di normalità.
Di nuovo un singolo individuo che viene letteralmente schiacciato dagli eventi e dalla natura che gli sta attorno.
"La storia di Wake In Fright, un classico del cinema australiano che fu girato nel 1971 dal regista di Rambo, concorse a Cannes per la Palma d’Oro ma fu a tal punto odiato dal suo stesso paese che per 38 anni scomparve dalla circolazione prima di essere ritrovato su un camion diretto al macero, restaurato da Martin Scorsese".
"1971: l’Australia si arrabattava per creare un patrimonio cinematografico nazionale, c’era un forte desiderio di cinema patriottico da esportazione. Un film girato da un canadese, scritto da un giamaicano e con due protagonisti inglesi, che diffondeva un’immagine degli Australiani così distopica, doveva necessariamente essere boicottato. E infatti Wake In Fright, dopo un’ottima accoglienza a Cannes (in corsa per la Palma d’Oro) e poi nelle sale francesi (dove restò per cinque mesi di seguito) ed inglesi, promosso dalla critica di tutto il mondo, fu un colossale flop in patria, anche a causa della pessima promozione della United Artists. Durante una delle prime proiezioni uno spettatore balzò in piedi urlando “Quelli non siamo noi!” e Jack Thompson (Dick nel film) gli rispose “Siediti, amico. Si che siamo noi!”. Anche in tv, dopo la prima messa in onda, scivolò nelle programmazioni notturne. Il fallimento al botteghino lo scaraventò in un oblio durato più di trent’anni. Il film, letteralmente, scomparve, trasformandosi in introvabile oggetto di culto, amatissimo da Nick Cave (“Il miglior film di sempre, e il più terrificante, sull’Australia”)".
"Ted Kotcheff, prima delle riprese, passò diverse settimane a studiare il comportamento della gente, sopratutto nei pub. Intervistò l’editore di un giornale locale, che gli aprì gli occhi su un dettaglio-chiave: nell’Outback australiano ci sono tre uomini per ogni donna. “Dove sono i bordelli?”, chiese Ted. “Non ci sono bordelli”. “E cosa fanno per avere un contatto umano?”. “Fanno a botte”.
Durante le riprese, una mattina il regista si accorse che tutti gli elettricisti e gli operatori di camera avevano gli occhi pesti ed un bel mucchio di lividi. Venne a sapere che la sera prima era scoppiata una rissa, quando uno degli elettricisti aveva chiesto, al bar di un hotel, del latte. Dopo la risposta del barman “Non serviamo checche” si scatenò il finimondo.
Probabilmente, quindi, non è solo la famigerata caccia ai canguri ad aver allontanato gli australiani dal film. Forse la vera causa è l’omosessualità travestita da cameratismo che aleggia per tutta l’opera, fino ad esplodere nello stupro ai danni di John. Ted raccontò di essersi cimentato, inevitabilmente, nel two-up, il doppio testa o croce che vediamo nel film: lui, che all’epoca aveva l’aspetto di un hippie, fu tanto fortunato da ripulire le tasche di tutti i presenti. Si sentì costretto, per evitare che l’ostilità prendesse il sopravvento, ad organizzare una grande festa durante la quale pagò da bere a più di cento persone."
Un manifesto dunque di un paese. Un film nichilista che come altre opere ha il pregio di dissacrare uno spaccato di realtà, senza per questo dover essere emarginato e distrutto.
Straordinarie le interpretazioni su cui svetta quella dell'immenso Donal Pleasence.
Se vogliamo possiamo quasi definirla una descrizione di alcuni "redneck" australiani anche se la definizione non è propriamente esatta ma serve a fare da cornice.
Un film che narrativamente dura pochi giorni, di un angoscia incredibile, una discesa nell'abisso di contese e alcool, un viaggio nell'oblio e allo stesso tempo una critica feroce contro lo sterminio dei canguri (a quanto pare ne venivano massacrati di notte circa cento prima che si lottasse per una legge che vietasse tale scempio).
E'una vergogna che sia ancora inedito da noi.
Uno dei pochi film che riesce a trasmetterti l'orrore legato all'abuso di alcool, lasciandoti dopo la visione, imprigionato in una sorta di delirio allo stesso tempo così profondamente vivo e realistico.




mercoledì 30 dicembre 2015

Pack

Titolo: Pack
Regia: Nick Robertson
Anno: 2015
Paese: Australia
Giudizio: 2/5

Un contadino e la sua famiglia devono lottare per la sopravvivenza dopo che un branco di cani selvatici ha circondato la loro casa.

The Pack è una conferma di come il cinema australiano possa regalare opere interessanti e originali a dispetto di altre imbarazzanti e costipate di luoghi comuni.
Il branco appartiene alla seconda categoria purtroppo.
Home invasion, thriller stereotipato, horror? I problemi del film di Robertson sono tanti, forse troppi, a partire da una totale assenza di colpi di scena, ad un ritmo ridondante e noioso, e per finire "loro" i cani selvatici, che sembrano non accorgersi dei componenti della famiglia all'interno della casa passandoci vicino senza nemmeno fiutarli.
Proprio il fiuto è mancato al regista, il problema di fondo più che nella parte tecnica che si difende bene, è proprio nella scrittura che non accenna e non osa nulla preferendo una elementarissima storia con una elementarissima familia e un telefonatissimo svolgimento.
In Pack tutto sembra essere ridotto all’essenziale ma nel senso brutto della parola.

Sembra un remake del film THE PACK del '77 solo che lì era un'isola e qui una fatiscente casa in mezzo alla campagna.

martedì 29 settembre 2015

Plague

Titolo: Plague
Regia: Nick Kozakis, Kosta Ouzas
Anno: 2015
Paese: Australia
Giudizio: 2/5

Un piccolo gruppo di sopravvissuti cerca rifugio da un'infezione che si è diffusa come una piaga sul genere umano. Evie, con la sua compagnia di sopravvissuti, trova un rifugio nell'attesa del ritorno di suo marito John. A seguito di un attacco di infetti, Evie rifiuta di abbandonare il marito contro il volere del gruppo. I sopravvissuti si ribellano lasciando Evie ad un destino incerto. Con l'inatteso arrivo di Charlie ciò che pare essere l'occasione per un nuovo inizio si trasforma rapidamente in una minaccia tanto orribile quanto gli infetti che li inseguono.

Bisogna avere una bella faccia tosta o infinite dosi di coraggio per portare in scena vicende legate agli zombie senza avere un guizzo di originalità.
I quasi esordienti registi che si sono pagati tutto da soli sborsando trecento mila dollari, hanno portato a casa e in alcuni festival, un'idea che partendo dallo zombie come elemento destrutturante in un'ottica post-apocalittica e soprattutto di survival-movie, cerca a partire da questo elemento di fare un lavoro legato più alla riflessione sui rapporti di forza, le debolezze e le prepotenze in campo sociale piuttosto che un vero scontro vs zombie alla Romero.
Alcune scene splatter sono così esagerate che risultano un concentrato di involontaria ironia (la scena del vecchio a cui esplode la faccia dopo la fucilata o alcuni inseguimenti che sembrano improvvisati e in cui gli attori tutto fanno tranne che dare realisticità ai fatti)
Il limite più forte del film però è legato ad un plot poco originale, ad una regia asciutta e non particolarmente incisiva soprattutto nella direzione del cast.


martedì 9 giugno 2015

Wyrmwood

Titolo: Wyrmwood
Regia: Kiah Roache-Turner
Anno: 2014
Paese: Australia
Giudizio: 2/5

Barry, meccanico e uomo di famiglia, lotta per salvare la sorella che è stata rapita da dei soldati alla vigilia di un'apocalisse zombie. Dovrà combattere sia i non morti che i militari.

Dall'Australia, paese sempre più prolifico e delirante o spiazzante in alcune sue scelte di cinema e di genere, non è la prima volta che si cimenta con il filone zombie movie (UNDEAD e CARGO solo per fare due esempi recenti abbastanza convincenti).
Grazie alla sempre più gettonata idea di rivolgersi alla Indiegogo hanno infatti messo in piedi una campagna di crowfunding che ha avuto come obiettivo quello di raggiungere 20.000 dollari.
E' così, Kiah Roache-Turner, un assoluto sconosciuto, filmaker australiano indipendente, a messo insieme a suo fratello Tristan, plot e vari brandelli di idee presi da altri film mischiandoli con un'atmosfera che ricorda lontanamente lo steampunk.
Il problema di questo ennesimo film di zombie, al di là di qualche trovata che trova nell'ironia i momenti più apprezzabili (Benny l'aborigeno) e proprio di sperimentare due idee davvero trash e malsane.
Da un lato gli zombie che diventano benzina per le macchine stipati dietro come profughi incoscienti, dall'altra la sorella del protagonista, prigioniera e vittima delle deliranti sperimentazioni genetiche di un mad doctor, che alla fine la fa diventare un'arma che riesce a controllare le menti degli zombie.

Se ci mettiamo un montaggio sgrammaticato, la parkinson cam e un ritmo che non lascia tempo di diluire la mole di effettacci e incongruenze, allora rimane veramente poco da poter salvare in questa pellicola volutamente assurda.

martedì 10 febbraio 2015

Bad Boy Bubby

Titolo: Bad Boy Bubby
Regia: Rolf De Heer
Anno: 1993
Paese: Australia
Giudizio: 4/5

È da trentacinque anni che Bubby vive in una stanzetta senza finestre, solo, con sua madre e un gatto. La vita in casa procede tranquilla: Bubby e la mamma fanno il bagno insieme, vanno a letto insieme e non solo per dormire. Poi un giorno arriva papà e per Bubby non c'è altra soluzione che ripetere il trattamento riservato al gatto: avvolgere nel domopack i genitori e farli morire d'asfissia.

Stranamente co-prodotto dalla Fandango, il film di De Heer, olandese, si ritaglia fin dalla scena madre inziale una sua particolare atmosfera in cui per tutta una prima e malatissima parte, rimaniamo semplicemente in uno scantinato fatiscente che sembra riflettere il caos e la patologia che segue madre e figlio, in un rapporto morboso che non sembra lasciare spazio al cambiamento, ma riflettendo una silenziosa sintonia di schiavitù e dipendenza da ambo le parti.
Poi Bobby scopre il mondo e si rivela curiosissimo di entrarci dentro con tutta la sua carica eversiva, la sua schizofrenia e la metafora del male sociale che spesso e volentieri è molto più manifesto nella società che non latente tra le mura di casa, come nel caso di Bobby, o forse ancora una semplice metafora di un estraneo al progresso della società.
Un viaggio di formazione tra amicizie improvvisate, donne con enormi tette, maternage in strutture psichiatriche, rapine e concerti, e infine lo scontro fede/ragione in due interessanti scene che non nascondono da parte del regista una certa critica di fondo.

Premiato a Venezia, il film di De Heer, che non tralascia per tutta la seconda parte una certa ironia, è spiazzante, crudo e minimale, senza prendere mai strade troppo contorte ma rimanendo quasi una trip metafisico volutamente provocatorio e gratuito, sgradevole ed eccessivo con cui l’ottimo interprete segue e da uno sguardo privo di giudizio con quegli enormi occhioni azzurri che piangono la miseria di questa società.

venerdì 9 gennaio 2015

Canopy

Titolo: Canopy
Regia: Aaron Wilson
Anno: 2013
Paese: Australia/Singapore
Giudizio: 3/5

Singapore, 9 febbraio 1942. Mentre è in atto l'invasione giapponese, l'aviatore australiano Jim si sveglia penzolando da un albero con il suo paracadute da qualche parte nel mezzo di un vasto deserto circondato da forze ostili. In cerca di rifugio con l'arrivo della notte e costretto a provvedere a se stesso, Jim si imbatte in Seng, un combattente della resistenza, rimasto ferito e smarritosi. I due uomini si rendono presto conto che la loro unica speranza di sopravvivenza risiede nella loro reciproca solidarietà.

Di fronte al nemico hai due possibilità: o lo uccidi, o ci diventi amico.
Wilson con un curriculum abbastanza variopinto tra corti e documentari, affida al direttore della fotografia Stefan Duscio, l'onere di imprimere nella nostra memoria alcune immagini in cui a predominare completamente è la natura.
Canopy parla di un'amicizia, della sopravvivenza, della paura che permane l'uomo di qualsiasi esercito faccia parte.
Canopy sembra slacciarsi dalla realtà e trasportarci in un'atmosfera ultraterrena e onirica, in cui l'uomo non può nulla contro la forza della natura.
Il film di Wilson inoltre ha praticamente due dialoghi, pochissima e concentratissima azione, è una messa in scena minimale rafforzata dalla fisica interpretazione di Khan Chittenden.
In più la quasi totale assenza di musica lascia ancora di più lo spettatore attonito di fronte ad alcune fotografie che ritraggono un paesaggio sconosciuto e ancestrale.
Un film coraggioso che non verrà mai distribuito nel nostro paese.





venerdì 19 dicembre 2014

Predestination

Titolo: Predestination
Regia: Michael Spierig,Peter Spierig
Anno: 2014
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

Il film dei gemelli Spierig racconta la vita di un agente, interpretato da Ethan Hawke, all'inseguimento di un criminale sfuggitogli nel tempo. Entusiasmanti e paradossali viaggi nel tempo per salvare migliaia di vite messe in pericolo dai piani di un folle assassino.

"Cosa faresti se te lo potessi mettere davanti?
L'uomo che ha rovinato la tua vita?
Se ti garantissi che la faresti franca, lo uccideresti?"
C'è qualcosa che rimanda ai vecchi noir o ai gialli anni' 60/70 soprattutto nella prima parte dell'ultimo film della coppia di fratelli australiani, amanti della fantascienza e che sembrino elogiare in particolar modo Ethan Hawke con cui avevano già lavorato nel convincente DAYBREAKERS, facendolo diventare quasi il loro attore feticcio.
Il tema dei viaggi del tempo non è materia facile con cui confrontarsi e districarsi, in particolar modo quando ci si mettono in mezzo gli assurdi paradossi temporali e la ricerca di un terrorista che riesce continuamente a sfuggire.
Come si collegano, fra di loro, una ragazza dall'indole solitaria e dal cuore spezzato, un tremendo bomber destinato a scagliare la città di New York nel panico e nel caos svariati decenni dopo, e uno sveglio barista dallo scantinato pieno di segreti?
La coppia di registi dopo un attento primo atto in cui seminano alcune fondamentali notizie sui due protagonisti e la vicenda del passato, ritornano soprattutto nel finale ad un'azione ritmata come da controbilanciere di tutta la lenta narrazione dell'inizio e rimanendo quasi sempre attenti a non invertire l'ordine dei passaggi temporali, caratteristica che sembra aver trovato un giusto equilibrio.
Predestination tratta in particolar modo a parte i temi fantascientifici, il concetto di identità, del destino, con le ovvie implicazioni etiche e morali che possono esserci soprattutto invertendo i ruoli.
Coadiuvato da un cast in cui brilla la performance di Sarah Snook e il suo make-up, è giocato fondamentalmente su due attori (senza però dimenticare l'ottimo Noah Taylor), Predestination in alcuni punti e scene, è originale e atipico per il genere, mentre invece conferma come i fratelli Spierig, per quanto amino la sci-fi, debbano ancora livellare alcuni elementi non tanto della regia e degli aspetti tecnici, quando dello stile della narrazione e soprattutto del ritmo.


Red Hill

Titolo: Red Hill
Regia: Patrick Hughes
Anno: 2010
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

Il giovane Constable Shane Cooper si trasferisce nella piccola cittadina di Red Hill con la moglie incinta al fine di iniziare una nuova famiglia. Quando la notizia di una fuga dalla prigione nella città manda nel panico gli agenti della polizia locale, il primo giorno in servizio di Shane comincia a passare di male in peggio.
Jimmy Conway, un assassino condannato a vita dietro le sbarre, ritorna nell'avamposto isolato in cerca di vendetta. Ora, preso nel mezzo di ciò che diventa rapidamente un bagno di sangue spaventoso, Shane sarà costretto a prendere la legge nelle sue mani, se vuole sopravvivere

Il problema grosso di Red Hill è la trama fin troppo scontata che lascia subito presagire al pubblico la sorte dei suoi personaggi e in particolar modo la figura di Jimmy come una vittima di sorpusi e angherie (una sorta di critica e denuncia contro ciò che l'uomo bianco ha commesso contro gli "aborigeni" del luogo).
Un regista che purtroppo dopo questa sua opera prima, mai distribuita in Italia, è finito a dirigere anonimi film d'azione come MERCENARI 3 rimanendo di fatto un impiegato delle major a tutti gli effetti.
Red Hill è il classico western che sta dalla parte degli indiani, girato molto bene, con una lenta e piacevole descrizione dei personaggi e con delle bellissime inquadrature su distese e paesaggi che trovano nell'Australia alcune location davvero insolite e magnifiche.
Sembra il classico film di genere che non accenna a dire o ad osare nulla di nuovo, rimanendo un buon prodotto dal punto di vista tecnico ed estetico, ma che non va oltre ad essere una pellicola di poche e semplici pretese.


10 Canoe


Titolo: 10 Canoe
Regia: Rolf De Heer
Anno: 2006
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

Racconto del racconto di un racconto. Un gioco di scatole cinesi che inizia con un carrello aereo sulla palude australiana, attraversa foreste di alberi altissimi e terra fangosa, passando per specchi d'acqua coperti di ninfee su cui si riflette il cielo al tramonto. La voce narrante è quella di un aborigeno che si dice ormai parte delle infinite gocce d'acqua di quella palude, crogiuolo dei suoi antenati. Di passato in passato, la storia è quella di un suo avo che, mentre insegna al nipote l'arte di costruire canoe, gli tramanda le vicende della loro famiglia. Amori, passioni, gelosie, guerre, religioni e stregonerie.

10 Canoe è una fiaba, o un racconto ancestrale, o ancora meglio un documentario che racconta una fiaba ispirata da una vecchia fotografia in bianco e nero scattata nel 1936 dall'antropologo Donald Thomson, raffigurante un gruppo di 10 aborigeni Yolngu che vogano in canoa sulle sponde della palude di Arafura, un'area palustre situata a circa 400 km a est della città di Darwin.
E' questa la trama del film di De Heer che dopo lo scioccante ALEXANDRA'S PROJECT e soprattutto dopo THE TRACKER ritorna a parlare di indigeni con un racconto nel racconto.
Al di là dell'uso della voce narrante fuori campo che può piacere o non piacere, e di alcuni aspetti della narrazione troppo didascalici, sono i corpi degli aborigeni a parlare insieme a potentissime immagini che delineano un panorama sconosciuto e solitario, uno dei pochi luoghi lasciati incontaminati dall'uomo.
Interessane anche il fatto di aver lasciato il linguaggio originale sottotitolato, in modo tale da rendere ancora più forte il racconto e rendere più funzionale tutta una serie di componenti che ancora di più ci fanno entrare in empatia con i protagonisti e dal punto di vista tecnico aggiungerei la bellissima fotografia, il ritmo e la narrazione scandita dalle stagioni
Dayindi, il ragazzo che ascolta la storia dell'anziano, rappresenta la nuova generazione che deve subito scoprire le regole della civiltà, altrimenti rischia di fare l'errore che prima di lui hanno fatto altri, ricevendo una dura lezione.
Il film però non nasconde un certo umorismo, forse sconosciuto a noi occidentali, in cui sono soprattutto gli attributi e la forza fisica ad essere presi di mira dai componenti della tribù, come nella scena in cui l'anziano viene preso in giro sulla sua presunta impotenza.
L'amore, l'invidia, la gelosia, i taboo, le distanze generazionali, sono solo alcuni dei temi che vengono trattati nel racconto.
Durante la conferenza stampa cio’ che colpisce è la pacatezza e grande umiltà del regista, ancora scosso e commosso nel rispondere alla domanda “Che cosa ti ha lasciato questa esperienza?”. Egli ha infatti vissuto per due anni, una settimana al mese, con il popolo raccontato dalla pellicola, e ha diretto, non senza difficoltà, un cast interamente composto da attori non professionisti, cosi verosimili nel guardare in macchina durante il film, cosi orgogliosi di gridare al mondo la loro storia.

giovedì 4 dicembre 2014

Babadook

Titolo: Babadook
Regia: Jennifer Kent
Anno: 2014
Paese: Australia
Festival: TFF 32°
Giudizio: 4/5

Sei anni dopo la morte del marito, Amelia lotta per dare un’educazione all’indiciplinato figlioletto di 6 anni Samuel, un figlio che trova difficile amare. I sogni di Samuel sono afflitti da un mostro che il ragazzino crede stia arrivando per uccidere entrambi. Quando un libro di fiabe inquietante chiamato “The Babadook” prende vita nella loro casa, Samuel è convinto che il Babadook è la creatura che ha sempre sognato. Quando Amelia comincia a vedere fugaci apparizioni della stessa creatura, in lei cresce lentamente il dubbio che forse la cosa su cui Samuel l’ha messa in guardia potrebbe essere reale.

Diciamo che già con il bellissimo corto, MONSTER, la Kent ha dimostrato di saperci fare e soprattutto di avere una certa delicatezza e una vera propensione per questa tematica e per reinterpretare le storie classiche per bambini.
I mostri non fanno più paura e l'horror con gli anni è cambiato diventando ancora più astuto e attento a captare i problemi di qualsiasi natura sociale.
La Kent affascina con una storia che non sembrava più possibile per lo stile, l'eleganza e la coerenza.
Senza dover ricorrere a ingenti risorse tecnologiche, Babadook ha nella sua semplicità il suo punto di forza.
E'un film squisitamente indie e autoriale, in cui non è l'uomo nero la vera minaccia, bensì il lato oscuro della mente da cui scaturisce la paura, quell’idea per la quale il terrore sia qualcosa interno ad ognuno, una presenza che è vera prima nel cervello e che poi proiettiamo negli anfratti bui, nelle porte che si aprono e nelle cantine oscure.
Facendo un lavoro incredibile e molto minimale circa gli ambienti, i suoni e i dialoghi, ne esce un film finalmente misurato ed eccellente, una recitazione realistica e una semplicità per quanto riguarda il soggetto e la caratterizzazione dei personaggi che sembra uscita in modo molto naturale alla regista, così come la sua propensione a giocare in modo molto funzionale sulle atmosfere che rappresentano uno punti di forza del film.
Grazie anche ad un reparto tecnico in cui la fotografia illumina d'immenso ogni singola inquadratura, Babadook si consacra ad essere il miglior horror dell'anno.

Redd Inc

Titolo: Redd Inc aka Inhuman Resources
Regia: Daniel Krige
Anno: 2012
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

Annabelle, William, Edward, Ruby, Sheena e Guy sono i nuovi dipendenti dell’ufficio di Thomas Reddman, uno psicopatico che li ha sequestrati per costringerli a un lavoro impossibile da portare a termine.

Un horror low-budget quello diretto dall'esordiente Krige quasi interamente ambientato in interni che riesce a dosare bene parte della tensione tra i personaggi soprattutto nella fase di semina e che non riesce successivamente ad essere del tutto convincente anche se l'idea dei cinque graffi prima della morte non è affatto male.
Con una buona dose di splatter e gore, e con delle interpretazioni convincenti, Redd Inc purtroppo rappresenta ancora una volta il "remake" di idee già sentite, messa in scena in parte scontata e con il tipico maniaco, killer che sembra tutto e niente per come viene caratterizzato.
Un altro tentativo di cercare di disegnare qualcosa di nuovo senza averne l'ispirazione e solo in parte i mezzi e poi chissà perchè quando penso ad una multinazionale e un cacciatore di teste mi viene solo in mente il film di Costa Gravas del 2005 e SEVERANCE di Cristopher Smith del 2006 oppure per alcune tendenze di questo film, una misto tra SAW e AMERICAN PSYCHO.
La scelta migliore del film è un cameo e poi un grande ritorno del mitico Tom Savini assieme all'idea che di questi tempi i giovani pur di lavorare e sopravvivere accettano di tutto, dal prendere parte a progetti sperimentali e malati EXAM o FACILITY o addirittura inscenando spogliarelli con la web-cam.

mercoledì 3 dicembre 2014

These Final Hours

Titolo: These Final Hours
Regia: Zak Hilditch
Anno: 2013
Paese: Australia
Giudizio: 3/5

L'impatto di un asteroide sul versante nord dell'Oceano Atlantico sta cancellando la Terra, continente dopo continente. A Perth, Australia, la fine è prevista entro dodici ore: per l'ultima volta, James fa l'amore con Zoe per poi mettersi in macchina verso la festa che metterà fine a tutte le feste, proprio lì si ricongiungerà con Vicky, la sua fidanzata. Lungo il tragitto, tuttavia, si troverà a salvare dalle grinfie di due pedofili la piccola Rose, desiderosa soltanto di raggiungere il suo papà prima della fine di ogni cosa.

Cosa faresti se ti rimanessero solo dodici ore?
These Final Hours ennesimo film sul tema post-apocalittico a dispetto di alcune immagini particolarmente tamarre, parte se non altro in modo convincente, esapsperato e dinamico con quella nota cinica e violenta che potrebbe rivelarsi utile e funzionale allo scopo, merito che và dato solo in piccole dosi alla prima opera dello sconosciuto Hilditch.
Ed è così in alcune interessanti scene mentre perde da dopo il party per prendere poi nell'ultimo atto la strada più classica, banale e stereotipata, che vuole redimere il suo protagonista salvando e prendendosi cura di una bambina.
Se è l'istinto a farla da padrone e con una log-line così commerciale da trovare immediato interesse nel suo pubblico, mi aspettavo più sorprese e non solamente il sesso come arma di sfogo alla noia o esecuzioni e sfide all'ultimo sangue.
La morale e il libero arbitrio, la possibilità del riscatto e l'importanza dei legami famigliari diventano, allora per James, distintivi fondamentali per cercare di dare un senso a quello che gli resta e resta all'umanità. Passato quasi inosservato all'ultimo festival di Cannes.

mercoledì 19 novembre 2014

Proposta

Titolo: Proposta
Regia: John Hillcoat
Anno: 2005
Paese: Australia/Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Fine ottocento. Outback australiano: il capitano Stanley cattura Charlie e Mike, due dei quattro fratelli Burns, fuorilegge responsabili di stupri e omicidi, e fa un patto con Charlie: la testa di Arthur, il fratello maggiore, principale ideatore ed esecutore delle efferatezze, in cambio della grazia per lui e Mike. Charlie accetta ma la proposta di Stanley non è gradita ai superiori che vogliono, invece, eliminare tutta la banda.

Hillcoat è uno dei registi più interessati del panorama australiano.
I motivi sono diversi, dalle scelte alle tematiche che tratta, agli scenari e al panorama letterario che predilige, infine per il suo amore verso il western, che tra le sue mani prende una piega diversa e sicuramente originale sostituendo gli stati del west nordamericano con l'outback australiano, i pellerossa con gli aborigeni, e infine i cowboys con gli Inglesi.
Leggere che la sceneggiatura poi è stata scritta da Nick Cave non sorprende visto il sodalizio tra i due e le musiche originali spesso composte dallo stesso musicista.
In questo caso Hillcoat e Cave non si sono fatti sfuggire un'idea davvero interessante e originale che da sicuramente spessore alla vicenda, dandogli quelle connotazioni culturali in grado di promuoverlo a tutti gli effetti per la funzionalità in tutto l'apparato narrativo e la messa in scena come sempre atipica per un regista attento nel pensare e dare forma e significato ad ogni singola inquadratura.
Unire l'epoca dei primi insediamenti coloni di origine europea, immortalata in centinaia di film, che costituiscono il cinema di genere per antonomasia, e sposarla con la cultura degli aborigeni (schivi come da loro natura, impenetrabili custodi di segreti violati dall'uomo bianco che li ha resi prima schiavi e poi perseguitati come criminali anche se il film slitta in parte dalla responsabilità di denunciare questa realtà, ancora tangibile ai nostri giorni e non ancora vendicata) è stata come prima dicevo una mossa astuta e al contempo originale.
In più un viaggio dell'anti-eroe, curioso in uno spazio rurale inesplorato, regala alla pellicola quella componente in più che si sposa con le stupefacenti location, trovando nelle ottime prove attoriali un contributo che trasmette ancora più realisticità alla vicenda.
Charlie ancora una volta, come molti dei protagonisti dei film del regista, non parla molto, come gli aborigeni, osserva, pensa, riflette e agisce, in questo Charlie come anti-eroe, si pone perfettamente in linea con lo spirito e gli intenti del film.
Il cinema di Hillcoat è tutto così.
Intessuto di uno stile ipnotico e scarno, pervaso da una violenza spietata che non lascia pause o riflessioni e dall'altro personaggi e momenti di poeticità di assoluta aderenza estetica che in un paese ostile come l'Australia e con un ottimo direttore della fotografia, toccano davvero punte di visionarietà impressionanti con scenari suggestivi e quasi primitivi.