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martedì 29 settembre 2015

We are monster

Titolo: We are monster
Regia: Anthony Petrou
Anno: 2014
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Il film racconta la storia di Robert Stewart, un giovane delinquente che è stato messo nella stessa cella come Zahid Mubarek. Sei settimane più tardi Stewart assassina Mubarak.
Stewart è stato un razzista e un noto delinquente violento prima ancora di arrivare nella prigione, e Mubarak era un adolescente asiatico britannico imprigionato per aver rubato poca roba.
Il film descrive i fatti poco prima della morte di Mubarak

Leeshon Alexander si può definire la vera star del film.
Una performance insolita e attenta la sua, meticolosa quanto soprendentemente inquietante.
Forse determinata dalla sua importanza nell'aver preso parte attiva al progetto, oltre al fatto di essere prima di tutto uno scrittore e poi un attore.
Un film dai toni particolarmente teatrali, con poche e significative location, limitate inquadrature e una minimalità nel concentrare tutto in pochi passaggi fondamentali.
E'un film di sguardi, di dialoghi, senza quasi mai mostrare la violenza ma facendola percepire dal suo protagonista e dai suoi agiti aggressivi, il suo deterioramento nella prigione e le sue analisi di come si possa arrivare ad essere dei mostri, un individuo che per certi versi si interroga come il Danny di THE BELIEVER.
Un film di campi e controcampi in cui la schizzofrenia di Robert lo porta spesso a confrontarsi con l'altra metà di se stesso, decisamente più autoritaria e psicotica.
Anche se a tratti monotono e con evidenti lacune legate al ritmo e alla messa in scena, il film di Petrou è comunque abbastanza originale, tratta il tema in modo diverso rispetto a lle tematiche con cui si affronta il genere e pone alcuni quesiti interessanti sulle ragioni che portano un ragazzo a dare sfogo e a cercare di motivare la sua xenofobia.



martedì 28 luglio 2015

Into the Abyss

Titolo: Into the Abyss
Regia: Werner Herzog
Anno: 2011
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Conroe, Texas. Michael Perry è nel braccio della morte. Verrà ucciso tra otto giorni, per il triplice omicidio compiuto dieci anni prima. Il ragazzo che era con lui quella notte, Jason Burkett, sconta invece l'ergastolo. E così suo padre, per altri reati. Werner Herzog esce dalla grotta che ha visto gli esseri umani dei primordi esprimere se stessi attraverso l'arte e fermare la propria esistenza nel racconto ed entra nell’abisso di esistenze altrettanto senza tempo, congelate nella reclusione, dove la comune esperienza del passare dei giorni è alterata, per darcene il racconto altrimenti muto.

"I film non sono una giustificazione per i reati commessi; è inoltre lampante che i crimini di cui si sono macchiate le persone nei miei film sono mostruosi, ma non sono mostri coloro che li hanno commessi. Sono uomini e per questo li tratto con rispetto"
Herzog rimarrà sempre uno dei cineasti più importanti della sua generazione.
Oltre a tutta una nutrita serie di motivi, credo sia l'unico ad aver avuto l'accesso praticamente a tutti i luoghi più inaccessibili, impervi, sconosciuti e interessanti di questo strano e caotico pianeta.
Dopo una filmografia impressionante dal punto di vista storico, narrativo, attoriale e tutto quanto si possa ancora dire, con pochissime eccezioni (soprattutto concernenti gli ultimi anni, il più delle volte eseguite solo per soldi) il genio tedesco si è poi quasi esclusivamente interessato al documentario dando prova di essere un autore completo al 100% in grado di arrivare a portare alcuni contributi di altissimo spessore e livello che quasi nessuno poteva credere.
Ho imparato moltissimo dai suoi documentari, credo che il suo contributo debba trovare un riscontro anche tra le istituzioni scolastiche, diventando un esempio di uomo che si mette sempre in gioco, che và nel profondo, nella parte più viscerale dell'uomo in tutte le sue forme.
Il braccio della morte, come GRIZZLY MAN, CAVE OF FORGOTTEN DREAM, A YEAR IN THE TAIGA, L'IGNOTO SPAZIO PROFONDO, WHITE DIAMOND, KINSKY, è ancora una volta un altro sensazionale e spiazzante viaggio nell'ignoto spazio profondo della fragilità umana.
Quello che impressiona di Herzog è l'amore per la realtà del cinema che spesso e volentieri è molto più impressionante della finzione, rimanendo spiazzati di fronte alle sue reazioni nonchè alle sue inconsapevoli e misteriose visioni di morti folli ed eroiche.
E'un uomo prima di tutto e poi un regista, e lo si vede dal punto di vista con il quale non critica e non sembra mai dare un giudizio, sottolineando l'impossibilità di una sovrapposizione totale e univoca tra crimini e criminali; atroci i primi, umani i secondi, come accade in una toccante intervista al padre di Perry: l'intervista si supera regalando una voglia di redenzione e un'ammissione di colpevolezza davvero toccante e lucida.
Un'analisi in cui non manca nulla dalla alla pena detentiva, al sistema carcerario, ai criminali e ai parenti e al loro dolore senza fine. L'episodio di cronaca che Herzog descrive è una vicenda dolorosissima fatta di interviste e testimonianze, con un documentario diviso in cinque capitoli, più un prologo e l'epilogo.

Potrà sembrare alle volte eterno come l'abisso che il regista sonda, ripetitivo in alcuni meccanismi legati al montaggio, freddo, non godendo di una fotografia ma rimanendo di un'asetticità totale, eppure sono scelte volute che rafforzano il quantitativo e la mole di sofferenza di cui bisogna farsi carico prima della visione.

giovedì 16 luglio 2015

Boston Streets

Titolo: Boston Streets
Regia: Brian Goodman
Anno: 2009
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Brian e Paulie sono due amici cresciuti insieme come fratelli nelle strade dei quartieri più poveri e duri di Boston. Per sopravvivere sono pronti a tutto, e pian piano i vari piccoli crimini si trasformano in roba più seria, fino a portarli a lavorare per la criminalità organizzata, al comando del boss Pat Kelly. Brian inizia a perdersi sempre più, complice anche la droga, e il grande amore per sua moglie e suo figlio non sembrano bastare a redimerlo. Nel frattempo Paulie progetta un colpo grosso che dovrebbe permettere loro di chiudere.

Boston Streets aveva tutte le carte in regola per essere un film di quelli che mescolano insieme dramma, prison-movie e gangster-movie legato ad una storia vera.
Purtroppo la pellicola di Goodman è infarcita di stereotipi, sonda il già visto e il già detto e non sfrutta al massimo il potenziale del cast dando troppa libertà a Hawke e lasciando in ombra Ruffalo. Goodman non riesce ad andare oltre un film didascalico nella forma e negli intenti con troppe sofferte lacune di storia e di idee prive di pathos che non creano empatia col pubblico rendendolo pallido e frustrante con qualche buon momento perlopiù legato al personaggio di Brian e alla sua sofferta condizione famigliare che non riesce a gestire e rovina in un crescendo spasmodico.
Forse non è un caso che Goodman non abbia fatto altro se non un film mai uscito con Nicolas, redivivo, Cage.



lunedì 22 giugno 2015

Blackbird

Titolo: Blackbird
Regia: Jason Buxton
Anno: 2012
Paese: Canada
Giudizio: 4/5

Sean Randall, adolescente problematico, stringe una anomala amicizia con Deanna, una giovane ragazza già fidanzata. Dopo un violento scontro con il ragazzo di Deanna, Sean fa intendere con il suo atteggiamento minaccioso on line di voler fare una strage sul modello di quanto successo alla Columbine. L'intervento della polizia in casa sua rivela la presenza di un arsenale di armi - tutte appartenenti al padre di Sean, accanito cacciatore - e una lista nera contenente una ventina di nomi di persone, tutti in qualche modo legate a Sean. Mentre le autorità e i media proclamano di aver sventato in tempo un massacro senza senso, Sean si ritrova ad affrontare una terribile prigionia in un centro di detenzione giovanile e a dover tentare di dimostrare la propria innocenza.

Blackbird è un atipico film sul sociale, sulla paura della devianza, sull'omologazione, la redenzione e le vessazioni costanti dentro e fuori la società.
Un film inoltre sul potere dei media e sulla suggestione.
Il quarto film di Buxton è solido nella sua descrizione di un microcosmo in cui vive il giovane Sean con diversi problemi alle spalle giocando su una buona psicologia del protagonista (i dialoghi non sono quasi mai forzati o ridondanti) e sfruttando un cast poco conosciuto ma molto funzionale.
Il rischio di una seconda Columbine e la psicosi di gruppo degli adulti in un paesino impeccabile, ingigantito dalla debolezza dei tribunali, sembrano far emergere una critica nei confronti delle istituzioni che rovinano le certezze e il futuro di alcuni giovani, non riuscendo a trovare altre formule se non quelle della pena detentiva nonchè una sopravvivenza forzata.
Blackbird ha il merito in quasi due ore di spaziare dal contesto familiare e scolastico, a quello carcerario e del tribunale ed infine di tornare al paesino freddo di Sean che non ha creduto per un solo minuto della sua innocenza.



Son of a Gun

Titolo: Son of a Gun
Regia: Julius Avery
Anno: 2014
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Arrestato per un reato minore, il diciannovenne JR si scontra rapidamente con la dura vita carceraria e accetta la protezione offertagli da Brendan Lynch, il nemico pubblico numero uno australiano. Poiché la protezione ha un prezzo, una volta tornato a piede libero JR è chiamato a restituire il suo debito, aiutando Lynch a ritrovare la sua libertà con un'audace fuga. Come ricompensa, potrà prendere parte a una serie di rapine milionarie che porteranno JR in rotta di collisione con il suo ex mentore non appena le cose inizieranno ad andare male.

Se è vero che pur partendo da una vicenda a tratti reale come quella del personaggio di Brendan Lynch, l'esordio alla regia di Avery, seppur infarcito di stereotipi e intrecci scontati, ha una sua anima ben delineata coadiuvata da un cast interessante e alcune scelte, come quella nel finale, che se non originali almeno non abbassano il tono generale della pellicola.
Da prison-movie, con tutta l'iniziazione del caso, si passa poi ad un ritmato heist-movie, in una sottotrama, nel secondo atto, in cui il protagonista si invaghisce di una prostituta cercando di sottrarla al suo pappone, in una love-story comunque non così banale come si pensava.
Se non sono i colpi di scena a farla da padrone nel film, è l'atmosfera che cambia di continuo, la recitazione attenta e capace di restituire quella sofferenza che in diversi ambiti attraversa tutti i personaggi legati ad un futuro tanto drammatico quanto doloroso.


lunedì 27 aprile 2015

Sons of Anarchy

Titolo: Sons of Anarchy
Regia: AA,VV
Anno: 2008-2014
Paese: Usa
Stagioni: 7
Giudizio: 4/5

Le peripezie di una banda di motociclisti del profondo sud americano alle prese con traffico di armi e faide tra bande.
In una cittadina dell’America rurale del New Mexico, Charming, una banda di motociclisti dediti al traffico d’armi, fa base ormai da due decenni. Lo sceriffo del luogo, Unser, è connivente con il leader del gruppo, Clay, convinto che questo sia un piccolo prezzo da pagare per avere un’oasi felice in cui i cittadini di Charming possano vivere senza problemi.
Ma il cambiamento, o il progresso, è in agguato.
I vecchi accordi sembrano lentamente sgretolarsi sotto la pressione di nuovi interessi. Il vice sceriffo Hale non è disposto a seguire i vecchi accordi e all’interno dei Samcro, il figliastro di Clay, Jax, nuovo leder designato, non è convinto che la strada intrapresa dal club sia quella segnata a suo tempo dal padre, fondatore del gruppo morto in circostanze misteriose.
Gemma la madre di Jax ha fatto di tutto, compreso risposarsi con Clay, per far si che Jax diventasse l’uomo freddo e spietato che lei vorrebbe a capo del gruppo, ma il ritorno in città della vecchia fiamma di Jax, Tara, che aveva deciso di abbandonare questo tipo di vita rischia di mettere a repentaglio il suo “lavoro”.
Come se non bastasse da un lato l’FBI, guidata dall’agente speciale Stahl, è sulle tracce dei Sons con la speranza di arrestare i leader dell’IRA che forniscono le armi spacciate dai motociclisti.
Dall’altro un’organizzazione di ariani ha deciso di mettere le mani sulla città per usarla come base per spacciare droga.
La guerra per i Sons è aperta su molti fronti, compreso quello interno dove Clay e Jax hanno in mente strade opposte per il club.

Samcro: Sons of Anarchy Motorcycle Club Redwood Original.
Dal 2008 al 2014 c'è stata questa serie strutturata in sette stagioni che mi conquistò, stranamente, visto che non amo troppo le serie tv.
I motivi che mi colpirono furono molti. Il fatto che sia sempre stata snobbata dall'Academy perchè pensavano che fosse ingenua e forse tendenzialmente reazionaria, oltre essere sempre stata digiuna di qualsiasi riconoscimento o premio.
Sons of Anarchy mi ha lasciato spesso con il fiato sospeso, ha smosso in me diversi sentimenti, ha saputo portare a casa alcuni colpi di scena importanti e più di tutto ha lavorato e ha saputo mantenere una coerenza dall'inizio alla fine.
Un universo di personaggi indimenticabili che ancora adesso mi riporta a pensare ad alcuni di loro, alla crescita, l'evoluzione e la magnifica caratterizzazione.
Due note sul cast. Dal poco conosciuto Hunnam, carismatico e caucasico per eccellenza (una sorta di Brad Pitt) che in passato si era fatto notare per alcuni film (HOOLIGANS, RITORNO A COLD MOUNTAIN,CHILDREN OF MEN) e i validissimi attori di secondo piano visti milioni di volte anche sul grande schermo come Ron Perlman, Tommy Flanagan, Mark Booner Jr. e Kim Coates, giusto per citarne alcuni, oltre all’incredibile Katey Segal (peraltro vincitrice di un Golden Globe proprio per questo ruolo), già moglie di Sutter.
Non mi piace commentare stagione per stagione, oppure episodio per episodio (come fanno molti blogger) preferisco lasciare che la nostalgia e le impressioni facciano la loro parte scrivendo queste poche righe per trasmettere l'importanza e la forza di questa incredibile serie targata Fx (FARGO, AMERICAN HORROR STORY, SHIELD, STRAIN, AMERICANS, WILFRED).
Sons of Anarchy è un viaggio on the road capace per ben sette stagioni di lasciare con il fiato sospeso. E saranno le moto (rigorosamente Harley Davidson), sarà l’incredibile realismo, ma l’appeal di questo prodotto è piuttosto trasversale.
La tragedia narrata da Kurt Sutter ha preso spunto dalle vicende di una banda di motociclisti delinquenti e farla diventare materiale da epica moderna, con una sua mitologia e simbolismi propri, raggiungendo un traguardo insperato non era affatto un compito semplice. Non è un caso che proprio Sutter si sia staccato e abbia intrapreso questa strada, nato e cresciuto nell’America del New Jersey, quella sorta di landa ai limiti della metropoli più grande del mondo, che racchiude una criminalità organizzata dall’alba dei tempi. Facile quindi creare quelle trame complesse e soprattutto che coinvolgono aspetti anche innovativi (come un'intera stagione sull'IRA).
Costellato di imperfezioni, sentimentalismi a volte forzati, la serie ha comunque saputo essere sempre intensa ed emozionante trovando nel sangue, nell'essere brutale, violenta e a volte insensata, colpendo però con spietatezza in numerose occasioni.
Con le dovute citazioni e prese in prestito, Sutter partendo da un giovinotto come Jax, ha saputo trasformare la sua storia in un viaggio dell'eroe, in un percorso di formazione e redenzione straordinario, citando sotto le righe AMLETO e portando ad alcune riflessioni che non sembrano fare parte dell'universo delle gang criminali e dei motociclisti puntando invece su un discutibile codice d'onore che in America e tra le gang ha un enorme significato

Sons è proprio la storia di uno dei figli di quella cultura in perenne conflitto tra quello che è, quello che vorrebbe diventare e quello che gli altri si aspettano che diventi.  

martedì 10 febbraio 2015

Dog Pound

Titolo: Dog Pound
Regia: Kim Chapiron
Anno: 2010
Paese: Francia
Giudizio: 2/5

Davis, 16 anni, traffico di stupefacenti. Angel, 15 anni, furto d'auto con scasso. Butch, 17 anni, aggressione a pubblico ufficiale. Una stessa sentenza : la prigione minorile di Enola Vale. Giunti nel centro di detenzione dovranno scegliere da che parte stare: vittime o carnefici?

Con una brevissima descrizione dei personaggi, Chapiron ci porta subito all’interno del canile ovvero una sorta di riformatorio canadese dove ognuno deve cercare di salvare la propria pellaccia ma alla fine dovrà vedersela con il male maggiore rappresentato dalle istituzioni e dalla direzione generale.
Un film senza infamia ne gloria, una film piacevole e nemmeno troppo violento, al contempo non si po’ parlare di un film riuscito perché sono troppe le ingenuità e gli stereotipi adottati e sfruttati al regista che aveva fatto molto meglio con l’inquietante SHEITAN tutto addossato sulle spalle del buon Cassel.
Sui prison-movie sono altri i titoli da ricordare e lasciano basiti le parole del regista quando spiega le ragioni per cui interessarsi di una tale vicenda e che per tentare di portare ancora più pathos e drammaticità, crea un finale d’effetto davvero triste e inflazionato.

"Dog Pound vuole lanciare un messaggio: rinchiudere i giovani in carcere non è la soluzione giusta. Questo film è uno specchio che porgo per mostrare quanto questo processo sia sbagliato. Mischiare quelli che possono ancora salvarsi con persone che hanno conosciuto una realtà spaventosa è una negazione della civiltà". Grazie Chapiron per averci illuminato con la tua saggezza…

martedì 2 dicembre 2014

Starred Up

Titolo: Starred Up
Regia: David Mackenzie
Anno: 2013
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

Eric è un diciottenne recluso in una casa di correzione, dovendo scontare una pena comminata in seguito ad alcuni episodi di piccola delinquenza. Anche dietro le sbarre non riesce a controllare il suo carattere violento e indisciplinato Quindi viene sottoposto a varie punizioni e, infine, a una misura raramente applicata in Gran Bretagna: il trasferimento in un carcere per adulti. Succede che venga internato nello stesso stabilimento penale dove è rinchiuso anche suo padre. In breve la relazione tra figlio e genitore, che anche in passato era stata difficile, diventa ancora più complicata. Finché un giorno un terapista comportamentale, che svolge servizio volontario nella prigione, prende contatto con Eric. Il giovane, pur inizialmente restio, poco a poco si inserisce in un gruppo di discussione con altri detenuti. E quindi accetta di condurre una revisione critica della propria vita e delle proprie azioni.

Il duo Mackenzie O'Connell funziona egregiamente in questa sofferta analisi di un multiproblematico rapporto padre-figlio tra i muri della prigione.
Infatti ritrovarsi tra le stesse mura per i due innesca in entrambi, il giovane ribelle ed incontenibile, il padre più calmo ma non meno letale, sentimenti antitetici che spaziano dal desiderio di ristabilire le basi minime per una ricostituzione di un dialogo, alla rivendicazione di vecchi torti subiti o rimorsi per comportamenti od omissioni giudicati imperdonabili come gli abusi nel caso di Eric.
Senza concedere inutili scene sentimentali, qualcuna c'è ma doverosa è mai gratuita, il regista ci mostra subito questo ragazzo e la sua visione del mondo senza stare a soffermarsi su flashback o dialoghi ridondanti ma arrivando invece subito al cuore caldo della vicenda.
Diciamo che il mio giudizio prende tanto in esame il finale del film, purtroppo la parte più telefonata e meno interessante della storia, ma che alla fine mostra senza abbassare i toni, una redenzione che passa attraverso la paura e la forza come strumenti e veicoli su cui misurare la propria identità in un ambiente sociale sempre più terribile e pericoloso.
In alcune scene mi sembrava di rivedere BRONSON come in altre IN THE NAME OF THE FATHER per l'aria che tira in prigione e per la maniera tutt'altro che commerciale o paternalistica con cui Mackenzie da tono e spessore alla vicenda.
Il contributo maggiore del film comunque è legato all'ottima sceneggiatura ad opera del debuttante Jonathan Asser che si è ispirato alla propria personale esperienza di educatore a contatto con i criminali che scontano pene presso il carcere britannico di Wandsworth. La scrittura appare autentica e credibile nel descrivere, senza ipocrisie e moralismi, la particolare condizione psicologica e i comportamenti dei reclusi. Infatti non sorprende che una delle parti più interessanti del film sia proprio il rapporto tra l'educatore ed Eric.

lunedì 25 febbraio 2013

Oltre la legge

Titolo: Oltre la legge
Regia: Ash Adams
Anno: 2010
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Chance Ryan ha passato gli ultimi cinque anni in prigione e ora vuole rifarsi una vita, ma non è facile. E' sommerso dai debiti e ricattato da un poliziotto corrotto. Come se non bastasse il rapporto con il padre non è dei migliori dato che si tratta del capo di una gang proprio all'interno della prigione dove Chance era rinchiuso. Una volta caduto, riuscirà a rialzarsi?

Oltre la legge è un prison-movie che pur non aggiungendo nessuna novità al genere riesce comunque a mantenere un buon ritmo nonostante alcune evidenti scene in cui l’azione fatica a decollare.
Merito della parziale riuscita del film è sicuramente la presenza di Ed Harris in un insolito ruolo di boss della razza ariana costretto a vivere e dare ordini dal microcosmo carcerario.
Brian Presley, il protagonista, è quel classico tamarro pompato che non disdegna una vita legata agli eccessi e agli incontri clandestini.
Il plot fondamentalmente ruota attorno a questa vicenda inserendo però la carta del bambino piccolo costretto a seguire Chance (un nome una garanzia…)nel suo viaggio di redenzione (contando che non è nemmeno suo figlio ma gli è stato sbolognato malamente dalla ex).
Un film grezzo e con un linguaggio alle volte molto volgare eppure riesce nel suo fatidico compito di intrattenere regalando anche alcuni buoni momenti senza fare l’errore di prendersi troppo sul serio.
Inoltre il fatto che la redenzione passi attraverso il rapporto che Chance e il fratello tossico hanno con il padre non è male e regala una prospettiva e una dinamica diversa nel genere.
Tutti elementi che fanno da bilanciere rispetto alla debole terza regia di Ash, che non apporta nessun cambiamento con scene piatte e un montaggio non sempre soddisfacente.

Lock Down

Titolo: Lock Down
Regia: Daniel Zirilli
Anno: 2010
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Avery aveva tutto: una splendida compagna, un bambino e una borsa di studio appena assegnata. Ma nel giro di pochi secondi la sua vita cambia drasticamente e quella che era iniziata come un'al legra serata tra amici si conclude nel dramma. Una ragazza muore, un poliziotto viene ferito e Arvey finisce dietro le sbarre. Nell'attesa di essere scagionato, per sopravvivere in un posto dove poco importa della sua innocenza, è costretto a sottomettersi alle dure regole "del gioco"

Avete presente quei film di arti marziali (in questo caso MMA) di serie b usciti direttamente per il mercato direct to video e in cui nella copertina anziché il protagonista(sconosciuto)compare Vinnie Jones e Bai Ling. Beh questi sono catalizzatori di quello che ci si ritrova a guardare senza lode e senza infamia. Semplicemente un film costruito ad hoc come tanti per regalare ottimi combattimenti(vabbè sul protagonista e dove abbia imparato così bene a lottare rimangono dubbi e doverose perplessità)+una scena in cui Vinnie si sta per scopare la Ling.
Ultimamente i film “pugni in gabbia” stanno letteralmente esplodendo facendo intuire come agli appassionati interessino solo i combattimenti a dispetto di una storia spesso più che mai abbozzata. Non manca il finale con un bel cage fight e qualche piccolissimo spunto interessante. Certo per essere quasi un copia/incolla di UNDISPUTED 2 sembra più una parodia.

venerdì 11 gennaio 2013

Felon

Titolo: Felon
Regia: Ric Roman Waugh
Anno: 2008
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Un amorevole padre di famiglia, con un futuro promettente, perde tutto quando uccide accidentalmente il ladro che ha fatto irruzione in casa sua. Condannato per omicidio involontario, dovrà trascorrere tre anni all'interno di una struttura di massima sicurezza dove le regole della società non si applicano più

"Quando la tua vita è determinata da una sola azione cambia la concezione che hai del tempo"
I prison-movie sono sottogeneri interessanti. Ultimamente ne sono usciti alcuni che valgono di essere visionati come l’indipendente Felon forse mai uscito nel nostro paese. Ed è un peccato perché se anche in alcune parti il film non aggiunge nulla a tutto quello che si è già visto, c’è qualcosa di tremendamente autentico nel viaggio negli inferi del protagonista, un Dorf in ottima forma.
La storia per l’appunto non essendo così originale riesce a intrattenere con un crescendo di azione, dramma e violenza tutti dosati con buone capacità e alcuni momenti addirittura toccanti in cui il dato più importante è proprio quello di riuscire a identificarsi subito con il protagonista.
La cosa poi strana e quasi anomala è che Val Kilmer contando che negli ultimi anni sta girando più film di Nicolas Cage recita pure bene ritagliandosi un personaggio che si fa apprezzare, una sorta di guru carcerario con un proprio sistema di regole che non accetta compromessi all’interno delle bande della prigione.

mercoledì 20 giugno 2012

Viaggio in Paradiso


Titolo: Viaggio in Paradiso
Regia: Adrian Grunberg
Anno:  2012
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Driver sta cercando di passare il confine messicano a bordo di un'auto piena di soldi sporchi quando viene arrestato dalla polizia. Sa bene che per lui si aprono le porte di un carcere da incubo dove imparerà a sopravvivere anche grazie all'inaspettato aiuto di un bambino di nove anni che nasconde un terrificante segreto...

Abbagli.
Sì perché l’opera prima di Grunberg con protagonista quello che resta di Gibson, ha un inizio che sembrava valere la pena. Denuncia le condizioni di vita carceraria e mostra un microcosmo abitativo all’interno di El Pueblito in cui vince la legge del più forte ma soprattutto del più furbo.
La storia funziona anche quando Drive trova il bambino ma poi dopo un po’ sembra di vedere MAN ON FIRE con Gibson che prende le granate al volo e le rilancia contro i nemici (assurdità oltre ogni limite) per poi passare a far vedere come il solito gringo appare più scaltro e più furbo di tutta la prigione messicana, dovendo salvare madre e figlio ingiustamente prede di carnefici spietati e riuscendo a tramare piani e portare a termine una lotta contro la corruzione che farebbe scoppiare in un mare di risate qualsiasi cartello della droga messicana.
Forse per William Wallace tutto ciò è possibile, ma nella sceneggiatura, in cui ritroviamo lo stesso Gibson in veste anche di produttore etc (chissà come mai), a fare i conti con quello che sembra in buona parte un film reazionario, la frittata non funziona e ancora una volta fa pensare sull’ideologia che muove alcuni tipi di pellicola.
La cosa che lascia davvero perplessi comunque a parte la velata ideologia di fondo, è il fatto che mentre si poteva ampliare un discorso sociale davvero interessante e di denuncia sulla realtà del Pueblito, riprodotto fedelmente e con un ottima catarsi degli attori e una scenografia da b-movie, tutto è rigorosamente confezionato su Gibson che deve cercare dopo tutti gli scandali di cercare una nuova redenzione.
Ma il cinema non è la vita reale…e questo speriamo che lo sappiano anche Gibson e Grunberg

giovedì 14 aprile 2011

Prison

Titolo: Prison
Regia: John Frankenheimer
Anno: 1994
Paese: Usa
Giudizio: 4/5

Una prigione dura, ad altissimo tasso di violenza dove i detenuti vengono stipati, ingabbiati come bestie e ridotti a vivere in uno stato di miseria e di abbandono. La rabbia e la repressione con il passare del tempo si trasformano in odio e violenza. Ora i detenuti sono pronti a far valere le proprie leggi e fanno esplodere una sommossa brutale, sanguinaria che travolge chiunque si trovi sulla loro strada...

Un bel dramma ispirato da una storia vera, ovvero le cronache della rivolta scoppiata nel supercarcere di Attica nel settembre del 1971,e di cui solo pochi anni fa si sono conclusi processi per stabilire resposabilita'e risarcimenti.
L'ambiente del carcere è stato spesso sfruttato nel cinema e capita in esempi recenti CELLA 211 che ne esca fuori un quadro esaustivo e una critica sui diritti dei prigionieri e delle condizioni di vita all'interno.
Sperando che rimangano sempre e il più possibile distanti dai cerchi infernali danteschi come i C.p.t di cui si preferisce non parlare mai, il film di Frankenheimer fa riflettere molto sui diritti e i doveri dei prigionieri e delle guardie.
Responsabilità ancorate chissadove sfociano in una rabbia quasi primordiale. Emerge tutta la rabbia di uomini abbandonati a loro stessi e costretti per forza di cose non avendo uno stato che scommette su di loro a imbrigliarsi in piccoli gruppi di appartenenza(quasi sempre legato al colore della pelle).
Cosa può dunque fare il beniamino di David Lynch che non sa da che parte stare come Juan che anche se vive da subito la catarsi, solo che lui se all'inizio si fa prendere la mano poi scopre quell'universo che forse non è così distante dal loro.
Il film si avvale di una sempre ottima e sobria regia, un cast nutrito e ben contaminato e alcune scene davvero impressionanti contando che il livello della violenza non si risparmia mai.
Vedere poi guardie e ladri sguazzare tutti nello stesso fango èuna scena che la dice lunga.

giovedì 7 aprile 2011

Stoic

Titolo: Stoic
Regia: Uwe Boll
Anno: 2009
Paese: Canada/Germania
Giudizio: 3/5

Stoic è uno dei tre progetti non tratti da un videogame del regista Uwe Boll. La storia segue tre prigionieri giocare a una partita di poker, ma il perdente sarà costretto a mangiare il proprio vomito in un rituale che si evolve in uno stupro, seguito da un omicidio/suicidio. Sembra che la storia sia tratta da un fatto realmente accaduto.

Stoic non è un film per tutti e Uwe Boll viene ancora considerato come uno dei registi peggiori del mondo.
Nel senso che mette a dura prova i nervi dello spettatore il quale è costretto a subire il calvario della vittima all'interno di una piccolissima cella inscenando un dramma sociale strutturato per certi versi in modo molto originale.
Quattro personaggi, una location e un dietro le quinte dove assistiamo al racconto dei fatti e con dei flash-back delle dinamiche che hanno portato alla morte del prigioniero.
Fin dove può spingersi un branco? Perchè quasi sempre all'interno di questa dinamica vengono fuori gli astanti e i gregari che con il loro contributo enfatizzano e aumentano il principio di violenza che come una spirale cresce per poi diventare facilmente ingestibile.
Quando poi si supera una certa soglia è impossibile tornare indietro e allora bisogna esagerare con tutta la fantasia malata e le perversioni inconscie.
Uwe Boll è un regista particolare, ha girato parecchi film di cui alcuni(FAR CRY,THE HOUSE OF THE DEAD,ALONE IN THE DARK) sono davvero delle cagate incredibili. Possiamo dire che i suoi film sono tutti delle merde a parte forse POSTAL che tira fuori delle scene interessanti e un attore feticcio che riesce finalmente ad avere la parte del protagonista.
Stoic sembra essere tratto da una storia vera...beh non mi stupirebbe.
Il cast riprende il tormentato Edward Furlong, ingrassato e visibilmente marcio che oramai troviamo solo più in piccole produzioni indipendenti e altri due giovani attori molto convincenti.
Infatti una delle caratteristiche postive per dare vita a questo universo crudele è proprio l'ottimo gioco-forza dato dai quattro attori che sembrano conoscersi da una vita e sorpendono nella realisticità delle scene di violenza e di sevizia.
Un altro fattore interessante è proprio quello legato alla cella e al fatto che i prigionieri che scontano poi pene per reati tutto sommato abbastanza comuni sembrano essere lasciati ad un loro destino in cui le guardie non si vedono quasi mai e non sembrano interessarsi delle dinamiche che si sviluppano all'interno della cella.
Questo, per quanto sia violento e macabro, è il miglior film di Boll.
Se da un lato Stoic non va preso così alla leggera e richiama tutte una serie di problematiche legate alla sopravvivenza in prigione e il rapporto vittima-carnefici/e, dall'altro risulta davvero insopportabile a tratti. Esagera e la cosa che rischia di far sboccare più di una persona e il fatto che ti aspetti quello che sta per succedere ma sapendo che non ci sono vie di salvezza rimani impassibile ad osservare impotente come l'astante di turno che non sa prendere una decisione è costretto ad accettare volontariamente quel magma di soprusi e angherie.
La particolarità di Stoic è proprio quello di come analizza ed enfatizza la violenza.
Diventa qualcosa che ad un certo punto, essendo vissuto e messo in atto in uno spazio ristretto, risulta essere claustrofobico e di una crudeltà rara tale per cui verranno messi ribadisco a dura prova i vostri sottili nervi.
Il regista poi ha la fama di fare un sacco di film ispirati o tratti da videogiochi quando non si perde su storie trash sconcertanti come IN THE NAME OF THE KING cagata insopportabile che cerca di imitare IL SIGNORE DEGLI ANELLI ma basta vedere il protagonista Jason Stahman ed è già tutto detto.

domenica 20 marzo 2011

Die a violent death

Titolo: Die a violent death
Regia: AA,VV
Anno: 2010
Paese: Thailandia
Giudizio: 2/5

Horror diviso in quattro storie: Flame(storia accaduta davvero nel 2008-2009 a Bangkok,dove in una discoteca persero la vita 66 persone in un incendio) 2° storia : Imprison(ambientata in una prigione) 3° storia : Revenge(storia su un'overdose di metanfetamina) e 4° storia : Haunted Motel (storia di una stanza stregata e una prostituta)

I film thailandesi degli ultimi anni hanno saputo regalarci qualcosa di niente male come COMING SOON,6:66-DEATH HAPPENS,ALONE,BUPPHA RAHTREE e NECROMANCER hanno tutti espresso, chi piùchi meno, il loro contributo in materia andando a spodestare bambine&maledizioni, donne&revenge e la magia nera.
In questi quattro episodi, meccanismo oramai consolidato e ben presente soprattutto nella filmografia giapponese, possono essere ben espresse alcuni dei temi che interessano e influenzano il cinema thailandese.
Tutti gli episodi hanno qualcosa di buono anche se probailemente il fatto che dei quattro registi, tre siano all'esordio non riesce sempre a portare a casa la tensione sperata o come appare in alcuni episodi una storia confusa e una recitazione che di certo non aiuta.
Se REVENGE appare tra le più anomale e deboli come idea dalla sua ha una buona recitazione, FLAME sa trasportare il pubblico su un incidente davvero straziante ma a livello qualitativo e di recitazione fa venire i brividi dalla tristezza così IMPRISON mentre invece HAUNTED HOTEL riesce dove gli altri puntano troppo costruendo una storia nera quasi grottesca che almeno sa anche divertire.

venerdì 18 marzo 2011

Mean Machine

Titolo: Mean Machine
Regia: Barry Skolnick
Anno: 2001
Paese: Gran Bretagna/Usa
Giudizio: 3/5

Danny Meehan è il capitano della nazionale di calcio inglese. Con l'accusa di aver truccato il risultato della partita Inghilterra - Germania, Danny viene cacciato dalla squadra. Ma i suoi guai continuano quando viene condannato a tre anni di carcere perchè accusato di aver aggredito un poliziotto mentre era ubriaco. Il direttore del penitenziario fa carte false affinchè l'allenatore venga assegnato alla sua prigione perchè vorrebbe affidare l'allenamento della squadra di calcio semiprofessionale composta dalle guardie carcerarie proprio a lui.

Tradire la propria squadra e il proprio paese per denaro è il messaggio principale di questo film in un panorama attuale di dopping all'avanguardia e di interessi spietati che non includono la professionalità sportiva.
Skolnick deve amare molto i film di Guy Ritche dal momento che questo film fa parte di quel filone dell'action-movie in salsa british. Vinnie Jones che poi si scopre aver avuto un passato da giocatore è il pretesto per intavolare una messa in scena che ricorda non poco le gesta di Eric Cantonà e così il film diventa un'insieme di comicità e violenza.
Poi sembra che sia un remake di QUELLA SPORCA ULTIMA META' anche se ha dispetto del bel film di Aldrich questo ripiega molto sulla contaminazione pulp cercando di risultare come un ibrido di mescolanze,luoghi comuni e dialoghi scritti da un evaso.
Tamarro ma divertente MM ha la fortuna, almeno quella, di non prendersi troppo sul serio e poi vedere Stathman in un ruolo da pazzo furioso come quello del "monaco" rimarrà nella memoria, così come ci si chiede come mai Fleming sia quasi solo un figurante.

giovedì 17 marzo 2011

Cella 211

Titolo: Cella 211
Regia: Daniel Monzon
Anno: 2009
Paese: Spagna
Giudizio: 4/5

Juan Oliver si presenta con un giorno d'anticipo sul primo turno di guardia. Durante la visita al braccio di massima sicurezza, un frammento di intonaco cade dal soffitto e lo colpisce sulla testa. In attesa di poterlo soccorrere, gli altri guardiani lo distendono temporaneamente nell'unica cella libera, la numero 211. In quello stesso istante, ha però inizio una rivolta organizzata dal carismatico detenuto Malamadre, che costringe il giovane guardiano inesperto a improvvisarsi credibile galeotto

Cosa può fare un "normale" in mezzo ai delinquenti quando questi non sanno che lui lavora per gli antagonisti. Monzon è quindi libero di giocare sul concetto di normalità, sul fatto di sentirsi abbandonati da una giustizia che dovrebbe proteggere i suoi collaboratori e non sfruttarli come spie per trarne vantaggio e così Juan nel suo viaggio alla scoperta di se stesso prenderà una decisione fatidica che è il punto più alto del film.
Senza risparmiare nulla sia in termini di violenza che di ingiustizia (la scena del poliziotto che manganella volontariamente la moglie di Juan assolutamente inerme e incinta farà pensare a un certo tipo di sistema che non funziona a dovere e ad alcuni recenti episodi a cui assistiamo oramai da parecchi anni) Monzon (KOVAK BOX-CONTROLLO MENTALE) tira fuori tutto dalla critica alle condizioni carcerarie alle questioni diplomatiche con il governo basco e la gestione dei terroristi dell'ETA prigionieri anch'essi ma considerati intoccabili e il ruolo fondamentale dei media sull'opinione pubblica con la figura di un anomalo negoziatore.
Il film vincitore tra l'altro di otto premi goya, ha solo alcune note a sfavore come il bisogno pressante di aumentare il tono drammatico sminuendo la storia in alcune parti e rendendo alcune situazioni poco credibili.
A differenza dell'altro europeo IL PROFETA la sceneggiatura di Cella 211 punta più sull'azione e sul ritmo dinamicissimo che trova anche un valido leader in Luis Tosar nel ruolo di Malamadre e non si interroga e non punta su un concetto di formazione che invece Malik El Djebena deve affrontare cosa che invece Juan non può perchè si trova subito nell'inferno della degenerazione della presa della prigione.

Experiment

Titolo: Experiment
Regia: Paul Scheuring
Anno: 2010
Paese: Usa

26 uomini vengono scelti per partecipare nei ruoli di guardie e prigionieri ad un esperimento. Gli individui vengono tenuti rinchiusi e osservati per registrare le loro mutazioni comportamentali in seguito alla prolungata prigionia.

Das Experiment era un bel film ma aveva un difetto cioè quello di non essere americano.
Quindi fatti passare un po di anni torna alla ribalta in salsa yankee con tanto di attori in primo piano come Brody e Wintaker. Il problema e che non ha nessun senso dal momento che il film tedesco di Oliver Hirschbiegel era pienamente riuscito.
Il punto che è rimasto in comune è solo il soggetto di Mario Giordano ma se il primo aveva un'originalità di base non da poco e soprattutto sviluppando un esperimento che è stato citato anche da Browning in Uomini comuni riguardo il tema del nazismo, questo parte bene ma nel finale cambia completamente lo stato delle cose e l'esito dell'esperimento dando dunque una connotazione diversa all'esperimento e all'importanza di esso.
Scheuring arriva poi da una serie americana come PRISON BREAK quindi quello che ci si può aspettare e presto detto.
"L'unico" difetto di questo film è che non andava fatto ma come sempre la necessità per business di girare remake come canzoni a manovella lascia basiti anche se in questo caso il successo commerciale non è stato quello che avevano previsto.
Speriamo solo che Zinbardo non lo veda.