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venerdì 29 gennaio 2016

Dio esiste e vive a Bruxelles

Titolo: Dio esiste e vive a Bruxelles
Regia: Jaco Van Dormael
Anno: 2015
Paese: Belgio
Giudizio: 4/5

Dio esiste e vive a Bruxelles con una moglie timorosa e una figlia ribelle. Il figlio, più celebre di lui, è fuggito molti anni prima per conoscere gli uomini più da vicino, morire per loro e lasciare testimonianza e testamento ai suoi dodici apostoli. Egoista e bisbetico, Dio governa il mondo da un personal computer facendo letteralmente il bello e il cattivo tempo sugli uomini. Ostacolato da Eva, decisa a seguire le orme del fratello e a fuggire il 'suo regno', la bambina si 'confronta' con JC (Jesus Christ) ed evade dall'oblò della lavatrice. Espulsa dentro una lavanderia self-service infila la via del mondo, recluta sei apostoli e si prepara a combattere l'ira di Dio, a cui ha manomesso il computer e di cui ha denunciato il sadismo, spedendo agli uomini via sms la data del loro decesso.

Dio esiste e vive a Bruxelles è un gioiellino di comicità, amarezza, cinismo, ma soprattutto speranza.
Un film ambizioso e colorato, con un inizio sorprendente e illuminante, che non poteva mancare nel curriculum di un autore davvero singolare, che sembra voler sempre superarsi e raccontare, in questo caso grazie alla commedia, temi surreali e sempre incisivi.
Partendo dalla scrittura, dalla voce off fuori campo infantile che riesce nel delicato compito di non essere disturbante, la pellicola di Dormael spinge sempre su universalità di temi e concetti che sembrano essere allo stesso tempo delle parodie, con dialoghi ironici, ma senza mai dimenticare il dramma e la solitudine di fondo, che come una nuvola, sembra aver attanagliato l'umanità.
E'così Dio, un bastardo che tratta male moglie e figlia, nella sua terribile voglia di tacere il segreto e la fine della vita e la speranza dell'umanità, per paura che questa si rivolti contro di lui (come il suo primo figlio) scrive e dirige, bevendo e fumando, nella sua piccola stanza immortale dal tempo, una prigione di sentimenti e valori.
Chi allora se non Eva, il femminino, la donna, può spezzare questo triste e noiosissimo incantesimo?
Sicuramente scomodo e blasfemo per alcuni, ma allo stesso tempo sicuramente curioso e interessante e rassicurante, per chi sa cogliere il messaggio dietro a tutto ciò.
Un messaggio che sa essere molto più misurato e di nobili intenti come molti altri film non hanno saputo fare anche se dall'altro diventa curioso nella domanda per cui probabilmente nessuno di noi vorrebbe ricevere un sms con la data della sua morte.
Una satira che stuzzica e provoca senza mai affondare la lama ma restituendo la speranza e cercando di svegliare gli esseri umani nel loro sonno primordiale.
Un grottesco corretto originale e immortale, una vera chicca che con tante sfumature riesce a conquistare su tutti i piani senza sconvolgere ma facendo ridere e sorridere in più momenti.


sabato 9 gennaio 2016

Keeper

Titolo: Keeper
Regia: Guillaume Senez
Anno: 2015
Paese: Belgio
Festival: TFF 33°
Giudizio: 4/5

Maxime è un adolescente di quindici anni, figlio di genitori separati conduce una vita simile a quella dei suoi coetanei ed è innamorato di Mélanie. La gravidanza della ragazza complicherà il rapporto tra i due, ma il modo in cui Senez si avvicina al loro cambiamento segue il movimento della scoperta senza ricorrere alle forzature di un racconto che deve spiegarci ogni snodo.

Keeper è un portiere ma anche colui che sa custodire.
Il film vincitore del 33°TFF è un'opera intensa, potente, con una tema abusato ma attuale, capace come sempre di dimostrare come basti avere i numeri e saper descrivere in modo approfondito un concetto per confezionare un'opera realistica e drammatica.
Speranze e illusioni sembrano le frasi di fondo che emergono dalla differenza tra sogno e realtà dei due protagonisti. Illusioni in una società in cui i calciatori e i portieri godono di fama mondiale e il grande sogno sembra apparentemente alla portata di tutti per dare una vita adagiata e senza nesusn tipo di problema.
Ma la realtà è un'altra e allora Maxime, complice una famiglia sensibile che accoglie e si interessa ai problemi dei figli, cerca di trovare un'ancora di salvezza ad un disagio che sembra colpire in particolar modo Melanie e una madre che come lei ha commesso gli stessi "errori".
Poprio quegli errori e i dubbi impediscono purtroppo di tener fede ai propri intenti, soprattutto il lavaggio del cervello della madre di Melanie alla figlia, diventando ad un certo punto molto frustrante.
Keeper è privo di morale e non cerca minimamente di darne una, smarcandosi continuamente e intessendo tutta una serie di dubbi e scelte morali che appartengono al pubblico come ai genitori e gli stessi protagonisti.
Un film molto autoriale con un reparto tecnico e alcune inquadrature che sembrano quel cinema veritè dei fratelli Dardenne e di tutto un neorealismo belga moderno e mai stucchevole che non cerca mai di stupire ma in grado invece di regalare uno spaccato di realtà intenso.
Keeper abbandona la retorica della finzione e del linguaggio fasullo per diventare uno spaccato del presente e di come realmente non esistono happy-ending forzati ma anzi una spinta verso quell'insicurezza e paura, da entrambe le parti, che alle volte porta alla scelta più dolorosa ma necessaria.



sabato 27 giugno 2015

Kidnapping Mr.Heineken

Titolo: Kidnapping Mr.Heineken
Regia: Daniel Alfredson
Anno: 2015
Paese: Belgio
Giudizio: 2/5

Nel 1983 quattro amici di infanzia decidono di mettere a segno quello che in seguito sarebbe stato definito il crimine del secolo. Loro obiettivo è Freddy Heineken, erede dell'impero della birra e uno degli uomini più ricchi al mondo. Cor van Hout, leader del gruppo e grande stratega, elabora un piano audace per sequestrare il miliardario e chiedere il più grande riscatto mai pagato per un ostaggio.

Ispirato a eventi reali, il film si basa sul libro del giornalista Peter R. de Vrier e un precedente film tv. Un film che scorre abbastanza piacevolmente soprattutto fino alla seconda metà dove comincia ad inciampare, riuscendo in un qualche modo a tenersi a galla soprattutto per merito del cast su cui svetta Heineken/Hopkins.
Buona nella prima parte soprattutto la trasposizione della storia nella Amsterdam cupa e incerta degli anni '80, accentuata da un buon uso della fotografia, con alcuni inseguimenti efficaci, altalenando action a spezzoni documentaristici sul reale fatto di cronaca.
E' un film per lo più voluto visto il successo che ebbe tale fatto di cronaca e soprattutto la cifra ottenuta dai sequestratori per il riscatto.

Il regista confeziona il suo film migliore dopo le due parentesi deludenti sul romanzo di Stiegg Larsson, ma alla fine questo ennesimo film sui rapimenti, sembra essere una contaminazione tra tanti film già visti che se non fosse stato per il cast famoso forse non avrebbe mai fatto parlare di sè.

lunedì 22 giugno 2015

Treatment

Titolo: Treatment
Regia: Hans Herbotz
Anno: 2014
Paese: Belgio
Giudizio: 4/5

L’ispettore Nick Cafmeyer sembra avere tutto dalla vita: bellezza, intelligenza e una carriera di successo. Ma si porta dietro un peso, sin dall’eta di nove anni infatti è ossessionato dall’irrisolto…

"Il maniaco che masturbandosi minaccia e costringe il padre a fare sesso col figlio... "
Il thriller belga di Herbotz ispirato da una novellla di Mo Hayder è sicuramente un film importante, con un'atmosfera incisiva, recitata bene, e con alcuni colpi di scena notevoli e ben strutturati oltre che un'efficacia tutta sua nella ricerca dei detttagli e dei particolari più perversi e scioccanti.
Con una trama e una tematica che unisce investigazioni, fantasmi del passato, traumi irrisolti e pedofilia, e molto altro ancora, Treatment, film di nuovo senza una distribuzione e condannato a vagare come un anima errante nel web, scardina una costruzione facile del thriller cercando più dimensioni e piani narrativi quasi come se dovesse continuamente superarsi nella narrazione e nel ossessivo bisogno di dare uno schema corale della vicenda, vista tutta attraverso il suo protagonista, un ottimo Geert Van Rampelberg.
Purtroppo in questa lunga escalation, proprio a metà, il film sembra trovare alcuni intoppi di trama, non riuscendo sempre ad avere una continuità lineare ma invece forzata in più punti riuscendo a chiudere in un cerchio in cui il bene ovvero le forze dell'ordine sembrano averla vinta catturando il colpevole ma di fatto restituendo un angoscia incredibile scandendo una beffarda parvenza.


martedì 9 giugno 2015

Alleluia

Titolo: Alleluia
Regia: Fabrice Du Welz
Anno: 2014
Paese: Belgio
Giudizio: 4/5

Gloria e Michel si conoscono tramite un sito di appuntamenti online e già la prima notte scoppia la passione. La mattina seguente Michel chiede in prestito dei soldi a Gloria e le dà un numero di telefono falso, ma la donna non si arrende e cerca di rintracciarlo.

Alleluia conferma il talento e la ricerca di un regista che non ha bisogno di presentazioni.
Du Welz è infallibile nel suo tocco ineguagliato per disturbare lo spettatore, trasmettergli inquietudine e trascinarlo poi con sé sui binari del delirio, aggredendolo in una spirale viscerale difficile da dimenticare.
CALVAIRE, VINYAN  e infine forse il film più complesso, un'opera che ci porta dentro, nelle derive esistenziali di un rapporto ossessivo-compulsivo davvero degno di attente analisi e riflessioni.
Una pellicola scandita da pochi atti, quattro, in cui i raptus di follia e la spirale attorno ai due protagonisti diventa una matassa difficile da sbrogliare e in cui ancora una volta è la donna a vincere e l'uomo ad esserle succube.
Il personaggio di Gloria poi è l'essenza della una grande madre divoratrice con uno sguardo, quello di Lola Duenas, caace di far gelare il sangue allo spettatore.
Tante le scene d'effetto e molto funzionali i dialoghi (lo sceneggiatore è quello di CALVAIRE) per arrivare a momenti topici come quello del sabba orgiastico attorno al fuoco, i rituali di Michel, e la complicità dei due ad inserirsi nelle vite degli altri.
Il regista ritorna sulle vicende di Raymond Fernandez e Martha Beck, i Bonnie e Clyde del delitto passionale già oggetto di diversi adattamenti cinematografici, asserendo di essersi ispirato ad una vicenda peraltro inflazionata, in quanto già oggetto in precedenza di ben quattro trasposizioni cinematografiche e di una serie televisiva: quella dei cosiddetti "Lonely Hearts Killers".
Con una fotografia sgranata, una recitazione eccellente e un rapporto con il sesso quasi mistico, ALLELUIA è un'opera indimenticabile, sporca e raffinata allo stesso tempo, colorata e allo stesso tempo cosparsa di un buio impossibile da illuminare.
L'odio non è una soluzione e l'amore forse è anche peggio.

domenica 19 aprile 2015

Cub-Piccole prede

Titolo: Cub-Piccole prede
Regia: Jonas Govaerts 
Anno: 2014 
Paese: Belgio 
Giudizio: 2/5 

Sam, un ragazzino di dodici anni, si avvia verso il consueto campo estivo con gli altri boy scout. Introverso e misterioso, il piccolo Sam non riesce a fare amicizia con gli altri che invece lo emarginano e lo deridono. Pian piano mentre gli scherzi ai danni del ragazzino iniziano a farsi piu' pesanti, cominciano a capire che la vittima è meno indifesa del previsto e il gruppo si renderà conto che sta tormentando il boy scout sbagliato. 

Quando l'avventura incontra l'horror, il viaggio di formazione e il viaggio dell'eroe, i risultati possono assumere strane connotazioni. 
A volte stupiscono e si grida al capolavoro come in BEAST OF THE SOUTHERN WILD e TIDELAND, oppure si delude fortemente come in questo esordio di Govaerts. 
Cub-Piccole prede è un film che poteva rivelarsi interessante, lo sono le contaminazioni e una certa idea di cinema che sembra emergere dai gusti del regista, ma che purtroppo sprecano ogni possibilità e soprattutto gridano alla forzatura più controproducente che si potesse immaginare. 
Eppure è nella trama che traccia i suoi limiti maggiori, come una mappa della caccia al tesoro di questo manipolo di bambini che ti sembra di sapere già dove condurrà, appesantito da alcune imbarazzanti interpretazioni e alcuni dialoghi davvero ai limiti della sopportazione. 
Ammiro il coraggio che si cela dietro intenti come questi, soprattutto in un paese come il Belgio che ultimamente sta regalando e deliziando grazie ad alcuni registi interessanti e alcuni film che lasciano il segno. 
Cub, forse complice il target, un concetto di violenza psicologica e fisica quasi assente (non abbiamo nemmeno menzionato lo splatter di cui il film prende dichiaratamente le distanze) lascia sgomenti soprattutto nel finale, senza stare a imprimere e pesanti critiche sulle caratterizzazioni dei personaggi e alcuni buchi di sceneggiatura madornali. 
Il regista, un giovane “lupetto”, nel tentativo di omaggiare un certo cinema del passato, ha commesso, purtroppo, alcuni grossolani errori difficilmente perdonabili.

Bullhead

Titolo: Bullhead
Regia: Michael R.Roskam
Anno: 2011
Paese: Belgio
Giudizio: 4/5

Jacky Vanmarsenille, figlio di un piccolo allevatore delle Fiandre, si fa largo nella vita a suon di intimidazioni nei confronti degli allevatori come il padre. Ultima ruota del carro di un clan dedito allo smercio di ormoni, Jacky finisce in un giro più grande di lui, pilotato da un veterinario senza scrupoli, in affari con un commerciante di carne. L'assassinio di un poliziotto federale e un inaspettato confronto con un segreto del passato faranno vacillare il fragile equilibrio di Jacky.

Bullhead è spietato. Il suo punto di forza però non è la violenza come il film o la trama vorrebbero far intendere. Tutt’altra cosa invece è la potenzialità e la forza del film. 
Roskam è un regista atipico e i suoi film, nonché questa coraggiosa opera prima, ne sono la dimostrazione. Un talento, quello belga, che va tenuto sott’occhio soprattutto, per come si avrà modo di scoprire anche in THE DROP, sceglie sempre dei binari tutt’altro che convenzionali ed è proprio questo che affascina, una totale aderenza alla realtà. 
 La mafia in questione è quella delle Fiandre, di origine fiamminga, e il suo core business è lo smercio clandestino di ormoni che dopano gli animali destinati al macello. 
Questo clan di "allevatori" è più radicato sul territorio che nei gangli del potere politico ed economico. Anche se da questo punto di vista lo smercio degli ormoni serve solo come incidente scatenante, la questione dell’omicidio, la sceneggiatura anche se con qualche piccola defezione, ne coglie gli aspetti spietati con cui delinea e caratterizza il protagonista, un Matthias Schoenaerts davvero sull’orlo dell’esplosione, perfetto per concentrare su di sé e sul suo corpo bovino, la solitudine e la rabbia repressa.
Bullhead inoltre regala una delle scene di violenza più cruente degli ultimi anni (il trauma ai danni di Jacky). 
 Bullhead è un film con tratti decisamente atipici e ha il coraggio di non schierarsi mai, anche quando sarebbe facile, dalla parte della vittima, perché la verità è che ogni vittima è anche un po' carnefice e ogni carnefice è vittima della propria rabbia.


Loft

Titolo: Loft
Regia: Erik Van Looy
Anno: 2014
Paese: Belgio
Giudizio: 2/5

Cinque amici condividono un piccolo appartamento per le loro relazioni extraconiugali, cominceranno a mettere in discussione la loro amicizia quando, all'interno del loft, verrà ritrovato il corpo di una donna sconosciuta.

Loft può essere ricordato solo per la sterminata e nutrita schiera di gnocche che dall’inizio alla fine non mancano di stupire come in una passerella continua tra scenografie eleganti e chic e un manipolo di attori che cerca di fare il paiolo a queste modelle.

Loft ha una storia ingenua e cade nella trappola, purtroppo, di smascherare troppo velocemente l’assassino (non sono affatto un genio e se ci sono riuscito io ci può riuscire chiunque). 
Un film che è un remake del remake, etc. 
Una sceneggiatura che di fatto ha alcuni buoni spunti e delle trovate notevoli che non lo portano a essere telefonato a tutti gli effetti nei colpi di scena. 
Però secondo me ha una durata superiore a quella che meritava, infarcendo così di particolari inutili e scene stereotipate, un’idea che seppur sfrutta un cliché diverso, non è poi così accattivante e alcuni dubbi o incoerenze, vengono a galla già a metà film.

venerdì 20 febbraio 2015

Pasolini

Titolo: Pasolini
Regia: Abel Ferrara
Anno: 2014
Paese: Belgio
Giudizio: 3/5

Il film racconta l'ultimo giorno di vita di Pasolini, mentre stava cercando di recuperare delle bobine rubate di Salò, un viaggio che si è concluso con la sua morte. Il film sfrutta l'occasione per mostrare le sequenze perdute. Nel film viene inoltre trattato l'ultimo progetto del regista italiano, un film su San Paolo ambientato a Detroit.

Pasolini racconta di un intellettuale importante, dirompente e influente, un precursore misterioso e affascinante che ha saputo portare la sua cultura in tutte le arti con cui ha avuto modo di confrontarsi.
Il film voluto da Ferrara è un film molto complesso, difficile da analizzare e commentare.
Un film che seppur ambizioso, cerca e non può esimersi del resto, di analizzare solo una parte della complessità dell’artista. 
Con un taglio a volte che potrebbe sembrare freddo, incerto e didascalico, il regista torna a cercare di impressionare, non dal punto di vista delle immagini, ma di quello che forse Pasolini avrebbe potuto fare se non fosse morto.
E’certo, per ammissione del suo stesso protagonista Dafoe (come sempre un trasformista perfetto, in questo caso poi entra proprio di corpo nel personaggio) una lavorazione in cui la fretta e i tempi corti hanno sancito diversi limiti.
Da questo punto di vista non sorprende dunque che in alcuni casi sembra che il film sia spezzato e poi rimontato, con un particolare uso del montaggio e dei tempi della narrazione, spostati e poi reinseriti.
Il coraggio di Ferrara avrebbe avuto bisogno di più tempo, in modo tale che alcuni aspetti incerti e didascalici, non prendessero in alcuni casi il sopravvento.
Così dalle sue parole non concordo molto sull’affrontare solo il Pasolini del presente e non quello del passato, come nella frase in cui si rivolge a Colombo dicendo “siamo tutti in pericolo”. 
Ecco il film sarebbe e avrebbe dovuto essere più pericoloso, soprattutto contando che ancora, come spesso capita nel nostro unicum italiano, alcuni omicidi rimarranno sempre dei “misteri” e confermano ancora di più, senza stare ad essere troppo apocalittici o complottisti, i motivi che rendevano questo personaggio così politicamente scomodo.

martedì 10 febbraio 2015

Fee

Titolo: Fee
Regia: Fiona Gordon
Anno: 2011
Paese: Belgio
Giudizio: 3/5

Dom è il portiere notturno di uno scalcinato hotel di Le Havre. Una notte, una donna scalza e senza bagaglio di nome Fiona si presenta al suo bancone dicendo di essere una fata e di poter esaudire per lui fino a tre desideri. Dom chiede e ottiene una Vespa blu e una provvigione di benzina a vita, recuperate in modo tanto facile quanto imprevedibile, e si riserva di pensare alla terza richiesta. Nel mentre, i due s'innamorano, fanno un bambino, e incrociano la loro stralunata esistenza con quella di un solitario turista inglese e del suo cane, di un trio di ragazzini immigrati clandestinamente e di un barista cieco. 

La regia a sei mani che porta la firma in particolare di Fiona Gordon è la stessa che ha contribuito ai due film precedenti del singolare terzetto che sembra sempre di più comporre deliziose fiabe moderne e surreali, con un ritorno alla slap-stick scegliendo il clownesco come humus per creare una coinvolgente commedia burlesque che parla d’amore.
D’altronde Abel e Gordon hanno studiato teatro a Parigi con Lecoq e conservato una concezione del mestiere di attore fortemente legata alle figure del mimo e del clown. Ma d’altro canto è stata anche un’impresa ardua soprattutto nella quasi totale assenza di dialoghi e in cui il corpo è la fonte da cui dare voce alla vicenda.

Ci sono dei momenti di grande poesia nel film, avallati ad altri quadri raffazzonati per la velocità della messa in scena, che certo non possono risparmiare alcune critiche così come qualcuno diceva che il rischio era alto per cui ciò che è troppo stroppia, ma il duo, lei canadese e lui belga, dimostrano, facendo incontrare la piccola fiammiferaia con una sparuta fata incompiuta che questo piccolo e artigianale risultato se non altro è degno di nota.

venerdì 9 gennaio 2015

Due giorni, una notte

Titolo: Due giorni, una notte
Regia: Dardenne
Anno: 2014
Paese: Belgio
Giudizio: 4/5

Sandra ha un marito Manu, due figli e un lavoro presso una piccolo azienda che realizza pannelli solari. Sandra 'aveva' un lavoro perché i colleghi sono stati messi di fronte a una scelta: se votano per il suo licenziamento (è considerata l'anello debole della catena produttiva perché ha sofferto di depressione anche se ora la situazione è migliorata) riceveranno un bonus di 1000 euro. In caso contrario non spetterà loro l'emolumento aggiuntivo. Grazie al sostegno di Manu, Sandra chiede una ripetizione della votazione in cui sia tutelata la segretezza. La ottiene ma ha un tempo limitatissimo per convincere chi le ha votato contro a cambiare parere.

Semplice e paradossale, ancora una volta lo sguardo neo-realista e contemporaneo della coppia di registi belgi, torna doverosamente a parlare di lavoro in una post-contemporaneità mai così precaria e preoccupante.
Ciò che lascia basiti ancora una volta in questa sorprendente commedia recitata con molta naturalezza e fisicità dalla Cotillard (per l'occasione smunta, un po' depressa e un po' sbattuta) è la cura del dettaglio e la caratterizzazione dei personaggi.
Con dialoghi taglienti e astuti nel mostrare fin dove può spingersi la sensibilità e la crudeltà umana, di fronte ad una madre sofferente ma in fondo coraggiosa, ancora una volta sorprende la volontà di sopravvivenza degli uomini, per cui non è necessario usare la scontata e abusata metafora della violenza ma basta "semplicemente" mostrare il mondo di oggi, così com'è senza particolari forzature.
Il tal senso, il neorealismo può essere molto più agghiacciante di qualsiasi horror o pseudo horror di sorta.
Senza stare a enfatizzare niente e nessuno, i Dardenne scelgono nel calderone di 16 persone che dovranno scegliere il destino di Sandra (di sesso ed età differenti) e in cui da una parte all'altra captiamo quasi tutti i mali della società, degli obbiettivi, c'è chi si nega, chi ha paura, chi ricorda un suo gesto di generosità del passato. Le etnie di provenienza sono le più diverse ma il senso di insicurezza profonda accomuna tutti e anche con questa presa di posizione i registi marcano ancora di più la loro assoluta trasparenza a trattare l'argomento.
La fragilità e l'umanità, sotto punti di vista diversi, sono ancora alla base della ricerca di un certo tipo di cinema autoriale dei registi.
Con un finale commovente in cui Sandra confida al marito di essere felice per aver fatto una scelta che di fatto la pone come vincitrice, anche se lavorativamente ha perso, Sandra vince infine la sua battaglia contro la depressione e con l'impeto e la forza di chi ha saputo rialzarsi.

venerdì 19 dicembre 2014

Cacciatore di teste

Titolo: Cacciatore di teste
Regia: Costantin Costa Gravas
Anno: 2005
Paese: Belgio/Francia/Spagna
Giudizio: 3/5

Bruno Davert è un dirigente della cartiera dove lavora da quindici anni. Benché sia un lavoratore serio e coscienzioso, un giorno viene licenziato insieme a un centinaio di colleghi a causa di una ridistribuzione economica. Convinto di essere ancora giovane e di avere competenze soddisfacenti, pensa di poter trovare in breve tempo un altro lavoro simile a quello perduto. Tre anni dopo, essendo ancora disoccupato, Bruno è angosciato perché non trova il modo di continuare a garantire un livello di vita soddisfacente per la sua famiglia.

Un astuto film sulla crisi mancava.
Il fatto che un autore come Costa Gravas abbia colto tutti di sorpresa anticipando i tempi, è un elemento sintomatico di come alcuni registi captino alcuni reali problemi della società in generale e prontamente si cimentino per darle una voce suonando incessantemente sirene di emergenza.
Tratto dal romanzo di Westlake, il film per tutta la sua durata unisce toni grotteschi e in alcuni casi elementi difficilmente realistici che diventano una sorta di parodia tragicomica.
La maldestraggine quasi assurda del killer improvvisato che commette errori a ripetizione fino addirittura a seminare per sbaglio un cadavere in più, ma senza mai subire conseguenze è solo uno degli assurdi, giocato con un'emblematica metafora, sui cui si dipana la storia.
Colpire chi come noi e non coloro che sono al vertice della piramide sociale è l'ulteriore elemento di disperazione di una classe che forse per paura, forse perchè sembra più semplice colpire chi è come noi, diventa un manifesto di disperazione e alienazione.
Bruno, il suo rapporto con la famiglia e soprattutto con la moglie, diventa il cittadino colto e intellettuale, l'esempio perfetto di come una persona benestante e aristocratica, possa immediatamente buttarsi e perdere il controllo pur mantenendo, una sorta di normalità tuttavia psicotica come se da un momento all'altro tutto potesse implodere.
Un film paradossale, ironico, impietoso e per certi versi distante dal cinema tradizionale del regista greco adottato dalla Francia, che fa centro con una commedia con dei toni per certi versi quasi da thriller, che però, va detto, in alcuni punti forza volutamente alcune scene portando lo spettatore a ridere e al contempo a una sospensione dell'incredulità macchinosa e per certi versi forzatache crea una contaminazione di stati d'animo.

mercoledì 3 dicembre 2014

Eau Zoo

Titolo: Eau Zoo
Regia: Emilie Verhamme
Anno: 2014
Paese: Belgio
Festival: TFF 32°
Giudizio: 3/5

Lou e Martin sono due adolescenti che vivono su un’isola. L’isolamento geografico e l’atteggiamento iperprotettivo dei genitori fanno maturare in loro un senso di soffocamento: un’impasse emotiva e sentimentale che mette a rischio il loro legame.

L'opera prima di Verhamme, giovane regista belga, poteva trasformarsi in un importante quadro simbolico dove far emergere tante contraddizioni della società e volgerle verso un futuro distopico meno fantascientifico e più intellettuale.
A partire dalla comunità di isolani governata da regole improntate a un ferreo isolazionismo, che nel corso della storia-non storia divengono via via sempre più rigide, trova molti elementi interessanti soprattutto tra gli scontri generazionali degli adulti (autoconservatori e rigidi burocrati) a confronto con diverse tipologie di giovani (ci sono i reazionari e imprevedibili come Martin, ma purtroppo anche i rigidi osservatori delle regole sociali, come il fratello di Lou) e il bisogno e il desiderio di libertà a dispetto della totale incomunicabilità reciproca che provano i protagonisti.
Purtroppo a causa di un epilogo finale che destruttura tutta la piramide di simboli, riportando alla tragedia shakespiriana, Eau Zoo non mantiene le promesse e perde gran parte della suspance e della credibilità della vicenda.
Sono molti gli elementi presi in prestito o citati all'interno del film così come anche i richiami letterari e soprattutto svariati film (DOGVILLE,THE VILLAGE,IL SIGNORE DELLE MOSCHE,LOST) che sotto diversi punti indagavano già alcuni temi presenti nella vicenda.
Eau Zoo oltre a comunicare troppo allo spettatore e troppo tardi (alcuni buchi di sceneggiatura comunque ci sono) poteva senz'altro, senza arrivare ad essere così macchinoso e per certi versi ambiguo, quell'opera sperimentale e indipendente di incredibile impatto, mentre invece diventa un'opera inconclusa che mostra fantastiche location, ha momenti piuttosto toccanti o accattivanti, complici anche scogliere pittoresche e cinematograficamente molto fotogeniche e alcune buone intuizioni di ripresa, il tutto infine rilegato da un cast credibile e da un perfetto uso del sonoro.

martedì 2 dicembre 2014

Tous let chats sont gres

Titolo: Tous let chats sont gres
Regia: Savina Dellicour
Anno: 2014
Paese: Belgio
Festival: TFF 32°
Giudizio: 4/5

Paul spia da lontano Dorothy,una ragazza di 16 anni che vive in un quartiere benestante di Bruxelles. Ora Dorothy vuole trovare il suo vero padre biologico ed ha sentito che Paul è un bravo detective. Così inizia un percorso di avvicinamento tra i due che instaurano un rapporto, conflittuale ma complice, che li porterà ad una nuova scoperta di se stessi.

Interessane l'idea su cui Dellicour struttura la sua commedia mantenendo sempre un perfetto equilibro tra dramma sociale e giallo con alcune interessanti riflessioni.
E'proprio vero che l'opera prima della regista belga sembra interessarsi alla ricerca di se stessi e degli altri, innescando un impianto di semina e raccolta molto efficace e che soprattutto nelle convincenti interpretazioni trova un terreno fertile su cui appoggiarsi.
Il climax finale in quella ripresa in auto con Dorothy e Paul è davvero commovente.
Un film maturo, intenso, mai banale e multisfaccetato che mostra soprattutto il bisogno per i giovani, ma che poi è anche degli adulti, di fare luce sulle loro vite e sul loro passato anche a costo di doversi confrontare con una triste realtà.
Il merito più grande della Dellicour è ambizioso senza essere mai retorico o scontato.
Le conseguenze di una ubriacatura distruttiva, che ti portato a fare sesso con diversi uomini nella stessa notte, tanto da non sapere quale è il padre di tua figlia, perché nemmeno ti ricordi con chi sei stata, diventa un ammonimento non moralista ma etico per tutta la gioventù che oggi abusa di alcool e droghe.
Non lo so se li ho provocati se ero consenziente o hanno abusato di me spiega la madre alla figlia prima di chiederle scusa per averle nascosto la verità..... "cosa ti dovevo dire che sei uscita da un buco nero del quale non ho memoria?"

giovedì 29 maggio 2014

Alabama Monroe-Una storia d'amore

Titolo: Alabama Monroe-Una storia d'amore
Regia: Felix Van Groeningen
Anno: 2012
Paese: Belgio
Giudizio: 3/5

Tra Elise e Didier è amore a prima vista, nonostante le evidenti differenze di carattere. Elise ha un negozio di tatuaggi, suona il banjo in una band, ha vistosi tatuaggi ovunque ed è con i piedi ben saldi per terra. Didier, invece, ama parlare, è ateo convinto ed è un ingenuo romantico. La loro felicità è completata dall'arrivo della figlia Maybelle, che a sei anni però si ammala gravemente. Didier ed Elise reagiscono in maniera molto diversa ma Maybelle non lascia loro altre alternative al dover lottare insieme.

Sarà che alcune ballate country sanno che tasti andare a toccare, e sarà che il film ha un taglio assolutamente europeo, anche se sembra a tutti gli effetti di vedere un indie americano, che Alabama diventa quel melodramma straziante che riesce però a non cedere mai ad un sentimentalismo becero e scontato.
Dal punto di vista della storia e di dove vuole andare a parare il soggetto, non è che ci siano chissà quali elementi originali. Anzi.
Racconta una storia d'amore e pure con alcune pecche e ingenuità, come la scena in cui Didier, stoppa il concerto, per uscirsene con quel pantano sulle cellule staminali.
Il film però prosegue concentrandosi anche su altro come il progredire del male (loro e della bambina), le dinamiche della coppia affranta e una spinta verso il melò rafforzando il pathos che non concede tregua allo spettatore.
Groeningen punta tutto sull'incredibile catarsi degli attori, cambia continuamente e si sposta attraverso piani temporali (come in BLUE VALENTINE) regalando tanti flash-back, suonando molto e facendoci entrare in collisione con il personaggio di Elise, donna che ha scritto sulla pelle il suo dramma senza fine.
La colonna sonora è davvero suggestiva e capace di trasmettere in due note di benjo una quantità allarmante di emozioni.

mercoledì 1 gennaio 2014

Devil's Double

Titolo: Devil's Double
Regia: Lee Tamahori
Anno: 2011
Paese: Belgio
Giudizio: 2/5

Uday Hussein, nonchè figlio del ben più famoso Saddam, detto anche il Principe Nero, non è sicuramente una figura pubblica esemplare: psicopatico alcolizzato, depravato, persona violenta e ossessionata dal sesso, che sperpera soldi e vive nel lusso più sfrenato. Per questi motivi, il suo stesso entourage pensa bene di trovare un sosia che possa appunto impersonarlo, al fine di scampare eventuali attentati contro di lui.

Saddam Hussein è davvero morto?
Se da un lato il film vuol far vedere come dietro ogni persona di potere possa esserci un sosia, o più, che lo sostituisca nei momenti necessari, dall'altro vuole mostrare come spesso e volentieri i figli dei dittatori soffrano ancora più del loro padre, la sofferenza di non poter mai arrivare al loro livello.
L'ultimo film del regista di ONCE WERE WARRIORS, basato sul libro autobiografico,The Devil’s Double, scritto da Latif Yahia, è un film d'azione solido che dopo un incipit formale cede il passo al cinema di genere in cui non mancano efferatezze e violenza sopra le righe.
Le riprese a Malta con tutte le difficoltà per cercare di modellare la location, non sono state facili e non è neanche male parte dell'analisi sulle larghe intese per mantenere alti alcuni tipi di interessi politici e soprattutto economici (l'odio verso il Kuwait ma anche per gli ebrei etc) mostrando così le dure e rigide alleanze medio-orientali.
Uno dei problemi potrebbe essere quello di non dover andare fino a Baghdad per cercare un personaggio come Uday, personaggio controverso che non può vivere senza eccessi e senza bisogno di nascondere la sua natura psicopatica, regalando molte scene che hanno il solo risultato di apparire gratuite e deprimenti oltre che patetiche proprio perchè visualmente troppo (sur)reali e gratuite.
Ci sono sequenze con le immagini di Baghdad bombardata con una musica elettronica che non si capisce bene cosa voglia significare.
La donna ancora una volta è messa in mostra come un accessorio per l'uccello forse puntando un pò troppo il dito contro una cultura che non sembra darle i giusti diritti, ma su questo non sono molto chiari gli intenti del film.
Anche cercare di dare storicità alla storia ambientata nel 1987 con il paese in preda alla corruzione e al tradimento non era facile soprattutto volendo evidenziare l'epoca d'oro del "Principe Nero" Uday Hussein.
Purtroppo dopo un inizio niente male, il film vacilla, mostrando i suoi limiti e la sua mancanza di forza vitale e diventando proprio quello che non dovrebbe verso il finale ovvero un film noioso in cui lo spettatore ha già capito cosa farà Latif.

lunedì 2 gennaio 2012

Ragazzo con la bicicletta


Titolo: Ragazzo con la bicicletta
Regia: Dardenne
Anno: 2011
Paese: Belgio
Giudizio: 4/5

Cyril ha quasi dodici anni e una sola idea fissa: ritrovare il padre che l’ha lasciato temporaneamente in un centro di accoglienza per l'infanzia. Incontra per caso Samantha, che ha un negozio da parrucchiera e che accetta di tenerlo con sé durante i fine settimana. Cyril non è del tutto consapevole dell'affetto di Samantha, un affetto di cui ha però un disperato bisogno per placare la sua rabbia.

Un altro film sul sociale, un altro film sull’infanzia incompresa, sulla capacità dei due registi belgi di inquadrare con un occhio senza remore e senza prese di posizioni e cogliere gli aspetti salienti di un protagonista e di quella fase dell’adolescenza che Palahniuk definisce l’era glaciale della stupidità.
 Al loro sesto film i Dardenne dimostrano di credere e scommettere sui destini incrociati di apparenti sconfitti, personaggi lasciati ai margini, derelitti del sociale, costretti a prendersi a pugni con la vita senza accettare costrizioni e senza lasciarsi assoggettare dal mondo degli adulti.
La svolta ancora una volta è l’amore, la capacità di alcuni individui di prendersi il fardello e crederci dimostrando che in questa dura e anomala post-modernità esistono ancora eroi del sociale e si crede ancora in una mappa di valori che per alcuni di noi non tramonteranno mai.
Se i registi trovano in una parrucchiera la risposta a un’istituzione e degli enti incompetenti che non sanno cosa fare oppure non hanno tempo per investire su delle scelte difficili e laboriose che semplicemente significano assumersi le proprie responsabilità allora la critica assume un aspetto feroce. Vengono colpiti e inquadrati tutti, dal padre agli assistenti sociali agli istituti formativi e gli stessi istitutori. Diventa facile allora credere che Cyril diventi la pedina perfetta per il gioco di bulli e ragazzi che riescono con molta semplicità a influenzare la confusa psiche del giovane.  Senza mai dimenticarsi che dall’assenza della madre (su cui non viene spesa una parola) alla disperata ricerca di una persona che lo sappia amare Cyril fa quello che spesso fanno anche gli adulti ovvero seguire la corrente e lasciarsi trasportare dalla bici(vero mezzo di evasione del protagonista) lottando contro tutti gli attentatori alla sua libertà di decidere.

lunedì 21 marzo 2011

Calvaire

Titolo: Calvaire
Regia: Fabrice Du Welz
Anno: 2004
Paese: Belgio, Francia, Lussemburgo
Giudizio: 4/5

Come girare un bel film con pochi mezzi? Come rendere efficace una trama che sembra essere stata saccheggiata in tutti i modi forte e robusta? Calvaire è un esempio davvero interessante.Girato in Francia, questo film di cui non sapevo niente ma che nel trailer mi aveva attirato per via di una certa atmosfera angosciante, non ha deluso le aspettative.
Il belga Du Welz, dopo alcuni cortometraggi, esordisce così alla regia di un lungometraggio, dimostrando capacità e talento non comuni.
La storia è quella di un cantante di serie b di quelli che devono agguantare ogni proposta per campare e che si portano in giro il camion a modi camper con la scritta che inneggia per stimolare clienti; quest'uomo finito uno spettacolo davanti a molte e carine vecchiete deve mettersi in moto per raggiungere una località a sud per una festa di Natale.
L'archetipo piu' usato del mondo e che l'uomo si perde e finisce in mezzo ai boschi. Non è così normale trovarsi in mezzo ad un agghiacciante scenario in cui mancano donne e mancano i rapporti che hanno ammorbato tutti gli uomini abbruttendoli e rendendoli delle bestie….Marc non sa quello che gli aspetta a metà tra una piccola puttana contesa tra proci e una storia di sopravvivenza e disperazione ottimamente narrati. Iniziamo dagli attori, che è difficilissimo per un film low-budget permettrsi attori credibili che non scadano nel ridicolo come in questo film poteva succedere.Qui gli attori sono stati tutti convincenti.Il protagonista sembra un sosia di sick boy ma a parte i lineamenti da bravo ragazzio riesce subito a mostrare un lato vulnerabile e massacrato nella psiche, dopo essere diventato vittima di tutto quello che gli sta attorno. Poche scene di violenza fisica e molte di queste non mostrate per risparmiare ancora sul budget. Musiche che si sposano bene con la causa del film, costumi tra il decente e tra il tanto non mi aspettavo niente di diverso, per un giudizio finale positivo che riesce a tenerti comunque attento e a seguire gli sviluppi con un bel finale aperto che a molti potrebbe sembrare come un lieto fine....diverse le scene indimenticabili
Presentato in anteprima nazionale alla quarta edizione del Ravenna Nightmare Festival e poi in concorso alla 43ma “Semine international de la critique”,Cannes ‘04

Enfant

Titolo: Enfant
Regia: Dardenne
Anno: 2005
Paese: Belgio
Giudizio: 5/5

Belgio, giorni nostri. La storia di Bruno e Sonia, poco più che vent'enni ma già alle prese con le amarezze che la vita riserva a chi vive di espedienti. L'arrivo del piccolo Jimmy, il loro primo figlio, avrà la forza di guidare il giovane Bruno verso la luce in fondo al tunnel della precarietà?

L'Enfant è da annoverare tra I migliori film della stagione. Francese fino al midollo per opera dei Dardenne fino a questo punto tra i migliori registi francesi sulla piazza.
Il film è un dramma contemporaneo vissuto da una giovane coppia con Sonia che si ritrova ad aspettare un figlio e in una situazione economica disastrosa e con un marito, Bruno, quasi nullafacente che trova a stento I soldi per andare avanti sollevando ancora la problematica del precariato che non risparmia dure critiche contro il sistema politico e l'incertezze totali vissute da Bruno.
Girato in digitale prevalentemente con la macchina a spalla, il film potrebbe definirsi una lamata di quelle che solo I francesi ti sanno rifilare.
Bellissimo, delicato, forte e duro con dialoghi accesi e cinici che riflettono l'impossibilità di accettare sistemi e regole moderne sotto gli occhi di un padre bambino che forse non vorrebbe mai finire di giocare.
Scena memorabile da ricordare e quella in cui si inseguono nel prato giocando proprio come bambini e dimostrando di quanto si possa vivere in coppia fuori da un modello societario e moderno che vorrebbe la chiusura e la ristrettezza mentale delle persone ma non accettata da tutti.
Il tema della famiglia, dell'attesa e della paura di avere e dover far crescere un figlio quando I primi a non avere sicurezze e soldi sono I genitori. L'impossibilità quindi per molti di accettare la realtà a volte spietata che non si può amministrare ma che può regalare delle “sorprese” e un nuovo sguardo di speranza verso il futuro.
Ottimo il cast che vede Jeremie Renier tra I giovani promettenti del cinema francese insieme all'incontrastato Benoit Magimel e Deborah Francois.

domenica 20 marzo 2011

Rabid Grannies

Titolo: Rabid Grannies
Regia: Emanuel Kervyn
Anno: 1988
Paese: Belgio
Giudizio: 4/5

Cult prodotto e distribuito per la Troma dell'89.
Una mandria di parenti si ritrova a festeggiare il compleanno di due vecchie zie piene di soldi che stanno sul cazzo a tutti. Entrambe piene di soldi accolgono una parentela che non si può vedere con tutti gli odi assopiti e i loro segreti.
Naturalmente ognuno di loro nasconde malefatte e tutti puntano solo sull'eredità, ma una scatola misteriosa creerà non pochi problemi al parentato.
Trashata demenziale godibilissima con humor sferzante alla Troma e scene parecchio grottesche. Dalla trasformazione in mostri delle due zie si assiste anche ad un ritmatissimo film splatter per niente gratuito efficace e violento. La forza dissacrante di Rabid Grannies rimane nella scelta di non risparmiare nessuno, bambini compresi e mostrare l’animalità mostruosa delle due zie che maciullano corpi mangiandone arti.
La produzione belga low-budget mostra come sempre sia possibile destreggiarsi con i generis anche con un budget risicato.
La regista è una sconosciuta di nome Emanuel Kervyn.
In conclusione uno dei prodotti migliori della famosa casa di produzione.