Visualizzazione post con etichetta Cannes. Mostra tutti i post
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domenica 20 novembre 2022

Triangle of Sadness


Titolo: Triangle of Sadness
Regia: Robert Ostlund
Anno: 2022
Paese: Svezia
Giudizio: 4/5

Carl e Yaya, una coppia di modelli e influencer, sono invitati su uno yacht per una crociera di lusso. Gli eventi prendono una svolta inaspettata quando si abbatte una tempesta e mette a rischio il comfort dei passeggeri.
 
Triangle of Sadness è la dimostrazione del talento e soprattutto della furbizia di Ostlund che con FORZA MAGGIORE e SQUARE aveva già fatto capire la sua politica d'autore con opere ambiziose e complesse.
Quello che per fortuna non ha mai abbandonato la sua poetica e visione d'intenti è una certa ironia drammatica, giocando con quel senso del grottesco che in questo film, la sua opera più complessa e sontuosa, raggiunge il punto più alto.
Il film può tranquillamente dividersi in due capitoli quello sulla nave e quello sull'isola prima del climax finale così come della parte introduttiva per mostrarci il casting e questa giovane coppia di modelli ad inseguire un conceto estetico e una filosofia dove i soldi e la bellezza regolano i rapporti di potere, dove si discute di soldi ad un tavolo del ristorante e dove il concetto di bellezza e fedeltà è sempre discutibile arrivando a squalificare dalla nave un bagnino semplicemente perchè gira a petto nudo e incappa nello sguardo della disinibita Yaya.
Un film per certi aspetti meno complesso dei precedenti, più goliardico forse, più esasperato e prolisso che continua a proporre una galleria di gag alcune d'impatto ed estremamente incisive mentre altre tendono a ripetersi senza misura. Una riflessione sulla ricchezza e sul denaro, sul vendersi, svendersi e concedersi per frivolezze e infine la rivincita degli oppressi. Una metafora sul condizionamento sociale determinato dal denaro che in alcuni casi cerca e vuole essere ammutinato come nel caso del capitano alcolista, un raro americano socialista in mezzo agli europei, che lascia affondare la barca mentre farfuglia di socialismo, capitale, mezzi di produzione.

martedì 23 agosto 2022

Crimes of the future


Titolo: Crimes of the future
Regia: David Cronemberg
Anno: 2022
Paese: Usa
Giudizio: 5/5

Dopo aver scoperto che suo figlio ha mangiato un secchio di plastica alla stregua di cibo reale, una donna lo uccide per poi avvisare il padre del bambino e costituirsi alla polizia. Nel frattempo si snoda la vicenda personale di Saul, uomo affetto da una continua formazione di nuovi organi che rimuove con l'aiuto dell'ex chirurgo Caprice in una serie di vere e proprie performance d'arte concettuale. Avvicinati da più realtà interessate alla loro attività, i due vivono in una società in cui l'evoluzione umana ha ormai preso pieghe molto particolari, in cui una quasi totale perdita del senso del dolore ha trasformato l'esecuzione di ferite in un atto estremamente erotico. Quando Clarice e Saul sono al massimo della loro fama, i due vengono avvicinati dal padre del bambino assassinato, il quale fa parte di una setta i cui membri si sono fatti impiantare degli organi che li rendono capaci di nutrirsi di plastica. L'uomo vuole che i due pratichino un'autopsia pubblica del bambino affinché il mondo venga finalmente a conoscenza del loro credo, ma non sa che Saul fa il doppio gioco con un poliziotto il cui scopo principale è proprio arrestare lui e gli altri membri della setta.
 
- La chirurgia è il nuovo sesso -
A volte ritornano..avevamo bisogno della vecchia scuola, dei vecchi maestri, di chi ci ha educato a sconquassarci la mente. Di chi ci ha fatto provare gioia e dolore, estasi e brividi. Di quei pochi e ispirati profeti che si sono distinti nella settima arte. Cronemberg a 360° in grado di chiudere e ampliare una tematica assolutamente sua, di staccarsi dai suoi film precedenti ritornando a sposare la sua vera anima del body horror. L'autore riesce a deliziarci con scene autentiche, raccapriccianti, poetiche e romantiche, di creare ancora una volta accessori fantascientifici, di chiudere i freak in arene dove artisti perfomativi diventano fenomeni di una realtà ambigua che rifugge dal nostro concetto di modernità post contemporanea e consumista. Una società ibrida, dove la vecchia nuova carne e la transizione al post umano, viene ormai accolta con pacata rassegnazione, nella piena coscienza della sua inevitabilità. Da questo punto di vista i silenziosi protagonisti in particolare Saul rappresentano l'ineluttabilità di una nuova specie ormai esposta e portata all'esibizionismo nel rimuovere dal corpo quegli organi vestigiali che crescono naturalmente dentro di lui, a causa di una condizione nota come “sindrome di evoluzione accelerata”. Dall'altra parte una setta assurda e in parte complottista è riuscita a modificare il proprio apparato digerente al fine di assimilare materiali sintetici ( la scena della plastica come di quella nuova barretta sono di per se totalmente appaganti).
L'ambientazione asettica, il noir, la pacatezza dei toni e un'azione che non accenna mai a comparire lasciando tutto con una eleganza e leggerezza pregevole sembra però dall'altra parte accostata ad una critica del regista come emblema di una desensibilizzazione che porta all’apatia, proprio l’opposto di ciò che intende fare l’arte performativa. Gesti artistici sempre più estremi, la sparizione del dolore fisico, tutto sembra ormai una profezia celebrata da Cronemberg anche e proprio a proposito del destino del cinema autoriale dopo sette anni di inattività e la disperata difficoltà a trovare fondi per produrre la sua arte.

sabato 5 marzo 2022

Tre piani


Titolo: Tre piani
Regia: Nanni Moretti
Anno: 2021
Paese: Italia
Giudizio: 3/5

Tre piani, tre famiglie e la trama del quotidiano che logora la vita, disfa i legami, apre le ferite, consuma il dramma. Al piano terra di un immobile romano vivono Lucio e Sara, carriere avviate, spinning estremo e una figlia che parcheggiano dai vicini, Giovanna e Renato. Al secondo c’è Monica, che ha sposato Giorgio, sempre altrove, ha partorito Beatrice senza padre e ‘ha’ un corvo nero sul tavolo. All’ultimo dimorano da trent’anni Dora e Vittorio, giudici inflessibili che hanno cresciuto Andrea al banco degli imputati. Un incidente nella notte travolge un passante e schianta il muro dello stabile, rovesciando i destini e mischiando i piani.

Tre piani è un film altalenante con tante cose belle e altre noiosissime e recitate in maniera superficiale.
Tre storie che finiranno per forza in tragedia almeno apparentemente per poi livellarsi e trovare un equilibrio nel climax finale dove verranno inseriti alcuni personaggi in grado con il loro carattere di dare polso alla vicenda ed è il caso ovviamente di Tommaso Ragno e Stefano Dionisi.
Vicende reali che Moretti a voluto sondare addentrandosi in un personaggio corretto quanto scomodo nei modi e nel non saper mai essere adeguato con il proprio figlio. In questo caso l'ascesa di Andrea e la scena iconica dove prende a calci il padre è il simbolo di una famiglia in parte disfunzionale. Come dicevo con una recitazione piatta e blanda in cui i limiti di Scamarcio, della Rohrwacher e della Buy e dello stesso Moretti sono fin troppo evidenti, non manca qualche ingenuità come la rivolta dei razzisti contro gli africani nella Caritas (scena quanto mai patetica e fuori misura) la fuga di Monica e la storia d'amore con il cognato, infine la Buy che parla alla segreteria telefonica per lasciare messaggi al defunto marito. Per qualche strana ragione però nonostante poi una regia pessima, il film è riuscito a non risultare così noioso anche se spesso in alcune scene è troppo prolisso. A questo punto spero vivamente visti i limiti che rimanga l'ultimo film di Moretti dal momento che seppur salvandosi in estremo vanta tanti e troppi difetti che non vorrei rivedere.


venerdì 4 febbraio 2022

Innocents


Titolo: Innocents
Regia: Eskil Vogt
Anno: 2021
Paese: Norvegia
Giudizio: 4/5

Durante una luminosa estate nordica, un gruppo di bambini rivela i propri poteri, tanto oscuri quanto misteriosi, solo quando gli adulti non vedono.

Un'altra pellicola sulla presunta innocenza dei bambini. Poteri soprannaturali ESP che vanno dalla telepatia, alla chiaroveggenza fino alla precognizione e alla capacità di creare allucinazioni in maniera inizialmente non consapevole e per la prima volta uno scontro solo tra pari dove gli adulti sono azzerati o meglio un contorno che non sembra accorgersi di nulla, lasciando ai piccoli protagonisti conflitti e approcci. Un coming of age, un viaggio di formazione per la piccola protagonista ma anche per chi le sta attorno come la sorella autistica e pochi gregari che abitano vicino a lei.
L'innocenza perduta o l'empatia di saper percepire quando si sta superando un confine. Vogt con strumenti psicologici e pedagogici mette alla prova le capacità di alcuni bambini nel cercare di capire cosa è bene e cosa è male. Cosa è lecito o cosa no. Se schiacciare il cranio ad un gatto inerme e ferito è divertimento oppure nasconde una crudeltà e un sadismo a cui è difficile dare voce fino a che non esplode azzerando ogni barriera (l'uccisione della madre). Un horror minimale e sofisticato , originale quanto ambizioso regalando interpretazioni incredibili, riuscendo a far commuovere quando vengono trattate tematiche sociali legate alla malattia e al potere della guarigione. Un film semplice e lento, dove l'atmosfera, l'audio e i primi piani sugli occhi dei bambini sembrano voler agire e rimanere impressi ancora più dei gesti e delle scene d'azione centellinate ad hoc.

martedì 28 dicembre 2021

Nitram


Titolo: Nitram
Regia: Justin Kurzel
Anno: 2021
Paese: Australia
Giudizio: 4/5

Nitram vive con sua madre e suo padre nella periferia dell'Australia a metà degli anni '90. Vive una vita di isolamento e frustrazione per non essere mai in grado di adattarsi. Questo finché non trova inaspettatamente un caro amico in un'ereditiera solitaria, Helen. Tuttavia, quando quella relazione incontra una fine tragica e la solitudine e la rabbia di Nitram crescono, inizia una lenta discesa che porta al disastro.
 
Kurzel è uno dei registi contemporanei più interessanti. Il suo cinema dimostra sempre un'assenza di limiti ma uno spirito libero e anarchico di raccontare ciò di cui sente bisogno (facendo un eccezione per l'osceno ASSASSIN'S CREED). Ha fatto poco ma quello che ha fatto gli è riuscito bene e soprattutto riesce a dare fastidio. True history of Kelly Gang e Snowtown Murders sono pellicole molto diverse e a loro modo complesse come quest'ultimo film, forse il più complesso in assoluto per intenti e struttura della storia oltre che caratterizzare un personaggio folle e intenso regalandolo ad una promessa del cinema come Caleb Landry Jones.
Di serial killer ne abbiamo conosciuti nel corso del cinema moltissimi. Sono stati ripresi e sondati in svariate formule dalle stragi alla lenta follia fino al punto di vista di terzi che gli hanno osservati come testimoni, ostaggi o ancora con il punto di vista degli ispettori di polizia.
Nitram però è un'altra cosa. Un film formidabile, inquietante quanto poetico e meraviglioso, il quale da molto spazio al giovane Caleb per trovare una catarsi con il personaggio, probabilmente il più interessante, romantico e spietato serial killer degli ultimi anni.
La sua infanzia difficile e di quando finì per la prima volta in televisione finendo al pronto soccorso per essersi sparato dei petardi addosso, all'inesorabile disagio psichico e la sua crescita in una famiglia disfunzionale dove una madre anaffettiva sembra altalenarsi con un padre troppo affettivo.
Un ritratto psicologico in una vita priva di affetti dove l'unico che troverà sarà complice di un altro tipo di disagio, come gli outsider che si attraggono l'uno con l'altro. Kurziel è abile nel mettere in scena la follia dell'essere umano, senza mai giudicare o assolvere o maturare intenzioni assolutorie o voglie di condanna. Non a caso il film termina nel momento decisivo prima del massacro di Port Arthur del '96


mercoledì 15 dicembre 2021

Casa de antiguidades


Titolo: Casa de antiguidades
Regia: João Paulo Miranda Maria
Anno: 2020
Paese: Brasile
Giudizio: 4/5

Cristovam lavora in un caseificio del ricco sud gestito da austriaci, ma lui viene dal nord del Paese dove la povertà lo ha spinto all’emigrazione. Vive da solo, con un cane. Ma nella sua casa si materializzano le memorie sepolte del passato, i riti antichi e le forme misteriose di una animalità che si fa umana.
 
Medium di una casa abbandonata, xenofobia, folklore, razzismo della società brasiliana, ritorno alle origini, maschere, senso di isolamento, capitalismo, contrasto nord-sud, ricchi-poveri, insomma l'opera dell'autore seppur con uno stile lento e minimale, riprende tutto un corollario di contenuti proponendo una storia misteriosa e silenziosa, con un protagonista che sembra sempre fuori dal tempo come se vivesse in un'altra dimensione.
Intellettuale anche se su un piano prettamente metaforico diventando solo nella seconda parte visionario e surreale con una società che sembra minacciare e minare costantemente la libertà del protagonista violando continuamente la sua privacy e la sua casa. Il film riesce con rimandi potenti e un uso meticoloso degli effetti speciali, in realtà poi solo l'ombra dell'animale totemico e quel luccichio negli occhi di chi riesce a mettere a fuoco Cristovan, a far sì che João Paulo Miranda Maria porti un altro ottimo esempio di cinema autoriale impegnato e politico dove negli ultimi anni i brasiliani stanno davvero dimostrando di aver tanto da dire e mettere in scena senza mai farsi prendere da sensazionalismi, ma rimanendo fedeli a delle storie classiche e più che mai catalizzatrici di mali sociali ancora molto radicati e intensi.

mercoledì 20 ottobre 2021

Titane


Titolo: Titane
Regia: Julia Ducournau
Anno: 2021
Paese: Francia
Giudizio: 4/5

Alexia ha una placca di titanio conficcata nel cranio a causa di un incidente passato. Ballerina in un 'salone di automobili', le sue performance erotiche la rendono preda facile degli uomini, che l'approcciano senza mezze misure. Ma Alexia uccide con un fermaglio chi si avvicina troppo e colleziona omicidi che la costringono a fuggire e ad assumere l'identità di un ragazzo, Adrien, il figlio scomparso dieci anni prima di un comandante dei pompieri. Lei è una macchina programmata per uccidere che cerca un rifugio, lui una divisa programmata per salvare vite che ha disperatamente bisogno di prenderla per qualcun'altro. Tutto li separa ma poi qualcosa improvvisamente li unisce per sempre.
 
In Titane un auto mette incinta la protagonista. Al suo secondo film Ducournau dimostra coraggio, continuando a provocare in maniera ancora più netta, giocando con i generi, prendendosi incredibilmente sul serio per poi entrare a gamba tesa facendo molto male e questo ci piace assai. Vuole dare fastidio e ci riesce benissimo. Titane che abbia vinto o no la palma d'oro non credo sia questo il punto per un film che ormai non ha più nessuna barriera o confine precipitando in un vortice mostruoso e trasformandosi continuamente. Horror ma soprattutto body horror, influenze di tanto cinema, una specie di nuovo exploitation nel new horror francese estremo che ha saputo rinforzarsi e dare tra i maggiori contributi negli ultimi anni. Qualcuno mentre uscivo dalla sala lo ha definito il nuovo Blade Runner per le derive che senza stare a spoilerare cambiano così di netto una società ormai alla deriva dove il cambiamento e la trasformazione del corpo segnano un passaggio importante senza sapere fino a cosa veramente vogliamo osare e sperimentare. Sospendendo ogni forma di coerenza nella narrazione, rifiutando l'armonia e le traiettorie convenzionali, Alexia nel suo girotondo infernale e assai grottesco arriva a uccidere senza esitazione (la scena nella villa è veramente assurda a tratti quasi comica) a ribellarsi, mordere, rendersi inizialmente una dea e poi un abominio, esibendo una fisicità ostentata senza pudori, in un film molto legato al concetto di famiglia, di creare legami, immergendo "padre" e "figlio/a" in un bagno di violenza malsano e allo stesso tempo romantico e rivelatore di certi aspetti dell’interiorità umana che altrimenti resterebbero nascosti.


lunedì 4 gennaio 2021

Sottosuolo


Titolo: Sottosuolo
Regia: Antonio Abbate
Anno: 2020
Paese: Italia
Festival: Cannes, Capri, Hollywood
Giudizio: 4/5

Antonio è un padre solo che vive con sua figlia adolescente. Il suo lavoro da giardiniere non basta più a sostenerli. Così inizia a lavorare come corriere per un caporale della zona, trasportando i braccianti ai campi. Quando uno di questi ragazzi scompare Antonio dovrà scegliere da che parte schierarsi.

Abbate parla di mafia, caporalato, sfruttamento dell'immigrazione e come abolire i sensi di colpa.
Con una metafora su cosa si cela dietro una porta, Antonio rappresenta perfettamente un uomo disilluso che nonostante una figlia educata e attenta che studia e si pone delle domande, ormai per lui la quotidianità e fatta di monotonia e accordi con un potere che non vuole combattere per paura e perchè in fondo ha scelto semplicemente di voltarsi dall'altra parte sapendo bene come gli interessi possano portare ad azioni terribili come sbarazzarsi di braccianti malaticci di cui nessuno in fondo sa niente, fantasmi senza identità.


martedì 17 novembre 2020

Into the Inferno


Titolo: Into the Inferno
Regia: Werner Herzog
Anno: 2016
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 5/5

Werner Herzog comincia ad interessarsi di vulcani, cinematograficamente parlando, dal documentario "La Soufriére" del lontano 1977. Into the inferno è una summa delle sue varie riprese attraverso il mondo - dall'Australia all'Indonesia, dalla Corea del Nord all'Islanda - alla ricerca dei vulcani più impressionanti del mondo, raccontati non solo nella loro valenza scientifica, ma soprattutto nella loro dimensione magica, e nella loro straordinaria capacità di informare la visione del mondo delle comunità circostanti.

“Si tratta della cosiddetta catastrofe di Toba, l’esplosione di un super vulcano indonesiano avvenuta tra 70 e 80mila anni fa. Fu un evento davvero catastrofico, probabilmente il più potente degli ultimi 500mila anni, di cui è testimonianza diretta un enorme cratere di oltre 100 chilometri di diametro, visibile dallo Spazio, e i sedimenti di polvere e pomice con la stessa datazione rinvenuti in India e persino in Africa orientale. Le conseguenze dell’eruzione non sono state accertate con sicurezza: secondo alcuni, l’evento fu così forte da spazzare via quasi del tutto la specie umana, lasciando in vita solo poche centinaia di persone.
“Comunque siano andate le cose, la nostra specie è ancora qui, ancora viva, il che la dice lunga sulla resilienza dell’essere umano e sulla nostra estrema adattabilità. Per quanto riguarda il futuro, è ipotizzabile pensare che un evento del genere, prima o poi, si ripeta. Naturalmente, la probabilità è molto bassa. Ed è difficile stimare quando succederà – potrebbero passare altri 100mila anni – e quali sono le zone vulcaniche che più probabilmente ne saranno coinvolte”. Oppenheimer
Clive Oppenheimer che però non c'entra nulla con il regista di Act of Killing, è il narratore di questa nuova avventura del famoso e poliedrico artista tedesco.
Sono anni ormai che ringrazio Werner per darmi la possibilità di scoprire le più desolate e inimmaginabili aree geografiche nascoste al mondo per scoprire così qualcosa di nuovo e magico.
Ecco è proprio la magia quella che l'autore riesce sempre a far scaturire dai suoi lavori mettendo al centro la natura e le immagini e lasciando che siano loro a parlare senza interrompere questo straordinario disegno che piano piano si sta cancellando dalla nostra memoria per lasciare spazio a frame e pixel che mostrano una società e una natura sempre più "liquida".
In questo modo possiamo osservare assieme al regista come spettatori e scoprire così assieme a lui, una guida sacra in territori inesplorati, un Virgilio che risponde proprio al nome del famoso vulcanologo citato prima e che non a caso ci accompagna nel viaggio nell'inferno come il titolo.
I vulcani poi da sempre sono stati qualcosa che ha appassionato il documentarista e allo stesso modo la loro natura e la loro furia sono da sempre tra gli spettacoli più maestosi e imponenti che la natura ci abbia dato modo di osservare e temere. Il documentario si apre in chiave interpretativa ad un messaggio globale sempre attuale e importante. Negli ultimi anni le catastrofi e i disastri ambientali stanno diventando argomenti a cui non si presta quasi più attenzione. Da questo punto di vista i vulcani sono dei termometri perfetti misurando lo stato di salute del pianeta. L'opera diventa allora un percorso di spiritualità antropologicamente molto interessante come le leggende narrate dagli indigeni su cosa rappresenti nel loro immaginario il vulcano.
Se la lava "esprime la rabbia dei diavoli" diventando il sangue del pianeta allora la valenza simbolica attribuita a questi fenomeni può diventare un sistema simbolico organizzatore di senso, una cosmologia perfetta e allo stesso tempo un segnale con caratteri divini.
Immagini nitide, scioccanti, alcune di repertorio, di certo nessuna "modificata" con la cg, dimostrano la passione inesauribile di un ultrasettantenne che apparentemente non sembra aver paura di niente.
Dai più strani, giganteschi e leggendari del mondo, veniamo catapultati in Indonesia, nella Corea del Nord, passando per le montagne di Islanda ed Etiopia. Ovviamente come tutti i lavori del regista non manca una parte che introduce e spiega l’aspetto scientifico della questione come dicevo raccontando l’antichissimo legame tra vulcani, mitologia e spiritualità.
"E sono tornato a occuparmi di vulcani, stavolta per sempre. Ma non solo in senso stretto: mi interessa come la vulcanologia si interfaccia con archeologia, matematica, fisica, biologia, storia”. Oppenheimer

Scomparsa Di Eleanor Rigby-Loro


Titolo: Scomparsa Di Eleanor Rigby-Loro
Regia: Ned Benson
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Eleonor Rigby è stata chiamata così da un ragazzo e una ragazza che si erano incontrati davanti ad un locale dove avrebbero dovuto suonare i Beatles, e forse nel nome scelto per lei, una volta che quel ragazzo e quella ragazza sono diventati una coppia sposata, c'era un'intuizione profonda riguardo al destino della propria figlia. Perchè Eleanor, quando noi spettatori facciamo la sua conoscenza, è una trentenne che ha scelto la solitudine, scomparendo dalla vita del marito Conor e rimanendo virtualmente alla finestra a contemplare tutta la gente sola come lei.

Si è tanto detto e parlato di questo film, anzi di questo lungo progetto. Sinceramente pur senza avere aspettative me lo aspettavo più entusiasmante e meno lungo portando alla luce questa ennesima versione, in chiave meno che mai indie come si poteva pensare, di una crisi di coppia che diventa crisi esistenziale
Scoperto l'arcano mistero che vuole Eleonor e Ruben divisi o pronti a rincorrersi senza mai di fatto perdere del tutto i contatti, ma rimanendo sempre collegati, questo affresco con poche varianti e cambiamenti rispetto allo schema classico, non riesce quando avrebbe dovuto fare quel salto in avanti di sceneggiatura elevando gli intenti e portando ad un buon lavoro di scrittura.
Ed' è davvero un peccato perchè gli elementi ci sono davvero tutti.
Nasceva come un progetto curioso di cui la versione sbarcata sulla Croisette è una riduzione delle due versioni presentate a Toronto sui rispettivi protagonisti.
Un progetto singolare e astuto a livello commerciale con tre film al tempo stesso, Him, Her, Them.
Benson riflette sulla possibilità di scegliere il proprio avvenire, di mettere a fuoco il libero arbitrio, di rispettare l'altro(a) in tutte le sue diversità e di accogliere le fragilità nel modo più spontaneo possibile.
Con un cast che fa la differenza, pensiamo alla Huppert, Hurt, e la travolgente Chastain, il progetto di Benson è un film nostalgico, che muove le corde dei sentimenti senza vibrazioni mai troppo forti ma anzi giocando su un apparente calma che sembra dover esplodere da un momento all'altro.
Un film di non detti, con un montaggio che pur volendo fare la differenza, si concentra troppo su se stesso, così come l'estetismo di fondo che a volte mette in ombra i protagonisti.
E'un film bipolare quello di Benson, che non riesce a scegliere un proprio binario ma oscilla tra dramma coniugale e commedia ironica a volte con dei dialoghi di troppo e la telecamera abbandonata a se stessa.

martedì 15 settembre 2020

Peninsula


Titolo: Peninsula
Regia: Sang-ho Yeon
Anno: 2020
Paese: Corea del Sud
Giudizio: 3/5

Dong-WonGang è un ex soldato che riesce a fuggire dalla penisola coreana, luogo ormai infestato da zombi e trasformata in un ghetto da altre nazioni che cercano di fermare la diffusione del virus. Rimandato con un equipaggio in missione per recuperare qualcosa, l'uomo entra nel porto di Incheon per raggiungere Seoul ma viene attaccato. Qui scoprirà che sulla penisola sono presenti ancora molti sopravvissuti non ancora infettati.

Senza riuscire ad eguagliare i fasti del suo predecessore, Peninsula è l'esatto opposto scegliendo l'esterno e gli spazi aperti a differenza della location isolata, il treno, del primo capitolo.
Sembra esserci tanta carne al fuoco ma in realtà non è così. Il film è girato in maniera come sempre stratosferica dai coreani che dimostrano una tecnica e una perizia nei particolari e nella fotografia come nella messa in scena assolutamente perfetta. La storia è un banale pretesto per mandare un manipolo di anti eroi in mezzo alla pandemia e in un'isola ormai abbandonata dal resto del mondo come dicono alcuni americani intervistati, consapevoli che il virus ha toccato solo quella parte dell'Oriente. Tante sparatorie, inseguimenti, sub culture che cercano di sopravvivere creando comunità dedite al dominio e a trovare schiavi da far massacrare dagli zombie in giochi malsani e perversi. Dong troverà come Jena Plissken (la trama da b movie è quella) aiutanti e traditori, corrotti e bambine prodigio, gregari e vittime sacrificali. Peninsula non ha nulla di quella critica di Train to Busan
 e quando prova a ricercarla è tiepida diventando una corsa contro il tempo dove si cerca di catturare insieme più zombie possibili con una c.g a volte esagerata come nelle scene in macchina dove Min-jeong sembra conoscere a memoria tutte le strade e le scorciatoie possibili.
Un film godibile per gli appassionati e per coloro che cercano come sempre un prodotto superiore alla media per tecnica e messa in scena ma che rimarrà sotto le righe per quanto concerne la storia e l'idea alla base che faceva presagire a qualcosa di più complesso e ambizioso.

mercoledì 1 luglio 2020

Gangster the Cop the Devil


Titolo: Gangster the Cop the Devil
Regia: Won-Tae Lee
Anno: 2019
Paese: Corea del Sud
Giudizio: 4/5

Per le strade gira un serial killer dal metodo ricorrente: sceglie la propria vittima, la tampona con l'auto e poi la uccide, quando questa è scesa dal veicolo. Tuttavia, quando la vittima scelta è il boss della malavita Jang Dong-soo, il killer non riesce a terminare il proprio compito. Jang e il detective della polizia Jung Tae-suk stringeranno quindi un patto segreto per catturare l'assassino.

Il secondo film di Won-Tae Lee è un noir action strampalato, con una trama tutt'altro che originale ma come spesso capita in Corea, il risultato è meglio di quanto ci si aspetti.
Una crime story che punta su un killer (il Diavolo) smilzo e psicopatico, un poliziotto che fa come gli pare e il gangster Ma Dong-seok, star indiscussa del film. Action, dark humor, poliziesco e gangster movie in un film che non arriva al dramma per lasciarsi andare a scenari da City of violence o meglio BUONO, MATTO E IL CATTIVO che per qualche istante incontra I saw the devil. Intrattenimento allo stato puro per un film che non si dimentica dei personaggi esplorandoli a dovere (almeno il boss) e rendendoli umani e non privi d'etica.
L'apice appunto arriva nelle roboanti scene d'azione, negli inseguimenti come nelle scene action di combattimenti dove tutto sembra essere concesso.
Per essere un thriller coreano, il film di Lee è abbastanza atipico nel senso che esplora un territorio quello della buddy commedy sugli opposti, sulla morale ambigua, sui tradimenti senza lesinare colpi di scena efficaci e un finale davvero divertente diventando quel giocattolone autoironico che esalta i suoi protagonisti e richiede fin da subito abbondanti dosi di sospensione dell'incredulità




Ingorgo


Titolo: Ingorgo
Regia: Luigi Comencini
Anno: 1978
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Un corteo di macchine procede sempre più lentamente lungo la tangenziale di Roma, sino a che ogni possibilità di movimento si blocca. L'ingorgo durerà 36 ore. Sin dai primi momenti il nervosismo dei viaggiatori è evidente. Quando sfumano le speranze di una veloce soluzione, mancano notizie, si palesano le prime necessità, la tensione sale al massimo e non pochi trascendono. La circostanza permette di scoprire i lati peggiori dell'umanità presente.

L'ingorgo è un film importantissimo. Una metafora dolorosa e amara che ritrae in maniera cupa alcuni aspetti della nostra cultura, dei valori, della differenza tra le classi sociali e molto altro ancora. Un film corale che vanta una galleria di attori straordinari. Un film di denuncia sull'immobilità della nostra società, in questo caso il progresso e la difficoltà a considerare il fatto che si possa restare immobili nonostante si abbia tutti gli strumenti a disposizione per percorrere molti chilometri. Ma poi la metafora più bella è stata quella di usare le macchine come celle di alluminio dove ci si auto isola e dove può succeder di tutto, tra amori ormai giunti alla fine, paradossale il festeggiamento delle nozze d'argento, un avvocato che pensa solo gli affari e che crede sia giusto comprare qualsiasi cosa, attori che ormai non c'è la fanno più e vengono coinvolti in strani giochi perversi, amanti irregolari e ancora drammi e pochissime risate. La scena dello stupro dove i testimoni sono un gruppo di malavitosi che però non osano mettersi in mezzo ma poi tra di loro esibiscono le pistole come massimo simbolo del potere è potentissima così come la battaglia per l'acqua, il prezzo che ogni cosa sembra dover avere per i ricchi mentre per i poveri no.
L'ingorgo come è solita la politica di un autore complesso e fondamentale per il nostro cinema cerca sempre di dare al film una certa verosimiglianza, precludendo la via del paradosso ed è proprio per questo che le singole scene sembrano tutte così incredibilmente realistiche.
La location, se così possiamo chiamarla, è stata ricostruita nella Cinecittà della fine degli anni ’70, nello specifico, un raccordo autostradale con tanto di distributore e un cimitero per auto che accresce la metafora già esplicita che il film possiede.




Famosa invasione degli orsi in Sicilia


Titolo: Famosa invasione degli orsi in Sicilia
Regia: Lorenzo Mattotti
Anno: 2016
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

Il cantastorie Gedeone e la sua giovane assistente Almerina raccontano a un vecchio orso, svegliato dal letargo, di come il re degli Orsi Leonzio un tempo perse suo figlio Tonio, rapito dagli umani, e di come lo ritrovò invadendo la Sicilia.

Il film Di Mattotti è davvero un esempio di come continuare a credere di poter vedere realizzato un sogno. Sei anni di complesse strategie per trovare una forma visiva che potesse essere congeniale all'opera. La complessità nell'avere i diritti da parte della vedova Buzzati, una complessa produzione che sapeva benissimo di rischiare e osare molto puntando su un'opera dal forte profilo autoriale e senza dubbio con una narrazione complessa e un ritmo dinamico.
La storia come i racconti iniziali di Gedeone e figlia che cercano di animare con balletti e teatralità le loro storie, sono uno squarcio, una metafora politica e sociale su quanto uomini e bestie in realtà abbiano molti elementi in comune e di come entrambi possano prendere il meglio e il peggio dagli altri. Orsi che giocano a fare i re, impartendo norme, perdendo la calma, inseguendo figli in bische clandestine, rimanendo annoiati e spossati su una poltrona.
Maghi e indovini umani che cercano di mantenere un equilibrio in un mondo principalmente minato da interessi privati e strategie di supremazia e controllo sulla massa. E poi c'è la Fiaba, l'altro pezzo forte dell'opera di Mattotti dove fanno capolino orchi, gatti enormi, le battaglie con gli orsi che scendono dalle montagne e invadono il regno dell'uomo per riparare un torto subito, l'amore, la curiosità per il diverso, la compassione e infine un'integrità tra uomini e animali che semplicemente non potrà mai esistere.
Renè Aubry ci delizia con una soundtrack stupenda, come è suo solito fare, i colori e le forme del film creano una galleria di quadri dechirichiani, la meraviglia accompagna lo spettatore in un universo magico e accogliente, dai colori sgargianti e il gusto un po’ retrò, in cui è possibile perdersi e poi ritrovarsi senza esitazione

sabato 16 maggio 2020

Les Miserables


Titolo: Les Miserables
Regia: Ladj Ly
Anno: 2019
Paese: Francia
Giudizio: 5/5

Montfermeil, periferia di Parigi. L'agente Ruiz, appena trasferitosi in loco, prende servizio nella squadra mobile di polizia, nella pattuglia dei colleghi Chris e Gwada. Gli bastano poche ore per fare esperienza di un quartiere brulicante di tensioni tra le gang locali e tra gang e forze dell'ordine, per il potere di dettare legge sul territorio. Quello stesso giorno, il furto di un cucciolo di leone dalla gabbia di un circo innesca una caccia all'uomo che accende la miccia e mette tutti contro tutti.

Nel film HAINE del 95' erano protagonisti i giovani delle periferie con il loro disagio, i difficili rapporti sociali e il sentimento d'odio verso le forze dell'ordine. Ly al suo secondo film unisce tutti i protagonisti della strada, nordafricani musulmani, sinti, orde di bambini, poliziotti in parte corrotti, famiglie che nascondono dentro le mura di casa e poi ancora traffici e segreti. I miserabili, perchè lo sono le forze dell'ordine quanto i gregari e gli aitanti nel film, è un dramma post contemporaneo sconvolgente, attuale quanto adrenalinico, un documentario sociale per come vengono inquadrate e narrate alcune dinamiche e allo stesso tempo pieno di ritmo e momenti di riflessione dove in fondo tutti a loro modo sono vittime delle conseguenze di un sistema che non sa più cosa fare.
Un film incredibile per la messa in scena, le interpretazioni, la caratterizzazione dei personaggi, il finale e troppe scene indimenticabili. L'avvento della tecnologia, l'uso dei droni, i cellulari, gli interrogatori poco ortodossi, l'abuso di potere. Quasi un road movie, una caccia all'uomo, l'inseguimento di troppe persone in un circolo pericolosissimo dove ognuno è alla ricerca di qualcosa in una sorta di western moderno nelle terre selvagge di Les Bosquets a Montfermeil.
Uno dei grandissimi meriti del film a parte dal punto di vista tecnico che rasenta la perfezione è quello di mantenere un equilibrio di giudizio senza prendere mai veramente le parti di nessuno, ma cercando un difficile quadro corale dove gli intenti di ogni attore sociale coinvolto assumono contorni e pesi molto difficili da sostenere. Tutti sanno di essere in parte nel torto e nessuno ha mai veramente la coscienza pulita in un continuum di deflagrazioni, colpi di scena, scorribande, rivendicazioni. E poi vogliamo parlare dei bambini/adolescenti. Ci voleva qualcuno che finalmente filmasse il degrado a cui siamo arrivati, l'assenza di valori, vivere la giornata di espedienti e aderendo a regole del branco per mettere a tacere gli adulti.





First Love


Titolo: First Love
Regia: Takashi Miike
Anno: 2019
Paese: Giappone
Giudizio: 4/5

Leo è un pugile di poche parole ma dal pugno pesante: quando scopre di avere un tumore al cervello diviene preda dello sconforto. Monika è prigioniera della yakuza, che la obbliga a prostituirsi e l'ha resa tossicodipendente, costantemente in crisi di astinenza. I due si trovano coinvolti in un complotto che li porterà a scontrarsi con un variegato gruppo di personaggi, corrispondenti ad altrettante forme di insana bizzarria: un emissario della yakuza stessa, un poliziotto corrotto, un killer delle triadi cinesi con un braccio solo e così via, con crescente tendenza all'eccesso.

Miike Takashi ormai è in grado di padroneggiare qualsiasi tecnica e genere. Il suo cinema da sempre ha una firma che ormai dopo quasi 100 film è impossibile non riconoscere nei suoi lavori e nella sua tecnica.
Mi aspetto soltanto più un film d'animazione ultra violento e poi raggiungo la pace dei sensi.
First Love è una vera bomba, una via di mezzo tra Yakuza Apocalypse ma meno estremo e Like a Dragon ma meno fumetto. Perchè il film parte come una storia d'amore, ma poi attraversa come uno sguardo nostalgico quasi tutti i generi del maestro giapponese dove la yakuza gioca sempre un ruolo preponderante, ma stando al passo coi tempi ci sono anche i cinesi da tenere a bada. Complotti, tradimenti, voltafaccia, doppi giochi, stragi come non se ne vedevano da tempo (quella finale poi tutta girata nel magazzino sembra Free Fire ma con l'aggiunta di arti mozzati, katane, molte più donne e ogni genere di arma possibile). First Love si prende sul serio, ci parla di loser, di una fragilità nei rapporti sociali soprattutto tra i giovani, mescola e infarcisce tutto con il cocktail di trovate interessanti in un ritmo frenetico, violento, ma anche molto ironico.
Si prende qualche virtuosismo che sfocia nel paradosso con la scena della macchina finale, mostra capi yakuza ormai stanchi (forse come comincia ad esserlo Miike) cresciuti assieme all'autore che ha saputo trattare le loro gesta disperate in alcuni autentici capolavori.

lunedì 20 aprile 2020

Muere monstruo muere


Titolo: Muere monstruo muere
Regia: Alejandro Fadel
Anno: 2018
Paese: Argentina
Giudizio: 3/5

L'ufficiale di polizia rurale Cruz indaga su di caso inquitante: un corpo di una donna è stato trovato senza testa in una regione remota dalle Ande. David, il marito dell'amante di Cruz, Francisca, diventa il primo sospettato e viene mandato in un ospedale psichiatrico locale. David incolpa un "Mostro" del crimine dall'aspetto inspiegabile e brutale. Cruz, nel frattempo, incappa in una misteriosa teoria che coinvolge paesaggi geometrici, motociclisti di montagna e una voce interiore, ossessionante, che si ripete come un mantra: "Muori, mostri, muori"...

Muere monstruo muere è un film ipnotico quanto surreale, folle e ambizioso. Una metafora sul femminicidio, un poliziesco, quasi un noir o un thriller fantastico. Una creatura (in Animatronic in assoluto la cosa più bella della pellicola come i paesaggi) si aggira per le Ande argentine (fotografate magnificamente) avendo una sorta di base in una grotta sotterranea, comparendo in piccoli e sperduti villaggi strozzando e decapitando le sue vittime lasciando morsi di denti innaturali e una strana sostanza verde/giallognola vischiosa che sembra interessare tutti finendo manco a farlo apposta con la voglia di annusarla e infine assaggiarla.
Il capro espiatorio, la vittima sacrificale scelgono non a caso il diverso, colui che simboleggia una sorta di ignaro succube per il mostro che sembra lasciargli una nenia in testa in un loop che lo lascia ammutolito e inerme condannato alle forze dell'ordine.
Come per Untamed-Regiòn salvaje il film mescola sogno e delirio, realtà e incubo, con diverse follie sessuali che se nel film della Escalante erano rappresentate da una sorta di ibrido tentacolare sci fi metafisico, una creatura aliena, qui è più o meno lo stesso soltanto che il mostro sembra una sorta di Jabba the hutt con fattezze antropomorfe e una testa senza occhi con al posto della bocca un enorme vagina dentata e come coda una lunga prominenza capace di allungarsi all’occorrenza, che finisce in un’equivocabile riproduzione dell’organo maschile.
Pur avendo una trama stratificata e che nell’ultimo atto diventa complessa e difficile da analizzare, il film ha proprio lo scopo nel suo muoversi lento e con gesti ed espressioni quasi minimali di proiettarci in un universo risolutamente allucinatorio, fatto da meandri mentali da cui sarebbe futile cercare l’uscita dove si perpetuano una volta che l’indagine sulle decapitazioni di massa femminili, che è il filo conduttore di questo labirinto atmosferico e psichico, trova una fine.


Vivarium


Titolo: Vivarium
Regia: Lorcan Finnegan
Anno: 2019
Paese: Irlanda
Giudizio: 4/5

Una coppia rimane intrappolata in un surreale labirinto.

Negli ultimi anni la sci fi sta regalando e alternando opere colte e prodotti d’intrattenimento.
Vivarium è una riflessione profonda sugli obblighi morali che la società (ma di che tipo) sembra metterci davanti alla porta di casa come un figlio che non è nostro di cui prenderci cura, un’idea di felicità vaga ed effimera, una vita da gregari fino alla morte dove saremo sostituiti da altri non umani che come cloni di noi stessi, o provando ad esserlo, porteranno avanti una burocrazia umana grigia e senza forme e colori.
In un modello ideale dove le nuvole sono tutte uguali così come le case, i colori, ciò che si mangia, ciò che si deve pensare e fare, Eisenberg e la Poots, insieme già visti nel divertentissimo quanto malato Art of self defence, sono pedine di un quadro di intenti spaventoso e atroce. Alieni travestiti da umani impongono le loro regole per creare una specie che tra varchi e portali su altri mondi o realtà sembra sbarazzarsi di noi e prediligere una natura monotona senza danni e vivendo privi di una morale un futuro che sembra un limbo di psicosi.
E’strano apostrofare l’opera seconda di Finnegan se non con qualcosa che ci passa attraverso, una nebbia composta da un’atmosfera anomala, malsana e grottesca, perturbante, qualcosa che ci mette di fronte a diritti e doveri come un potare avanti un esistenza ripetitiva e monotona.
Un figlio che spia, urla, si nutre del vuoto e cresce spasmodicamente per trovare il suo spazio seppellendo la natura umana e clonandola per modellarla a suo piacimento.
Vivarium è un incubo dove le tenebre non si vedono mai perchè sono nascoste maledette bene.


giovedì 16 aprile 2020

Dogs don’t wear pants


Titolo: Dogs don’t wear pants
Regia: J.-P. Valkeapää
Anno: 2019
Paese: Finlandia
Giudizio: 4/5

Juha ha perso la sua amata consorte, morta annegata in un lago. Alcuni anni più tardi, incapace di superare questa tragedia, vive ancora da solo con la figlia. Il suo incontro casuale con Mona, una dominatrice, modificherà il corso della sua esistenza.

Era da tempo che inseguivo questo film. Qualcosa nell’aria mi faceva pensare a uno dei miei film preferiti LA PIANISTA di Haneke. Perversioni, bisogno di espiare una presunta colpa, l’avvicinarsi con l’altro/a in maniera atipica e a tratti perversa, la voglia di uscire fuori dagli schemi e liberare il proprio Io.
Nella locandina vedevo questi elementi sperando che il film non si limitasse soltanto ad essere una galleria di efferatezze e perversioni. Al contrario il terzo film dell’autore finlandese (e non è facile fruire pellicole finlandesi) è un film complesso, sincero, elegante, poetico. Un film sui rapporti umani (familiari e non) sul concetto di normalità e su altri binari che fanno capo a un concetto più volte ripreso ovvero quello della diversità o della doppia vita.
Un film che parla di bondage e sadomaso mostrandolo e collocandolo sempre in una situazione che sembra spostare l’ago della bilancia su chi realmente domina che cosa. Una dominatrix che incontra il cliente che non avrebbe mai voluto, o di cui forse è sempre stata alla ricerca e uno scenario quello al di fuori del negozio di tattoo che sembra grigio come l’ospedale, la scuola o la casa in cui vivono Junha e sua figlia.
Un film marcatamente sul sociale che riesce a superare la scelta coraggiosa di affrontare un tema poco abusato nel cinema dimostrando compattezza, lucidità e una caratterizzazione ottima dei personaggi.

venerdì 27 marzo 2020

Burning(2018)


Titolo: Burning(2018)
Regia: Chang-dong Lee 
Anno: 2018
Paese: Corea del sud
Giudizio: 4/5

Jongsu, che per tirare avanti fa lavoretti part-time, a Seoul incontra casualmente Haemi, ragazza che non vedeva dai tempi d’infanzia, all’epoca sua vicina di casa, in un villaggio rurale dove è possibile sentire la voce dagli altoparlanti della propaganda nordcoreana. Di lì a poco lei parte per l’Africa e chiede a Jongsu se può occuparsi del suo gatto mentre è via. Al suo ritorno, Haemi è in compagnia di Ben, uomo misterioso e facoltoso, che un giorno rivela a Jongsu di avere un hobby segreto: dare fuoco alle serre abbandonate, almeno una volta ogni due mesi. E da quel momento, Haemi scompare…

Burning è un’esperienza eterea, un viaggio lungo, lento e affascinante sulle relazioni umane.
Un’opera che riesce a trattare alcuni temi con un’attenta analisi lucida sulle classi sociali, sul perbenismo, sulle maniere delicate per distruggere quello che amiamo di più. Un film elegante con un sotto strato di nefandezze, orribili segreti, il bisogno di nascondersi e far sempre buon viso a cattivo gioco.
Un film che per qualche strano motivo non riesco a togliermi dalla testa vuoi per alcuni dialoghi, per la semplicità e la fluidità dei movimenti, per le pause, i silenzi e soprattutto le atmosfere.
Un thriller che non ingrana mai in termini di ritmo e azione riuscendo in questo modo ad essere ancora più enigmatico, ossessivo nel riprendere e ripetere alcuni passaggi, un doloroso sguardo dentro di sé e verso la vita che percorriamo in un mondo che è sempre più un labirinto. Ma è anche una perfetta matrioska dove Jongsu vuole essere uno scrittore omaggiando Faulkner che allo stesso tempo è stato omaggiato da Murakami nel suo racconto da cui è stata tratta la sceneggiatura del film. Ma anche una matrioska nelle relazioni e nell’indagine con Ben e i suoi misteri, la sua ricchezza preludio di un vuoto abissale e dei misteri della bellissima Haemi.
La vera forza del film è il suo sposare fin dalle prime scene un’atmosfera volta a rimanere per tutta la sua durata nell’ombra, dipanando gli eventi in maniera mai palese ma lasciando tutto velato nel mistero e nel non detto ma che noi presumiamo di sapere o di aver capito.
Ancora una volta una lezione su come ridare enfasi ad un genere intramontabile.