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sabato 14 febbraio 2015

A soap

Titolo: A soap
Regia: Pernille Fischer Christensen
Anno: 2006
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Charlotte, 34 anni, è proprietaria di una clinica di bellezza. Un giorno decide di abbandonare il proprio compagno Kristian e di andare a vivere in un appartamento che conserverà l'aspetto della provvisorietà. Al piano di sotto abita un giovane transessuale che la donna conoscerà comprendendone i problemi.

A soap  è l’esordio alla regia della danese Christensen. Un film che inizia bene con una narrazione extradiegetica per nulla noiosa o fuori luogo che riassume gli eventi come se stesse introducendo un nuovo episodio di una soap opera (come da titolo del film) e che insieme alle note di musica classica ci fa presto scoprire i due personaggi su cui si dipanerà la storia.
E’un film molto classico che narra due vite parallele tra dolori, scelte da cui non si potrà tornare indietro e minestre scaldate che non riescono a convincere mai fino in fondo. 
Senza retorica e girato in pochi interni, il film è un concentrato di dialoghi che non risparmia niente di tutti i temi e le problematiche dei giorni nostri sui legami di coppia, ma anche sulla paura di amare il proprio corpo e di non sentirsi più desiderati. L’avvicinamento tra la forza di facciata di Charlotte, Trine Dyrholm bellissima e bravissima, e la fragilità apparente di Veronica, non lasciano spazio a retoriche, ma si studiano, si toccano e infine cercano di trovare una loro “equilibrata” armonia.
L’unico problema su cui il film inciampa in alcuni punti, è proprio quello di continuare a insistere sui dialoghi e infatti alcune sequenze appaiono di minor gusto, come gli incontri di Charlotte con Kristian, che hanno quel sapore di ripetitivo e monotono. 
E’un film che gioca continuamente tra gli eccessi di Charlotte e la delicatezza di Veronica. 

martedì 10 febbraio 2015

Salvation

Titolo: Salvation
Regia: Kristian Levring
Anno: 2014
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Intorno al 1870, in America, il colono John uccide l'assassino della sua famiglia, scatenando la furia del famigerato capobanda Delarue. Tradito dalla comunità corrotta e vile in cui vive, John è costretto a trasformarsi in un vendicativo cacciatore, uccidere da solo i fuorilegge e purificare il cuore nero della sua città.

The Salvation è un film girato molto bene, con una seria fattura e tutti gli elementi di genere che potevano conquistare anche sul piano della scrittura, che purtroppo, risulta l’elemento discordante del film e soprattutto intriso di stereotipi.
Con un cast eterogeneo e un Mikkelsen che è perfetto anche quando è immobile, Levrig e Anders Thomas Jensen, sceneggiatore di molti tra i film danesi più conosciuti all'estero, sembrano proprio essersi divertiti a scrivere questo western che nulla toglie e nulla aggiunge al genere, ma anzi cercando di essere il più suggestivi ed essenziali possibili in tutta la struttura, nell’incidente scatenante (la tragedia che crea il dramma, sembra quasi uscito da un romanzo di Lansdale), l’autenticità delle location e alcuni caratteri archetipici che non passano mai di moda.

Un film piacevole che seppur  prevedibile, mantiene sempre un certo ritmo che non fa mai perdere elementi per strada e non annoia nemmeno per un istante.

giovedì 4 dicembre 2014

En Change Til

Titolo: En Change Til
Regia: Susanne Bier
Anno: 2014
Paese: Danimarca
Festival: TFF 32°
Giudizio: 3/5

Andreas è un poliziotto e un padre modello del piccolo Alexander, Tristan un poco di buono tossico che picchia la compagna e trascura il proprio bebè Sofus. Durante un'ispezione a casa di Tristan, Andreas scopre le condizioni in cui versa il bambino e cerca di togliere a Tristan la paternità. Sarà una tragica fatalità il motore scatenante di azioni in cui le barriere etiche di Andreas, Tristan e dei personaggi che li circondano finiranno per essere pericolosamente violate.

La tragica fatalità che diventa l'incidente scatenante e il fulcro della storia è un bella matassa intricata, destinata a far riflettere continuamente lo spettatore sulle scelte etiche e soprattutto morali dei suoi protagonisti.
Un film complesso, robusto, violento, scioccante ma necessario soprattutto per la grazia e l'attenzione con cui la Bier cura le caratterizzazioni dei suoi personaggi.
Traumi e fragilità si rincorrono continuamente in questo melodramma famigliare con risvolti macabri e originali, dal punto di vista emotivo, e con un colpo di scena finale di indubbio spessore.
Dopo la non felice parentesi americana di UNA FOLLE PASSIONE del non proprio riuscito NOI DUE SCONOSCIUTI (le parentesi americane spesso fanno male e lasciano cicatrici), Susanne Bier torna alla danesità a tutti gli effetti, per ambientazioni, attori e soprattutto tematiche, visto che si muove lungo il crinale del moralmente accettabile come insegnano Von Trier e Vinterberg e a uno dei suoi trucidissimi e turgidi melodrammi pulp, con la connotazione in più di pretese sociali e frecciatine a tutto ciò che può avere a che fare con la perdita di un bambino e i rischi che si corrono.
L'unico vero problema di EN CHANGE TIL è che dopo un primo atto davvero serrato e perfetto che termina con lo "scambio", tutto poi sembra abbassare di tono e ripuntare sul climax finale.
In più una grave mancanza della sceneggiatura è quella della spiegazione medica astrusa circa l'incidente del figlio che dovrebbe coincidere con un importantissimo colpo di scena ma che si palesa per la difficoltà su come incastrare la vicenda.

mercoledì 19 novembre 2014

Look of Silence

Titolo: Look of Silence
Regia: Joshua Oppenheimer
Anno: 2014
Paese: Danimarca/Finlandia/Indonesia/Norvegia/Gran Bretagna
Giudizio: 4/5

The Look of Silence, seguito del documentario drammatico The Act of Killing, analizza ancora il tema del genocidio in Indonesia, le purghe anticomuniste del 1965, affrontandolo da un'altra prospettiva. The Look of Silence offre una visione della tragedia da parte delle vittime, in particolare segue la storia di un uomo sopravvissuto, il cui fratello è stato torturato fino alla morte durante la rivoluzione da un gruppo di ribelli; storia già raccontata dal punto di vista degli assassini nel documentario del regista The Act of Killing. In The Look of Silence si osserva la famiglia dell'uomo ucciso, in particolare il fratello minore, che decide di incontrare gli uomini che hanno massacrato uno di loro.

Il regista texano ritorna nuovamente in quei luoghi quasi sconosciuti da una grande fetta di popolazione mondiale per continuare un discorso aperto, in Indonesia, che lo aveva reso noto al pubblico e soprattutto ai festival e a qualche leader militare che magari non se lo aspettava o non ne è rimasto così contento. In questo caso la telecamera, l'intervista e la settima arte, diventano sacro santi nella loro potenza divulgatrice.
THE ACT OF KILLING era sorprendente per molti punti, originalità, orrore e incredulità per i fatti accaduti e infine un nuovo modo di strutturare il documentario e di trovare degli elementi da usare a proprio favore come le testimonianze esaltate dei carnefici.
The Look of silence, titolo molto significativo, non esamina più il rapporto tra senso di colpa represso e rievocazione della memoria attraverso la finzione, ma quello tra responsabilità e rimozione della memoria, tema anch'esso importante per comprendere e dare un nome ai vissuti e ancora ad oggi, gli effetti causati dal genocidio senza eguali e che ha portato un milione di presunti comunisti ad essere trucidati e macellati da feroci squadre della morte, appoggiate dall'esercito e dal nuovo governo.
Vittima e Colpevole si guardano negli occhi, la memoria putativa cerca di elaborare e di non dimenticare, se non altro per il bisogno di ammettere affinchè quello che è successo non possa più verificarsi.
Le interviste condotte dal giovane oculista, e qui la metafora è perfetta in entrambi i sensi, danno due diversi quadri su quello che è rimasto nella popolazione, dai killer che confessano i propri crimini davanti alla videocamera senza nessuna vergogna dicendo in parte di aver eseguito solo degli ordini, a coloro che negano, o che si trincerano nel silenzio.
Alì è l'emblema di ciò che resta, di ciò che è stato, e di ciò ce non si vuole più vedere forse si inizia a voler conoscere.
Il documentario ha pure dei momenti di commovente dolcezza come la madre di Alì che lava il corpo scheletrico del padre, o i dialoghi di Alì con la figlia, oppure lo stesso Alì che comprende di essere stato, come afferma la madre, un sostituto del fratello, della morte stessa del fratello (una storia che si fa fatica a credere) e infine il bisogno di riscatto con i genitori e il muro di fronte al ricordo della tragedia.
Un viaggio ancora una volta doloroso ma necessario per comprendere fino in fondo le ragioni e la crescita di una popolazione legata ad una tragedia che rimarrà per sempre nei loro ricordi.



giovedì 24 aprile 2014

Pusher 3

Titolo: Pusher 3
Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 2005
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Milo, lo spacciatore serbo coprotagonista del primo film della trilogia, si è iscritto all'Anonima Tossicodipendenti. Lo incontriamo nel corso di una seduta lo stesso giorno in cui si è autoproposto per cucinare per 50 invitati al compleanno in grande stile di Milena, la figlia venticinquenne. Nel corso della stessa giornata dovrà affrontare lo smercio di una partita di Ecstasy (droga che non ha mai trattato) e affrontare la dura ostilità di malviventi albanesi e polacchi.

Con il terzo capitolo, Refn chiude la sua saga ambientata nella capitale danese.
Tutto si svolge in una intensa giornata in cui Milo (il serbo del primo "Pusher") si trova enormemente sotto pressione e diviso tra l'organizzazione del compleanno della figlia e una partita di ecstasy da piazzare in giornata.
Milo tra i tre protagonisti della saga, rappresenta quello con più esperienza, lo spacciatore che cerca un cammino di redenzione. Non a caso la prima scena lo inquadra in un centro per disintossicarsi dalla droga. La cucina sembra essere l'elemento entomologico con cui Refn prepara delle pietanze quasi sempre ottime, come nella scena in cui Milo salva una prostituta da un futuro di inusuale violenza.
Milo rappresenta la vecchia scuola che si scontra con la nuova, senza regole, soggetta solo a dettare leggi senza portare rispetto e dominata da un'amoralità assoluta.
Il climax finale della cena, e la dura lotta di Milo per risolvere un pantano che sembra indirizzarlo solo verso un destino tragico, è fantastica e fa emergere tutti i contrasti nella dualità del protagonista tra i valori famigliari ed il mondo degli affari illeciti.
Senza stare a dire che il cast è credibilissimo (in tutta la saga underground) e trasmette anche alla pellicola, quella credibilità, che un film di questo tipo necessità, Milo è ciò che rappresenta, si concretizza perfettamente con l'attore Zlatko Buric che è come un patriarca della droga in decadenza, ma che ha ancora qualcosa da dire alla nuove leve della criminalità.

Pusher 2

Titolo: Pusher 2
Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 2004
Paese: Danimarca/Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Tonny è sopravvissuto al violento pestaggio ad opera di Frank ed è successivamente finito in carcere. Quando esce cerca di reinserirsi nel giro del crimine cercando lavoro presso suo padre, soprannominato Il Duca. Costui è al centro di un giro di auto rubate e non ha mai smesso di disprezzare il figlio. Intanto Tonny apprende che una donna con cui ha avuto rapporti (ma che nel contempo ha coltivato numerose relazioni) lo ritiene il padre di suo figlio.

L'idea interessante del secondo capitolo della saga di Refn è che riprende esattamente da dove avevamo lasciato Tonny, dopo il pestaggio di Frank con una mazza da baseball.
A differenza di Frank, Tonny non è in grado di fare nulla, assolutamente inaffidabile e completamente bruciato dalla cocaina.
Le sue scelte non potranno che essere solo drammatiche e risultare quasi sempre spiacevoli, portandolo da un eccesso all'altro e mettendo a dura prova la sua sporca pellaccia.
Il tema della paternità negata con un figlio avuto da una puttana e un padre che lo respinge non è affatto male e propone delle intuizioni che il regista inserisce in modo mai banale o troppo eccessivo (trasgressivo sì però).
Refn calca la mano quando dipinge proprio (e la riuscita qui c'è tutta) quel conflitto interiore tra accettazione/rifiuto, esagerazione/privazione e infine la difficoltà forse maggiore, ovvero quella di riuscire a provare dei sentimenti diversi dall'odio, dalla sopraffazione e dalla violenza.


venerdì 4 aprile 2014

Pusher

Titolo: Pusher
Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 1996
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Frank, uno spacciatore che è anche cocainomane, sta per vivere la peggiore settimana della sua vita. Dopo aver venduto droga ottenendone meno di quanto previsto si ritrova in un grosso guaio. Deve rendere al serbo Milo una grossa somma a cui se ne aggiunge una esorbitante perché, mentre trattava un importante affare con uno svedese, è stato catturato dalla polizia e ha versato tutto il quantitativo di droga (avuta da Milo) nel lago. Ora deve trovare in tempi brevissimi tutti i soldi.

Refn e i suoi esordi. L'opera prima del regista danese è un film duro, pulp, volutamente sporco, frenetico in alcune parti e fondamentalmente privo di autocompiacimenti.
Bodnia (BLEEDER) ha il viso perfetto, la classica faccia da cazzo che non porta a nulla di buono e Copenaghen diventa una metropoli notturna piena di puttane e spacciatori.
Sembra il territorio ideale per il regista, che di fatto girando quello che doveva essere un corto, ha creato invece la sua piccola pillola cult underground riuscendo a mischiare uno stile asciutto e sintetico, con un realismo e un certo gusto estetico che svilupperà e concentrerà nei film successivi.
A livello tecnico c'è poco da dire. Il regista gira con una camera a spalla ( a volte ci sono dei movimenti che potremmo definire esagitati) sfrutta luci naturalistiche e mostra una Copenaghen grigia e semi-vuota. Introdotto da una presentazione didascalica dei cinque personaggi principali (Frank, Vic, Tonny, Milo, Radovan) e scandito da sette capitoli giornalieri (da lunedì a domenica), Pusher è il primo di una piccola saga di tre capitoli, con delle impennate rock durante l'arco del film, con alcuni momenti di ferocia inusuale e delle esplosioni di brutalità (come la scena in cui massacra di botte il suo socio Tonny) e delle trovate a volte decisamente funzionali (come occultare queste scene oscurando la macchina, oppure strizzando l'occhio ad uno stile orientale che ha fatto molta scuola in questo campo, e di cui Refn dimostra di conoscerne bene le basi).
Pusher sicuramente ha tantissimi difetti e in fondo come storia è persino troppo banale nel suo svolgimento. Eppure in tutto questo cazzeggio infinito a cui assistiamo c'è un certo fascino.



martedì 25 marzo 2014

Nymphomaniac-Volume II

Titolo: Nymphomaniac-Volume II
Regia: Lars Von Trier
Anno: 2013
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Seconda parte del film di Lars von Trier in cui si parla dell'età adulta della protagonista. Nella storia un uomo di nome Seligman, interpretato da Stellan Skarsgard, raccoglie una donna picchiata e contusa in un vicolo, Joe, Charlotte Gainsbourg. Mentre l'accudisce a casa, Joe gli racconta in otto capitoli la sua vita, dalla nascita ai cinquant'anni, autodiagnosticandosi come ninfomane.

"La sessualità è la forza più potente dell'animo umano"
Come si gestisce l'esigenza di avere 10 amplessi al giorno con 10 uomini diversi?
Come ci si racconta e cosa si ascolta in sedute per dipendenti di sesso in cui la ninfomane non trova e non vuole aiuto, e soprattutto, non si riconosce perchè dice di essere una vera "ninfomane" mentre le altre sono, per lei, un'altra cosa.
Il piano temporale inizia citando il dialogo di Joe del Volume I, in cui lei si maturba per la prima volta all'età di 4 anni.
Sul piano simbolico Trier suggerisce alcuni punti di vista per detrutturare alcuni monoteismi forti, ad esempio con l'Orgasmo Spontaneo e la Trasfigurazione di Cristo, smuove il terreno sacro di uno dei sacri passaggi della cultura ecclesiastica occidentale.
Lo stesso momento in cui l'umanità di Cristo viene illuminata dalla divina luce eterna.
YEAH
E allora vai di Valeria Messalina e la puttana di Babilonia, permettiti di dire che il nostro passato è orgiastico, che Claudio era un Ninfomane e che in fondo viviamo e continuiamo a vivere repressi concludendo con il continente oscuro della sessualità femminile di Freud.
Poi c'è il lato squisitamente ironico e, in alcuni passaggi, quasi comico, quando ad esempio Joe esce dal ristorante con Jerome e le cadono i cucchiai dalla figa.
Il problema è di dover aspettare per la versione uncut, del secondo volume, di quasi cinque ore e mezza, a dispetto di quella di due ore, in cui verranno privilegiate scene esplicite di sesso.
Il film di Trier è il Dio Pan del mondo dell’arte, della musica, della religione e della letteratura. L'aspetto erotico è certo dominante ma come sempre più nei dialoghi che non nelle scene.
Se, come afferma il filosofo contemporaneo Slavoj Žižek nel suo documentario psicoanalitico sul cinema “The Pervert’s Guide to Cinema”, il cinema è l’arte più perversa perché non offre ciò che si desidera ma piuttosto comunica allo spettatore ‘come’ desiderare, Nymphomaniac allora è un fottuto Vaso di Pandora. Apritelo...

Nymphomaniac-Volume I

Titolo: Nymphomaniac-Volume I
Regia: Lars Von Trier
Anno: 2013
Paese: Danimarca
Giudizio: 5/5

L'anziano Seligman, uscito per fare la spesa in una giornata nevosa, trova a terra il corpo insanguinato di una donna, Joe. La porta nel suo appartamento e la soccorre. Qui Joe gli rivela di essere una ninfomane. Se vuole può raccontargli la sua vita ma sarà una lunga narrazione che prende le mosse dai libri di anatomia del padre medico per poi passare alle competizioni con una coetanea a chi ha più rapporti nel corso di un viaggio in treno. Ma è solo l'inizio.

Nymphomaniac è un film liberatorio, l'escatologia sulla sessualità.
Nymphomaniac è il film prima di tutto per i benpensanti e per i giudaico-cristiani.
Nymphomaniac è un'analisi sull'amore, sul sesso, sul senso di colpa e infine sulla vendetta.
Trier è da stimare per il suo coraggio, questo và detto.E' uno dei massimi provocatori del cinema contemporaneo, uno che si interroga, affascinato dalle questioni esistenziali e dai dilemmi morali, tali da inscenarli in un processo di analisi e auto-analisi di quasi quattro ore.
Tutto quello che è stato pubblicizzato in fondo non è.
Il racconto è un diario di vita morale e immorale in cui si costruisce e si distrugge, si ascolta e ci si racconta,"Cosa preferisci? Seguire il filo del mio racconto per come lo faccio o smettere perchè non ti sembra plausibile?"
L'elemento spaventoso non è affatto la durata del film, che anzi si profila lucido e spietato nella sua critica e nella sua rigida scansione in capitoli, ma la quantità incredibile di temi e citazioni con cui il film è costellato in modo sorprendente.
Partendo da un lavoro sul sonoro sopraffino, in un buio pre e post-film di quasi un minuto, Trier parte gocciolando e lasciandoci in un limbo temporale e geografico, ben inquadrato da un buco nero che si profila insieme alla canzone dei Rammstein che dà l'inizio alle danze.
"La storia che racconterò è morale"è inizia così il viaggio a ritroso in un flash-back assurdamente costruito bene, senza mai apparire lezioso, ma anzi un approfondito punto di vista, assolutamente intellettuale e colto.
Partendo dalla metafora del pescatore tra Ninfo e Ninfomania, essendo una Ninfa,come ammette Joe, era imperativo dovermi sbarazzare della mia verginità, nel più breve tempo possibile.
"Quando Jerome mi entrò dentro per ben 3 volte" scandito addirittura dai numeri "poi mi ha girata e per ben 5 volte nel culo"= 3+5 addirittura l'addizione che collega a Fibonacci.
"Quando hai provato di tutto, una drammatica provocazione può fare abboccare il più passivo dei pesci..."fondamentalmente il cammino di formazione di Joe è coadiuvato da una B. che le fa da mentore, portandola a gare in treno angoscianti nel loro desiderio di addescare a tutti i costi. "Allora il sesso orale, diventa la tua arma finale."

Il cinema come molte opere, possono servire per molteplici scopi.
Uno di questi ad esempio è quello di fare una critica sulla libertà d'espressione.
Ad esempio al '35 la battuta esce fuori dalla bocca del suo ebreo ateo, "Siamo sempre stati antisionisti, che non è la stessa cosa dell'essere antisemita, come vogliono far credere certe forze politiche" e con questo il regista riporta la questione sul passaggio "Persona non Grata".
Alcuni dialoghi, come quello sulla pedofilia, rischiano di essere fraintesi e potranno lasciare a bocca aperta per il significato nascosto in quelle due frasi sconcertanti.
Sicuramente una certa parte di benpensanti e di istituzioni religiose, condanneranno il film a spada tratta, senza leggerne il valore e i simboli, magari limitandosi al titolo del film o alla locandina, oppure alle frettolose conclusioni come ha fatto ad esempio Liberation, dandogli una stellina su cinque.
Il club della "Piccola Congrega" dove si prega "Mea Vulva, Mea Maxima Vulva" per combattere l'amore e la società istituita sull'amore e solo una delle tante varianti metaforiche di un processo che ha portato alla conoscenza dell'eros e di come non frenare le pulsioni.
"Ogni 100 crimini commessi in nome dell'amore, uno solo è commesso in nome del sesso".
Un teorema quasi perfetto a cui do il massimo dei voti, per il coraggio e il bisogno di liberare e di liberarsi, svuotandosi e senza reprimere nessuno bisogno.
La famiglia non viene solo massacrata, peggio, e con questo non dico altro, se non che è tutto in mano alla Thurman, donna tradita e abbandonata, il suo lungo monologo è quasi commovente.
Sugli attori sarò breve. La Thurman riesce nel ruolo più difficile e più bello di tutta la sua carriera. Slater si supera come padre/medico morente che scatenerà la furia sessuale di lei.
Kier e Dafoe comparsano. Gainsbourg e La Beouf si divertono e la palma và al perfetto Skargard.
L'anziano scapolo Seligman è perfetto come ebreo colto, perchè inizialmente ascolta, soffre, forse si strugge, lei è sorpresa poichè lui non si ecciti durante il racconto. Sembra stuatuario nel suo sapere classico e secolarizzato, a dispetto di una post-contemporaneità che non sembra nemmeno sfiorarlo, ma che dovrà comunque confrontarsi con la repressione dell'istinto fisico, a dispetto di quello intellettuale e della ragione che non sembra appagarlo fino in fondo.
Anche i tempi sono scanditi in modo volutamente disordinato (la stessa Joe mentre racconta dice che farà dei salti per anticipare alcuni passaggi) trovando nella scansione temporale una matematica perfetta (la 1°volta in cui lei perde l'amore casca esattamente dopo '60)
Trier è tenace, ossessivo, non sceglie il porno ma sceglie la sessualità esplicita (il dato impressionante è che forse a parte un pompino e qualche frustata, la violenza anche quella scelta dai protagonisti per riscattarsi, non è mai gratuita e Trier questo lo sa bene, basta pensare alla logica che sta dietro i colpi con la frusta)
Dove e cosa inquadrare in quel preciso attimo, in cui un bambino esce dalle gambe sorridendo e ci viene detto che è un presagio satanico. "Il figlio sorridente" come nel Doctor Faust di Thomas Mann, descrive la nascita del figlio di Noah, Hiam, che rideva mentre veniva messa al mondo.
Non credo che capiti spesso che un regista apra una casa di produzione per realizzare porno 'di qualità' e convoca così studiose della sessualità per elaborare un "dogma" su ciò che potesse essere mostrato esplicitamente in un film, senza però che le donne si sentissero umiliate.
Un misogino non credo che avrebbe una tale peculiarità nel scegliere il modo più equilibrato per inscenare qualcosa di assolutamente anarchico, cinico, libero dagli schemi, visionario e filosofico dalla A alla Z, in cui lo stesso occhio della locandina girandolo diventa una vulva.
Una delle frasi più belle l'ha detta il critico Xan Brooks del Guardian:"Mi infastidisce, mi disgusta, e penso che potrei amarlo. È come una relazione violenta. Ho bisogno di vederlo di nuovo”
L'autoanalisi funziona.




domenica 9 marzo 2014

Sospetto

Titolo: Sospetto
Regia: Thomas Vinterberg
Anno: 2012
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Lucas è un maestro d’asilo in un piccolo paese della Danimarca. Quando la bambina del suo miglior amico racconta una bugia, Lucas diventa la vittima di una caccia alle streghe.

Vinterberg è un regista davvero in gamba. La sua bravura è riassumibile nell'estro della scrittura, nel non cadere nel facile stereotipo, e di cercare di comunicare la sofferenza e le difficoltà di una comunità, in questo caso quella di una piccola città danese.
Il "Sospetto" è un film con una trama tutt'altro che semplice. Un tema scottante che andava sondato con uno sguardo attento e capace, come quello del regista e dell'ottimo attore, a cui affida completamente la catarsi.
Quando un'opera è in grado di generare un malessere incredibile e continuo, un vero mix di rabbia speranza, incredulità e tristezza per tutta la sua durata, allora siamo a cavallo.
Il sesto lavoro dell'allievo di Trier è davvero molto lucido e scomodo, trattando un tema e portandolo agli eccessi, sapendo però contenere l'esasperazione, senza mai renderla gratuita o non allineata con gli intenti del film.
In realtà il vero titolo del film è Jagten, "La Caccia", molto più funzionale anche perchè dopo una primo atto, divide subito la comunità e mostra le reali connotazioni di alcuni volti noti della comunità in cui Lucas vive e insegna.
Ancora una volta temi come quelli della normalità, dell'apparenza e il sospetto che spesso per invidia o per paranoie, sembra albergare dentro ognuno di noi, pronto ad attaccare appena colpito un membro, tornano attuali e lo saranno sempre.
Jagten infine suggerisce, neanche troppo velatamente, che non solo i bambini a volte posono arrivare a mentire ma che spesso e volentieri il danno a cui contribuiscono gli adulti può essere davvero letale come avviene per la madre e il padre di Klara, la direttrice e infine lo psicologo.
Ma le energie liberate dalle varie campagne, sparse un pò ovunque nel mondo, contro il "mostro", e addirittura la difesa a prescindere degli innocenti, non sono altro che il risultato delle ferree regole non scritte della vita all'interno di una piccola comunità, in cui per assicurare la sussistenza del gruppo è necessario eliminare o scacciare eventuali elementi di disturbo, anche se questi sono gli amici più amati o i colleghi più stimati.
Girard e il suo Capro Espiatorio ritornano più che mai in questo film dal finale duro e scomodo, incisivo e indimenticabile come solo pochi film sanno esserlo fino in fondo.





lunedì 25 novembre 2013

Act of Killing

Titolo: Act of Killing
Regia: Joshua Oppenheimer
Anno: 2012
Paese: Danimarca, Norvegia, Gran Bretagna, Svezia, Finlandia
Giudizio: 5/5

Nel 1965, con un colpo di stato, l'esercito depone il governo indonesiano. In meno di un anno chiunque si opponga alla dittatura militare viene accusato di comunismo e trucidato con l'appoggio della Gioventù di Pancasila. Appartenenti ai sindacati e alla minoranza etnica cinese, contadini privati della propria terra e intellettuali sono giustiziati dai paramilitari e da piccoli fuorilegge dediti al bagarinaggio di biglietti del cinema presto elevati allo stato di killer spietati. Gli assassini di ieri oggi sono uomini benestanti che hanno accettato di ricreare le scene delle loro torture e esecuzioni, adattandole ai generi cinematografici preferiti: western, musical e gangster movie.

The Act of Killing è originale. Basterebbe già solo questo elemento per collocalo tra gli esperimenti più interessanti di questi ultimi anni.
Cinema veritè, il duro confronto con una realtà che per molti era probabilmente sconosciuta e un fatto sociale che diventa la triste realtà di alcuni paesi.
Fiction e documentario si stringono la mano per un lavoro, l'opera prima di un regista, che cerca di convogliare gli intenti per far emergere un quadro sulla dura e disarmante scelta di un paese alla deriva e i loro spiacevoli protagonisti.
Oppenheimer racconta l’orrore del massacro indonesiano inscenando davanti ai nostri occhi quell’orrenda realtà che è così poco nota in occidente; in alcuni momenti assistiamo davvero ad un intenso dramma emotivo che rivivono gli attori che al tempo erano vittime o figli delle vittime, come nella scena del villaggio in cui una bambina continua a piangere anche quando gli dicono che non è vero e una donna sembra perdere i sensi.
Gli aguzzini stessi, Anwar Congo e Adi Zulkadry, ricreano per il regista e per noi spettatori, i loro efferati delitti, le atroci torture a cui sottoponevano gli oppositori al regime. Il delitto vero e proprio non si vede mai, ma il regista e i suoi attori (attori di una messa in scena nella messa in scena, geniale creazione di Hoppenheimer) si spingono così vicini alla sua mostrazione che allo spettatore sembra di vederlo ed è sorprendente il disagio arrecato a carnefice,vittima e spettatore.
Uno dei tratti sorprendenti dell'opera è sicuramente il ruolo marginale della telecamera che osserva senza commentare e dare giudizi, ma lasciando solo allo spettatore la straziante presa di coscienza su qualcosa che non è stato possibile frenare dilagando come un tumore incurabile capace di genererare ancora terrore a distanza di anni nelle coscienze dei carnefici e delle vittime.
"La più grande caccia ai comunisti di tutti i tempi" è una scusa per un manipolo di uomini che confessano più volte di non sapere se le vittime fossero comuniste o meno.
Il regista inoltre riflette su un elemento determinante nella classificazione di questo lavoro e della ricerca degli intenti del documentario ovvero come vedono sé stessi questi assassini? Come vedono il loro agìto e le loro vittime? Come vogliono essere visti?
Oppenheimer ha ottenuto la collaborazione dei protagonisti presentando il film come un ritratto pubblico delle gerarchie militari al potere. Non era una menzogna, ma era inevitabile che alla visione del prodotto finito, Anwar e compagni manifestassero qualche dubbio in merito alla ricezione del documentario presso il pubblico indonesiano e internazionale.
Se l’intento che li aveva guidati nelle loro messe in scena era quello di glorificare sé stessi e le loro azioni passate, perché avevano liberato il Paese dal pericolo comunista, rivedendo le sequenze in cui simulano i propri crimini, non possono non percepire un che di disforico quando il film di Hoppenheimer compie un ulteriore passo nel delirio, ovvero quando gli assassini giungono ad impersonare le loro vittime.
A questo punto gli incubi di Congo e le tristi confessioni dei suoi alleati, come quello che dovette uccidere il padre della moglie perchè comunista, oppure lo stesso Congo che si fa picchiare e costringe i nipoti di notte a svegliarsi e vedere le immagini, diventano fantasmi reali e comunicanti.

sabato 16 novembre 2013

Daisy Diamond

Titolo: Daisy Diamond
Regia: Simon Staho
Anno: 2007
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Anna ha un solo pensiero e un solo desiderio nella vita: fare l'attrice. Inseguendo il suo sogno si sposta dalla Svezia a Copenhagen, ma il destino ha in riservo per lei qualcosa di diverso. Nonostante lei ce la metta tutta per garantire un'esistenza e un futuro alla figlioletta di 4 anni, non riesce a conciliare la sua aspirazione alla recitazione con il fornire alla bambina un'ambiente sano e sicuro in cui crescere. E le conseguenze saranno fatali.

Un bel flash il film di Staho. Lasciato nelle mani della brava Rapace, la pellicola comunica un sacco di emozioni, drammi e scene direi belle toste.
La scelta del soggetto è rigorosa e non lascia spazio a inutili soluzioni per benpensanti ma attacca a livello emozionale senza lasciare tregua. Si assiste così al lungo viaggio di Anna, che và cercando la pietra filosofale della propria esistenza con azioni sottrattive come l’affogamento di Daisy, l’annichilimento e la riduzione di sé a oggetto, suggellato dal taglio cerimoniale dei capelli. Prodotto dalla Zentropa di Von Treier, Daisy Diamond è un'ulteriore sorpresa di un paese dove purtroppo ci arriva poco, ma forse è meglio così quando poi si ha a che fare con opere come questa.
Staho è giovane, rigoroso e asciutto con uno stile essenziale che forse predominerà nelle sue prossime opere descivendo ulteriormente bene piccoli microcosmi che ci piacciono tanto anche se fanno male.
C’è una scena dove la protagonista Noomi Rapace accetta le avances di una lesbica di mezza età che se la porta a casa e la incula.

mercoledì 3 luglio 2013

Solo Dio perdona

Titolo: Solo Dio perdona
Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 2013
Paese: Danimarca/Francia
Giudizio: 3/5

Julian è in fuga dalla polizia britannica. Gestisce una palestra di thai boxe a Bangkok che è una copertura per un giro di traffico di droga. E' rispettato nel mondo criminale locale, ma dentro di sé sente che gli manca qualcosa nella vita. Dopo l'incontro con un poliziotto in pensione, chiamato "L'angelo della vendetta", capisce che deve confrontarsi con sua madre

Il problema dell'ultimo film di Refn è proprio legato a quello che la gente voleva aspettarsi dall'ultimo film di Refn, ovvero per certi aspetti qualcosa che vagamente richiamasse le atmosfere di DRIVE o che vedesse Goslin di nuovo protagonista a 360°.
Non è così, spiazza, girando un perfetta contaminazione tra film orientale ed europeo.
Una sfida per certi aspetti difficilissima e riuscita su svariati piani.
Refn è un autore quindi vira completamente la traiettoria sviluppando un film che è un concentrato di arti marziali, western e atmosfere noire.
Un fattore importantissimo è che Goslin qui non è il protagonista. A dire la verità il suo personaggio conta ben poco venendo solamente assillato da una madre autoritaria che ribadisce come il fratello più grande, che lui dovrebbe vendicare, abbia il cazzo più lungo del suo.
In questo calderone di poliziotti che seguono il vecchio codice e criminali che nascondono le proprie attività illecite, Refn dipinge di nuovo la sua poetica in cui nessuno è innocente, tutti seguono i propri valori la loro scala di simboli.
Una fotografia calda e molto colorata, una Bangkok dispersiva e vuota in perenne oscurità, uno stile estetico molto elegante e patinato, un mix di erotismo e violenza enfatizzato molto bene.
I tempi dilatati ricordano VALHALLA RISING mentre l'iter di violenza sembra più far parte di BRONSON.
Un autore che ancora una volta dimostra tutta la sua voglia di scoprire, di poter dare al cinema anche nuovi strumenti, dimenticando alle volte di essere scorrevole, ma incantando con la musica e la dilatazione delle immagini.
Refn sarà uno destinato a far discutere soprattutto quando il suo cinema viene spesso associato a manierismo, mentre invece è molto più interessante il suo concetto ovvero di chi segue un’intuizione declinando ogni volta il medesimo tema in forma diversa, senza copiare a man bassa dai film altrui e basandosi su idee proprie.
Una fertilità artistica che speriamo prosegua sempre su questi binari.



giovedì 20 giugno 2013

Valhalla Rising

Titolo: Valhalla Rising
Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 2009
Paese: Danimarca/Gran Bretagna
Giudizio: 3/5

Anno Mille: per lunghi anni un guerriero muto di nome One Eye è stato tenuto prigioniero da Barde, capo di un clan vichingo. Con l'aiuto di un giovanissimo schiavo, Are, One Eye riesce a uccidere il suo carceriere e a fuggire assieme al ragazzo. Ma il loro viaggio sarà pieno di pericoli oscuri: imbarcatisi su una nave, si ritroveranno nel mezzo di un misterioso e impenetrabile banco di nebbia che si diraderà solo per lasciarli approdare su una terra sconosciuta. Lì i vichinghi si dovranno confrontare con il loro terribile destino, e One Eye scoprirà la verità sulle sue origini.


Film suggestivo ed evocativo, spiazzante nella sua ricerca e nel descrivere con i silenzi e i paesaggi uno scenario primordiale in cui dominano gli impulsi e in cui la violenza e ancora una volta l'emblema della poetica del regista.
Dominato da simbolismi e concettualità, affasciante e onirico, crudo e reale, osa tentare una carta niente affatto semplice ovvero quella di spettacolizzare il meno possibile ma tematizzando sempre più la brutalità selvaggia della natura umana. Ritorna e inserisce ovviamente nel film rimandi pagani e cristiani, ancora una volta due facce che si confrontano e che diventano motivo di sofferenza e riflessione per il protagonista.
Mads Mikkelsen (PUSHER,BLEEDER,PUSHER 2) veste i panni del potentissimo guerriero confermando di essere stato l'attore feticcio di Refn prima dell'avvento di Ryan Goslin.
Diviso in sei capitoli, che dettano i momenti salienti dell'avvicendarsi della storia, disegna di nuovo nel finale la prova definitiva del guerriero. Prendendo il viaggio dell'eroe e ribaltandolo, Refn arriva ancora una volta a confrontarsi con il tema del sacrificio e dei legami che come dimostra il rapporto con il bambino, è importante credere nel futuro.

lunedì 24 dicembre 2012

Bleeder



Titolo: Bleeder
Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 1999
Paese: Danimarca
Giudizio: 4/5

Leo e Louise vivono insieme a Copenhagen e stanno per avere un bambino. Tuttavia Leo, già irrequieto per la sua frustrante vita, inizia a dare segni di violenta insofferenza che non tarderà a sfogare anche sulla sua compagna.

Bleeder può essere considerato il primo passo importante per il celebre regista danese affermatosi negli ultimi anni e autore di intense e appassionanti pellicole. A differenza dei suoi prossimi film, Bleeder uscito dopo PUSHER, suo esordio alla regia, segna un enorme passo avanti girando un intenso film d’autore. Anomalo negli intenti e nel cercare di dare un vago senso a quelle che appaiono come noiose e tristi giornate nella vita di alcuni personaggi molto comuni, Bleeder merita però una menzione speciale negli intenti e nella messa in scena.
Refn gira quasi tutto il film con la stedy regalando dunque un certo tipo di realismo e di ansia generale l’intera pellicola. Non nasconde il suo amore per il cinema come nella scena in cui un cliente chiede al commesso della videoteca un regista e quello parte con un monologo in cui cita almeno una cinquantina di autori importanti. Citazioni, silenzi che bastano da soli ad esprimere il disagio e la disperazione dei personaggi.
Leo è il perfetto binario dell’alienazione su cui si veicolano tutti i drammi. Grazie sicuramente ad un cast all’altezza si riesce a rendere reale il disagio e il viaggio nell’inferno di alcuni personaggi.
Un film che senza andare a cercare temi e inutili moralismi, mostra la vita di alcuni personaggi, soli, persi, disperati, tutti che cercano in un qualche modo di dare una parvenza di senso alla loro vita.
Sembra un tema semplice, ma in questi ultimi anni la sfida appare più difficile che mai e Refn dimostra un enorme equilibrio e una capacità che traspare dopo pochi decisivi minuti.



giovedì 17 marzo 2011

Brotherwood-Fratellanza

Titolo: Brotherwood-Fratellanza
Regia: Nicolo Donato
Anno: 2009
Paese: Danimarca
Giudizio: 3/5

Brotherhood è la storia di un amore pericoloso e della ricerca della propria identità.
Deluso da un mancato avanzamento di carriera, Lars decide di lasciare l’esercito. Si scoprirà attratto dal movimento neo-nazista e da un membro del gruppo, Jimmy. I due uomini daranno inizio ad una relazione segreta, ma il loro amore proibito dovrà scontare la punizione del gruppo di destra di cui fanno parte. Tuttavia, l’amore e l’attrazione sessuale tra i due sono così forti che, pur dovendo infrangere ogni regola, Lars e Jimmy non riusciranno a mettere fine alla loro relazione …

Alla sua opera prima il regista danese di origini italiane si cimenta con una storia verosimilmente nuova a cui ancora nessuno aveva pensato. L’amore gay in mezzo ad un gruppo di nazi.
Fratellanza non è un film che come per la maggior parte dei film sui gruppi nazi ricerca a tutti i costi la violenza diventando spesso un facile pretesto. In questo caso viene sondata l’enorme omofobia del fenomeno mostrando alcuni lati “imbarazzanti” dei raid, dei bagni al mare tutti nudi, del pogo indefesso tra i vari membri e delle coalizioni forzate tra alcuni di loro. Interessante la dicotomia che Lars presenta quando scopre che i nazi, in questo caso Jimmy, amano più di tutti la natura difendendola e scegliendo prodotti bio per non nuocere il corpo per poi accarezzare un’ideologia tra le più ingenue di tutta la storia. La regia è sobria mantenendo alti i livelli ma scegliendo tanti primi piani per scoprire e sondare ancora di più i personaggi e smascherarli dalla loro ipocrisia e le loro idee idiote. Dialoghi interessanti e poche musiche. Così la scelta del gruppo e i dogmi nazisti diventano una perfetta maschera per nascondere la paura di essere soli e di voler condividere qualcosa con qualcuno pur accennando le conseguenze. Anche se con qualche difetto di sceneggiatura ed un finale forse fin troppo mieloso Brotherwood è sicuramente un film interessante.