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sabato 15 dicembre 2018

Calibre



Titolo: Calibre
Regia: Matt Palmer
Anno: 2018
Paese: Gran Bretagna
Giudizio: 2/5

La storia narra le vicende di Vaughn, prossimo a divenire padre, che si dirige con l’amico Marcus verso un isolato villaggio tra le colline scozzesi per un fine settimana di caccia. Dopo una prima sera passata a bere pesantemente con gli abitanti del posto, i due si addentreranno nella vasta foresta ma, credendo di sparare a un cervo, Vaughn compie un gesto involontario. Decidendo di insabbiare il tragico incidente, finiranno lentamente risucchiati in un incubo senza fine fatto di scelte morali sempre più insopportabili e impossibili.

Calibre fa parte di quel genere di film che aveva uno dei suoi caposaldi post contemporanei nel bellissimo e inquietante Kill List, pietra miliare del sotto genere.
Un film che aveva di nuovo fatto emergere l'interesse per un certo tipo di paganesimo, i rituali, l'esoterismo e infine tanta, tanta violenza.
Dopo di lui hanno cominciato ad uscirne diversi, molti inglesi ma la maggior parte americani.
Alcuni di loro hanno saputo difendersi bene attaccandosi con forza al folklore locale o chiamando in cattedra leggende antiche che non devono essere dimenticate.
Palmer decide di girare un film tosto e duro, dove preferisce rimanere ancorato alla realtà parlando di persone e scelte, senza andare a chiamare in cattedra niente che non si possa trovare in un pub scozzese. Il tema dei bifolchi locali, qui con una piega diversa, riesce ad essere e rappresentare quello scontro contro due cittadini che in fondo, in particolare uno, sono solo alla ricerca di svago approfittando del fatto di essere dei perfetti sconosciuti e forestieri in terra straniera e dunque di poter approfittare della debolezza umana esercitata da un paio di donne che nemmeno a farlo apposta, come in una tragedia greca, sono alle basi dell'incidente scatenante.
Di nuovo un'indefinita e impalpabile minaccia colpisce lo sventurato turista che si avventura in una comunità liminale e isolata che arriva però alle orecchie dei due stranieri grazie ai preziosi consigli del boss locale interpretato da un Tony Curran sempre sul punto di esplodere.
Una festa locale, una battuta di caccia, l'errore che non si dovrebbe mai commettere.
Il grosso problema di Calibre è che non ha un vero colpo di scena e in fondo tutte le azioni prendono la strada che ci si aspetta. Certo rimane duro nella messa in scena e nelle prove attoriali funzionali e mai sopra le righe, ma se si è un fan del genere, abituati a cibarsi con queste storie e queste atmosfere, sinceramente a differenza di quasi tutta la critica che ha parlato di un quasi capolavoro, ho trovato in alcuni momenti il film anche decisamente fiacco.

giovedì 18 ottobre 2018

Louisiana


Titolo: Louisiana
Regia: Roberto Minervini
Anno: 2015
Paese: Italia
Giudizio: 4/5

In un territorio invisibile, ai margini della società, sul confine tra illegalità e anarchia, vive una comunità dolente che tenta di reagire a una minaccia: essere dimenticati dalle istituzioni e vedere calpestati i propri diritti di cittadini.

Il cinema ha ripreso di tutto. Le storie sui tossicci e i film che parlano di dipendenze e di droga ci sono sempre stati, alcuni votati all'intrattenimento, altri ad inquadrare il fenomeno e cercare di analizzarlo in tutte le sue derive in primis dalla frustrazione sociale.
Louisiana arriva tardi da noi, passato in sordina ai festival, ed è un altro documentario dell'ottimo e sconosciuto Minervini che lavora ormai da tempo in America.
Anche lui come tanti della sua generazione si è messo a disposizione dei diseredati per cercare di comprendere un altro aspetto del lato oscuro dell'America.
Qui siamo dentro il Texas rurale, la patria di Lansdale, dove se non fai attenzione alle paludi rischi che qualche coccodrillo venga a mozzarti le palle.
In Louisiana, il regista deve aver conosciuto tanti disperati tra cui una coppia tossicodipendente che vive la giornata, cercando di fare in modo che la dose non manchi mai ma nemmeno il sesso o tutti quei bisogni primari di cui questi disperati cercano di saziarsi continuamente in una consumazioone di corpi e ideologie spicce. La loro è un intensissima relazione dove l'unica pecca potrebbe essere stata quella di non avergli messo in mano un copione dandogli piena improvvisazione e la cosa fino ad un certo punto funziona.
Nella seconda parte invece si sofferma su un gruppo paramilitare, e si fa più esplicitamente politico chiamando in ballo, ma come succedeva già nella parte prima dove un gruppo di anziani col cappello si ritrovano a bere birra fuori dalle loro roulotte e criticare l'attuale amministrazione e politica americana, e le loro azioni da marines.
La parte dei paramilitari per quanto affascinante non allarga più di tanto la vena politica, più che altro si compone di immagini e di monologhi del loro leader che cerca di fare il lavaggio del cervello, fermentando l'ideologia di autodifesa paramilitare a dei giovani smidollati redneck che vivono senza nessuna ambizione ma sempre con il dito sul grilletto.


Tempi felici verranno presto


Titolo: Tempi felici verranno presto
Regia: Alessandro Comodin
Anno: 2016
Paese: Italia
Giudizio: 3/5

Tommaso e Arturo scappano nel bosco, la vita sembra andare meglio ma si muore sempre quando meno uno se l'aspetta.

Sembra quasi un film a episodi con storie diverse tenute assieme da un filo conduttore che potrebbe essere proprio l'ambiente o la natura. L'opera numero due di Comodin è una favola surreale in un mondo reale, ma allo stesso tempo incredibilmente arcaico, nelle regole e nelle azioni che svolge la comunità.
Un film indipendente e anarchico, un INTO THE WILD più intelligente, dove la realisticità si pone alla base delle scelte e delle azioni dei personaggi e soprattutto delle storie.
Leggede folkloristiche, una ricerca interiore, un mistero che avvolge la narrazione, la scoperta e la voglia di scegliere una vita in mezzo alla natura con tanto di ritorno alla caccia primordiale e senza apparenti ripari.
La prima storia forse perchè la più folle diventa anche quella con il climax finale più triste.
Mentre nella seconda una donna, forse una specie di martire, che decide di scappare nel bosco e andare alla ricerca del lupo diventa la vittima sacrificale su cui imbastire tutta una serie di congetture e teorie. Proprio quest'ultimo, il lupo, è al centro di miti e leggende dove si narra tra fiction e documentario, realtà e fantasia, racconto e trattato antropologico, di come Ariane sia entrata nel buco senza più uscirne e questo episodio di cronaca ha portato la comunità a credere e creare leggende, tra le quali alcune davvero assurde, come l'unione tra la donna e il lupo.


Boar



Titolo: Boar
Regia: Chris Sun
Anno: 2018
Paese: Australia
Giudizio: 2/5

Il bestiame comincia a scomparire in una piccola città rurale e due contadini dediti all’alcol si ritrovano faccia a faccia con un gigantesco cinghiale. Dopo essersi imbattuti nei resti devastati di un camping, i due uomini – con abbondanza di bottiglie di whisky, ma con una scorta di munizioni insufficienti – devono così provare a respingere la bestia da soli, prima che questa torni a uccidere di nuovo. Nel frattempo, la famiglia Monroe arriva in città per far visita ad alcuni parenti e, mentre trascorre un idilliaco pomeriggio a nuotare nel vicino fiume, anche i suoi membri finiscono nel mirino della creatura predatrice selvatica dall’appetito insaziabile.

Boar entra a far parte di quel sotto filone creature film o monster movie.
Un b movie cresciuto nell'outback australiano figlio di un certo genere ozploitation che dalla terra dei canguri ogni tanto fa spuntare qualche pellicola di genere.
Boar però a differenza di Razorback-Oltre l'urlo del demonio o chessò Pig Hunt, non ha proprio niente a che vedere. Sun purtroppo, non parliamo solo di limiti di budget, confeziona degli errori eclatanti in fase di montaggio e in alcuni punti della narrazione.
Mai cinghiale è stato visto così poco con dei pessimi effetti speciali e con un finale dove lo prendono a fucilate, da arresto.
La storia oltre essere infarcita di luoghi comuni continua il discorso che già aveva iniziato Kotcheff con il suo capolavoro esprimendo la sua impressione sugli australiani che sono dei redneck alcolizzati. I protagonisti a parte un nonnetto simpatico e sempre arrapato già visto in due horror che con questo non hanno nulla a che fare, sono fantasmi messi lì solo per dire assurdità e morire malamente. Quando ti rendi conto che uno dei personaggi meglio caratterizzati è un ex lottatore di wrestling che fa lo stunt man, beh siamo proprio arrivati alla frutta.
Si salva davvero poco. Il cinghiale compare sempre con il tele trasporto di fronte alle sue vittime.
Alcuni, disarmati, provano anche a prenderlo a pugni con risultati direi piuttosto penosi.
Pensatela così. Campi sterminati dove non c'è nulla nemmeno un albero quindi diciamo che se non siete proprio ciechi riuscireste a vedere anche il buco del culo di un canguro a miglia di distanza.
Eppure Sun, che in questo o è stato esageratamente stupido per buttarla sull'ironia, sbam, oppure ha proprio cannato tutto dove infatti dal nulla giacchè prima non c'era nulla compare il cinghiale tra l'altro con una velocità ancora più impressionante dei quella dei velociraptor

venerdì 12 ottobre 2018

Domestics


Titolo: Domestics
Regia: Mike P. Nelson
Anno: 2018
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

In un terrificante mondo post apocalittico abitato da violente gang divise in fazioni, Nina e Mike viaggiano attraverso il paese, desolato e senza legge, in cerca di salvezza. Dopo il cataclisma pochi sono sopravvissuti, le città sono state abbandonate e i gruppi di superstiti si sono organizzati in bande in lotta tra loro. Ogni fazione rappresenta una specie di "incubo americano" e i loro membri non si fermano davanti a nulla, con il predominio come unico obiettivo. Restare vivi non sarà facile.

Domestics è un curioso wtf sulla regressione del genere post-apocalittico nonchè survival on the road con un nutrito mix di film in parte ampiamente scopiazzati.
Il risultato però non è nocivo come il gas che sparano a profusione gli aerei del governo sulla civiltà all'inizio del film.
Lo sono forse tutte le gang diverse e con l'unico scopo di uccidere e fottere, una via di mezzo tra i bifolchi trasformati in Crossed e l'universo di Miller in chiave nichilista dove la donna serve solo come suppelletto. Forse a tal proposito una delle scene più belle è proprio quella nella casa anzi nell'arena dove marito e moglie, entrambi ex, devono uccidersi a vicenda con le pistole attaccate con tanto di trapano alle mani.
Un horror d'azione dove nell'apocalittica ricerca di una salvezza dove anche qui la voce fuori campo, un dj, ci aiuta e narra cosa è successo raccontando le nefandezze di questa Sodoma ma anche la strada da percorrere per trovare la salvezza.
La profonda amarezza di The Domestics è che ci si aspettava "qualcosa" mentre invece la storia procede spedita sì ma anche inflazionata dalle scene telefonate e dalla prevedibilità dei colpi di scena. Un enorme calderone del già visto con tanti accessori notevoli e affascinanti ma che alla fine non riescono nemmeno a farti venire quella sensazione come di essersi beccati in pieno da un cazzotto nello stomaco. Qui il colpo punta sotto la cintura e come si sà non si guadagna nessun punto.
Alla fine il film di Nelson è un'operazione che si affida in maniera genuina ad un'estetica di genere, con una violenza presente ma mai estrema e gratuita con una solida componente action che, soprattutto nel rocambolesco finale, si rivela accattivante e in grado di regalare le giuste dosi, ma che non appagano mai, di quell'adrenalina che necessitano i fan del genere.

martedì 20 febbraio 2018

2001 Maniacs


Titolo: 2001 Maniacs
Regia: Tim Sullivan
Anno: 2005
Paese: Usa
Giudizio: 3/5

Alcuni studenti universitari, in occasione delle vacanze estive, decidono di recarsi a Daytona Beach, ma un imprevisto gli costringe a fermarsi in una piccola cittadina a mala pena segnata sulla mappa. Gli abitanti, impegnati nei preparativi per la loro festa annuale gli accolgono molto bene, invitandoli a fermarsi ancora con loro, ma i ragazzi non sanno che in realtà la festa é solo una scusa per porre in atto un macabro rituale...

2001 è un remake del classico TWO THOUSAND MANIACS di quel pazzo di nome Herschell Gordon Lewis che contribui a dare vita al filone dello "slasher movie".
A differenza del film originale qui il target e i protagonisti riprendono il filone del teen horror, con dei giovani che diventano carne da macello risultando celebrolesi solo in cerca di divertimento e sesso.
Ci sono remake di cui non si sente il bisogno o meglio non riescono mai ad azzeccare quasi nulla rispetto all'originale. Il film di Sullivan pur come dicevo aderendo ai canoni del filone teen-comedy è un remake coi fiocchi che non sfigura di certo rispetto all'originale.
C'è tantissimo sangue, frattaglie e budella come a sottolineare gli aspetti che prevalgono del sotto-genere.
C'è poi una metafora politica relativa ai contrasti tra nord e sud e quasi tutto il primo atto e parte del secondo mostra culi e tette in grandi quantità come a distrarre la carne da macello e noi spettatori su alcune lacune nella sceneggiatura dall'arrivo degli ospiti a Pleasentville.
Inoltre Sullivan che deve essere un mestierante, ha cercato di infarcire il film il più possibile con un ritmo che non stacca un attimo e buttandosi su trovate e scene ad effetto che se pur non riescono mai a far paura a causa anche dell'impianto ironico del film, giocano bene le loro carte tra evirazioni e sbudellamenti.
2001 come gli abitanti della cittadina sudista capeggiata da un Englund in gran forma e con tutti i bifolchi gregari che come sempre fanno paura più di qualsiasi mostro.
Un film tutto sommato divertente, passato purtroppo in sordina o solo straight to video, creato dal trio composto da Tim Roth, Tim Sullivan e Scott Spiegel.



venerdì 8 settembre 2017

Let me make you a martyr


Titolo: Let me make you a martyr
Regia: Corey Asraf, John SwabJ
Anno: 2016
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

Drew Glass fa il suo ritorno in città, imbattendosi presto con il padre adottivo boss del crimine locale, la sorella adottiva (e amante) dipendente dal crack, un addetto ai parcheggi delle roulotte tossicodipendente, un prete cieco con un segreto, una ragazzina scomparsa e un killer solitario da ingaggiare. Ogni passo che Drew muove lo riporta inevitabilmente al suo complicato passato.

Cinico, sporco, maledettamente drammatico e destinato ad essere crudele ed efferato, almeno questa era l'idea che mi ero fatto quando sono venuto a conoscenza di questo strano indie sconosciuto da noi. Il noir, il southern drama, della giovane coppia di registi indaga in questa piccola cittadina americana popolata da bifolchi, una sottocultura di individui che vivono secondo delle regole e dei codici particolari.
Spacciatori, tossici, killer professionisti, signori della droga. Praticamente mezzo cast della serie tv Sons of Anarchy, per chi ha avuto la forza di vederla tutta, assieme a Marilyn Manson in veste cinica e crudele che d'altro canto aveva recitato anche lui nella serie citata ritagliandosi un personaggio minore in tutta la parte legata al carcere.
Non c'è redenzione e non c'è salvezza per questo film e per i suoi protagonisti. Già il titolo originale è profetico ma la disperazione e l'intento salvifico del protagonista e della sua scelta per amore nei confronti della sorellastra lo porterà in un vortice di violenza e sopraffazione davvero spietato.
Ora tanti elementi squisitamente di genere, marcati e sporchi, sono sicuramente tasselli interessanti ma purtroppo sanciscono il primo limite in termini di sceneggiatura del duo di registi.
Pur avendo degli intenti da western moderno indefinito, noir e southern drama in chiave leggermente pulp, il risultato in termini di ritmo è abbastanza noioso come se i registi cercassero di trovare la propria voce raccontando una storia coerente ma che invece mostra una galleria disarticolata di personaggi anche molto interessanti sui cui la caratterizzazione non riesce a fare il suo lavoro. Mi ha ricordato per altri spetti parlando di droga il recente Heaven knows what di Safdie con cui aveva nell'atmosfera legata alla perdizione della sua protagonista diverse analogie.
I due autori invece di giocarsi la carta della violenza cool e del country pulp ingabbiano il loro film dentro un’impalcatura iper drammatica, mettendo in bocca ai loro personaggi parole pesantissime e retoriche sulla salvezza e il riscatto e condannandoli ad una spirale di pessime e disperate scelte che finiscono per risultare quasi ridicole. A differenza di questo e comunque volendo esagerare con la drammaticità per rimanere in questa westland mi viene in mente un film uscito qualche annetto fa Ain't them bodies saint riuscendo ha fare molto meglio.

domenica 3 settembre 2017

Holy ghost people

Titolo: Holy ghost people
Regia: Mitchell Altieri
Anno: 2013
Paese: Usa
Giudizio: 2/5

In questo thriller psicologico, la diciannovenne Charlotte chiede l'aiuto dell'alcolizzato ex-Marine Wayne per trovare la sorella, scomparsa nel profondo dei monti Appalachi. La loro ricerca li porta alla Chiesa del Comune Accordo e a un enigmatico predicatore che usa i serpenti, e la cui devota congregazione di reietti rischia consapevolmente di essere ferita a morte per cercare la salvezza nello Spirito Santo. Quello che Wayne e Charlotte scoprono durante il loro tempo in montagna - su se stessi e sulla natura della fede - li scuote nel profondo, mentre il mistero della sorella Charlotte e il suo destino comincia a dipanarsi...

Le sette, la religione, le comunità nutrite di bifolchi e tutto il resto che gravita attorno a questo irresistibile flusso di gente che cerca un simbolo a cui affidare la propria esistenza per me è materia di interesse; anche quando ho la certezza che mi troverò di fronte ad un pacco senza senso come mi aspettavo per questo film.
Un prodotto commerciale senza anima destinato a vendere qualcosa su straight to video e portarsi magari a casa qualche recensione positiva di qualche amante dell'horror o del suo sottogenere preferito trovando elementi originali quando invece Altieri si è impegnato a farcire il suo film di luoghi comuni banali e senza senso.
Sono tanti e troppi quindi non starò ad elencarli tutti ma posso solo dire che dal plot iniziale in realtà la storia avrebbe potuto prendere un altra piega o diventare già da subito qualcosa come 2001 maniacs di Sullivan oppure lo stesso Hamiltons in cui Altieri ha giocato le sue carte.
Tutto nella setta sembra proprio prendere la strada più legata a ciò che ci si potrebbe aspettare con le donne tutte chinate che prendono botte dalla mattina alla sera senza poter proferire nulla, un'equipe di uomini con delle ghigne da psicopatici, gente che si fa prendere a scudisciate per aver avuto pensieri impuri. Un prete che fa i sermoni abbracciando un serpente e il classico bifolco handicappato.
Oltre a tutti questi elementi c'è poi una messa in scena discontinua in cui tutto sembra slegato. Un film che potete tranquillamente risparmiarvi di vedere limitandovi al trailer.