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domenica 27 luglio 2014

Vendages

Titolo: Vendages
Regia: Paul Lacoste
Anno: 2014
Paese: Francia
Giudizio: 3/5

Sud della Francia, metà settembre. Un gruppo di venti persone con storie molto diverse tra loro (chi è disoccupato e chi già in pensione, chi studia ancora, è immigrato o senza nulla da perdere) si ritrovano in campagna per la raccolta dell’uva in vista della vendemmia. Saranno quattro settimane di duro lavoro fisico in cui dovranno affrontare disagi come i colpi di calore o le vesciche da cesoie, ma anche lotte sindacali per ottenere il giusto salario e aspre discussioni, che getteranno quindi le basi per intensi rapporti d’amicizia se non per la nascita di una vera e propria utopica comunità di uomini e donne in grado di far dimenticare la precarietà della loro condizione, anche esistenziale.

Asciutto e minimale l'ultimo documentario di Lacoste. Quasi un esercizio di stile per documentare tutti i passaggi che servono per girare un attento documentario.
Vendages osserva la nascita e la storia di una micro-comunità eterogenea che ogni anno prende forma nel Sud della Francia durante il periodo della vendemmia senza analizzare altro ma rimenando sempre in assoluta sintonia con a struttura e la coerenza narrativa. Un'amicizia che può durare qualche mese o crescere e maturare come un grappolo d'uva.

mercoledì 2 luglio 2014

Super Fungi

Titolo: Super Fungi
Regia: Anne Rizzo
Anno: 2012
Paese: Francia
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 4/5

Super Fungi narra le proprietà stupefacenti di una delle più antiche e sofisticate forme di organismo di natura vivente, con accesso esclusivo al massimo esperto statunitense in materia, Paul Stamets. Da digerire rifiuti oleosi a consentire alberi per crescere nei deserti, da farmaci "ultima chance" per i pazienti, alla modellazione reti di comunicazione », i funghi potrebbero diventare i migliori alleati del genere umano nel 21 ° secolo!

“Can mushrooms help save the world?”
Il documentario della coppia di registi svela le magiche proprietà dei funghi cercando di continuare un lavoro in campo sperimentale e di ricerca su tutte le possibili risorse di questo strano parassita.
La star è il fungo, un essere vivente che, mezzo animale (in quanto eteretrofo) e mezzo vegetale (per la somiglianza cellulare), riesce a conquistarsi un regno tutto suo e forse sconosciuto alla maggior parte di noi.
Il regno dei funghi è un gruppo di esseri viventi molto numeroso, si stima che più di mezzo milione di specie debba ancora essere studiata e classificata.
Con questo documentario, i massimi studiosi nel campo di ricerca, ci danno un piccolo assaggio di ciò che i funghi sono in grado di fare. La micologia diventa quindi la protagonista assoluta di questo doc, nel quale, questa scienza, viene sfruttata per porre rimedio ad alcune problematiche ecologiche che affliggono gli ecosistemi e tutti i suoi elementi. I funghi potrebbero svolgere un ruolo fondamentale nel fronteggiare future crisi ambientali e sanitarie.
Alcune specie possano essere utilizzate per porre rimedio ad inquinamento e desertificazione, cercando di focalizzare l’attenzione sull’importanza di questo regno spesso sottovalutato e che invece merita riflessione, studio, grande visibilità e adeguata divulgazione.
Interessanti alcune recenti scoperte come il Pleurotus ostreatus (in grado di assorbire le perdite di petrolio) oppure il Laccaria bicolor (che permette agli alberi di crescere nelle zone più desertiche) o ancora il Fomitopsis officinalis (vera e propria ultima risorsa per i pazienti affetti da mali incurabili)
etc. A livello tecnico il documentario è molto attento e si avvale di alcune tecniche che riecono a sfruttare e impreziosire ancora di più le immagini con piani e sequenze meravigliosi, una fotografia curata e mai banale e infine con una musica d’accompagnamento sinergica che esalta i sensi. 52 minuti di pura sensazione.





giovedì 26 giugno 2014

Song From The Forest

Titolo: Song from the forest
Regia: Michael Obert
Anno: 2013
Paese: Usa
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 5/5

Il musicologo americano Louis Sarno vive da 25 anni nella foresta pluviale centrafricana. Approdato alla tribù dei pigmei Bayaka alla ricerca di una melodia che lo aveva stregato, non se n'è più andato: ha registrato più di mille ore di musica tradizionale, ha imparato la lingua locale e vive perfettamente integrato nella comunità con la moglie e un figlio di 13 anni. Proprio al ragazzo fa una promessa: se vincerà la battaglia contro la grave malattia che lo ha colpito, lo porterà a conoscere il "suo" mondo, quello da cui proviene...

Song from the forest è uno dei pochi documentari capaci di sradicarti completamente dal tessuto moderno, globalizzato e post contemporaneo, per collocarti in mezzo alla foresta, ad una natura che sempre più dimentichiamo o non accettiamo perchè troppo ostica e selvaggia.
Sarno è uno di quegli individui così particolari da lasciarti sgomento ad osservarlo e sentirlo parlare come una sorta di guru scappato dall'Occidente.
Il lavoro di Obert è davvero straordinario sotto diversi punti di vista.
Il soggetto che si dirama diventando astuto nel cogliere e mettere assieme due realtà così diverse. Nella fotografia, magica, in grado di riflettere ogni singolo raggio di luce.
Nelle interpretazioni dei due protagonisti e gli abitanti del villaggio ma anche comparsate come Jarmush che diventa il punto di riferimento americano.
Nella musica, mai condensata così bene assieme alle immagini e alla profonda evocazione che questa melodia crea a tutti gli effetti e che immerge l'attento ascoltatore in qualcosa di primordiale.
Se si pensa che da giovane, lo statunitense Louis Sarno ha sentito alla radio una canzone che ha colpito la sua immaginazione e che da allora ha seguito i suoni misteriosi della foresta pluviale dell'Africa centrale, trovando la sua musica tra i pigmei bayaka e rimanendo a vivere con loro, allora sembra quasi di sentire una leggenda o una storia di fantasia.
Il documentario di Obert si esprime sotto diversi registri, riuscendo a immergere lo spettatore in un magnifico mondo naturale e nell'ascesa della realtà della metropoli e tutte le sue perverse contraddizioni.


Project Wild Thing

Titolo: Project Wild Thing
Regia: David Bond
Anno: 2013
Paese: Gran Bretagna
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 4/5

Padre prima che regista, David Bond si è accorto da un po’ di come i tempi siano cambiati rispetto alla sua infanzia. I suoi figli infatti, al contrario di come capitava a lui, non nutrono alcun interesse per i vecchi giochi all’aria aperta che tanto lo entusiasmavano. Calamitati dagli schermi di iPad, smartphone, computer e tv sono l’emblematica dimostrazione di quanto la Apple, la Disney o la Mattel abbiano capito più degli stessi genitori come conquistare e controllare i loro figli. Ma David non si vuole arrendere e, determinato a invertire la rotta, ha quindi sviluppato e lanciato una campagna nazionale per spingere i bambini inglesi a uscire di casa e (ri)scoprire la natura.

Al Cinemambiente Bond era collegato via Skype e sorrideva molto.
Mi piace pensarlo così David Bond, padre prima che regista, nella sua possiamo chiamare missione per evangelizzare la natura a dispetto delle nuove tecnologie digitali, importanti ma spiacevoli valvole di sfogo per i digital-natives del nostro secolo.
Un lavoro importante prima che interessante. Prima di tutto Bond ha una cosa che a molti padri e registi forse manca al giorno d'oggi. Il coraggio.
Credere così tanto in un'idea e portarla avanti nonostante tutte le difficoltà, non deve essere cosa semplice, soprattutto quando si hanno anche dei figli e una moglie esigente.
Le difficoltà di Bond nel dare vita a questo incredibile e rivoluzionario progetto, chiedendo aiuto ad esperti e sondando il rapporto tra studenti e ambiente è lento e ancora oggi e in cistante crescita proprio perchè partorito come community e quindi dando la possibilità a tutti di collegarsi al sito e dare preziose informazioni.
I dati portano a un quadro allarmante, ma Bond non sembra essere pessimista e vedere tutto solo spalmato di grigio. Dalla fantastica foto della figlia come profilo per il suo progetto, il giovane padre, sembra aver dato vita a qualcosa che forse, proprio grazie ad altre famiglie, può trasformarsi e radicalizzare il concetto di giocare all'aperto.

lunedì 23 giugno 2014

Population Boom

Titolo: Population Boom
Regia: Warner Boote
Anno: 2013
Paese: Austria
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 3/5

Fino a che punto è vero che il sovrappopolamento causerà danni al Pianeta? E soprattutto, siamo davvero così in tanti? Il viaggio del regista Warner Boote nei paesi sottosviluppati e tra i dati forniti dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale

Boote sembra un tipo simpatico. Viaggia moltissimo, sembra onnipresente ed è un fan dei festival che cerca di non perdersi in tutto il mondo. A Torino era interessante scoprire il motivo che lo ha portato alla realizzazione di questo documentario soprattutto quando forse ttti partivano con alcune idee, visto il titolo, e si sono visti trattare il tema in modo completamente diverso.
Già nel 1974 veniva redatto il “National Security Memorandum 200”, un documento che stigmatizza la necessità di un piano di controllo delle nascite per assicurare il benessere alla popolazione mondiale, partendo da paesi sottosviluppati come il Messico, l'India, il Bangladesh, il Pakistan, le Filippine e la Thailandia, solo per citarne alcuni. Così Boote cerca alcuni tra i rappresentanti più autorevoli, sparsi in tutto il mondo, e chiede, domanda, legge statistiche e cerca di capire se quello del sovraffollamento sia davvero un problema.
Secondo questo principio o parlando soltanto di dati relativi ad esempio alla densità demografica, L'Africa non è forse uno dei meno popolati? E che dire di alcune aree europee in cui la densità è altissima? Partendo da alcuni confronti e collegamenti si scoprono dei dati sorprendenti e lo stesso equilibrio sociale e abitativo non sembra poi così allarmante.
Infine la pianificazione famigliare.
Warner Boote per comprendere fino a quale punto la popolazione condivida l'idea che sia qualcun altro a controllare, per meri interessi economici o per il “benessere del mondo”, il numero dei membri di una famiglia. Si fa il caso della Cina. Con la politica del figlio unico il governo garantisce che le ricchezze siano maggiori all'interno di un nucleo familiare e che questo possiederà più potere in termini di possibilità di consumo: ma tra cinquanta anni, quanti giovani ci saranno ad aiutare i più anziani? È una società condannata a diventare più vecchia della sua storia. Oppure si passa in Africa: si parla di controllo delle nascite e di sovrappopolamento, ma le immagini di distese chilometriche di terre disabitate fa pensare a tutt'altro. Se c'è un'alta concentrazione demografica in pochi luoghi, è perché in quelli restanti gli abitanti non hanno diritto di accesso alla terra.

Nero d'Italia

Titolo: Nero d'Italia
Regia: Valeria Castellano
Anno: 2013
Paese: Italia
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 3/5

Vincenzo Capogrosso abita a Viggiano. Nella sua terra ci sono 170 alberi d'ulivo. In passato produceva l'olio, ma adesso quell'olio non lo vuole più nessuno: a cinquecento metri da casa sua, l'Eni raffina il petrolio.
In Basilicata si produce l'80% dell'oro nero italiano. È la regione che paga il prezzo più alto di un sistema che fa dell'Italia un paradiso fiscale per le trivelle. Le tasse sono tra le più basse al mondo e, grazie a un sistema di esenzioni, molti riescono pure a non pagarle. Qui capita che gli animali muoiano senza un'apparente ragione; che dopo anni si scopra che qualcuno ha nascosto rifiuti industriali tossici nelle terre coltivate; che i dati sull'inquinamento siano tenuti nascosti.
Nero d'Italia è un viaggio nelle valli del petrolio. Non è solo un'inchiesta giornalistica. È una fotografia. Il tentativo di far rivivere, attraverso parole, immagini e musica, le storie di chi vive all'ombra delle trivelle.
Coraggiosa e autrice a tutti gli effetti la Castellano.
Nero d'Italia si apre con uno scenario e una critica che ho molto apprezzato riferita ad un attore e regista famoso e che mostra sempre la Basilicata come un territorio Coast to Coast dove non sembra succedere nulla di così rilevante a livello di disastri ambientali.
La Castellano punta il dito e mostra sin da subito in '58 tutto lo schifo e le ignominie di cui non si parla ma che diventano sempre più monito e campanello d'allarme di una tragedia.
E in questo il cinema davvero indipendente dimostra tutta la sua necessità poichè rifugge dai clichè e dalla campagna pubblicitaria illusoria veicolando tutto verso il bisogno di sapere e conoscere i dati esatti e tutti i rischi che alcuni impianti comportano a impatto ambientale.
Il cuore del problema è il come si sta estraendo in particolare il petrolio. Le modalità d’estrazione sono portate avanti in maniera del tutto sconsiderata da parte delle imprese italiane ed europee che operano in Basilicata. Il profitto è l’unica cosa che importa agli sceicchi europei, che non condividono il principio umano secondo il quale la salvaguardia del territorio e dei suoi abitanti deve precedere gli interessi economici dell’oro nero e il dato più scandaloso, ma non sorprendente e che sia proprio lo Stato responsabile di tale abominio assieme alla Regione e alle Istituzioni ambientali e sanitarie che stanno ovviamente dalla parte dei petrolieri.
Il giro d’affari è tanto grande che i petrolieri sono praticamente intoccabili. Mentre la gente della bella Basilicata si ammala e muore ed i parchi naturali diventano discariche di greggio, le aziende petrolifere fanno i propri comodi.
Quella del petrolio lucano è l'ennesima storia degli abomini presenti sul nostro territorio.


Nella terra dei fuochi

Titolo: Nella terra dei fuochi
Regia: Marco La Gala
Anno: 2013
Paese: Italia
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 3/5

La storia di ciò che è ancora possibile fare nelle terre campane martoriate da una gestione sbagliata e illegale dei rifiuti. Nel documentario il racconto delle iniziative della cooperativa sociale Ottavia che lotta per restituire ai propri campi prodotti di qualità

Il contributo del documentario di La Gala è riassumibile in un suo intervento al Cinemambiente in cui spiegava la politica attuale legata allo smaltimento dei rifiuti e alla cooperativa Ottavia di Marigliano in quelle zone che cerca con la legalità e la cultura popolare di ridurre l'inquinamento e quant'altro.
La Terra dei fuochi è quel territorio, compreso tra la provincia di Napoli e la provincia di Caserta, interessato da continui roghi tossici appiccati alle discariche abusive che proliferano in tutto il territorio: i rifiuti, urbani e speciali, bruciati nell'area del casertano e nella zona settentrionale della provincia di Napoli sono la principale fonte di inquinamento della zona, tra le aree più compromesse d'Italia sotto il profilo ambientale.
A partire dagli anni in cui era scoppiata ufficialmente la questione rifiuti a Napoli e in Campania, il 2008,ad essere però descritta non è solo la storia di quelle terre campane martoriate da una gestione sbagliata e illegale dei rifiuti, ma ciò che proprio in quelle terre è ancora possibile fare e non si fa o si fa poco e senza gli aiuti che servirebbero.
Il regista non si interroga sul perché quella terra è stata inquinata, dal momento che come dicevo è un fatto risaputo dal 2008 ma anche molto prima. Quindi non essendo nelle intenzioni del film cerca di cogliere più che altro immagini di campi riqualificati, di donne e uomini che esorcizzano la drammaticità della situazione danzando a ritmo di tammuriata. Per tutta la durata della proiezione si susseguono solo le azioni e i dialoghi dei ragazzi della cooperativa sociale Ottavia di Marigliano, che riscoprono e recuperano i saperi e le tradizioni di un popolo.
Di una regione che, al di là della questione rifiuti, deve ritornare ad essere nota soprattutto per la qualità dei prodotti della sua terra.


Microtopia

Titolo: Microtopia
Regia: Jesper Wachtmeister
Anno: 2013
Paese: Svezia
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 3/5

Microtopia è un documentario che tratta di micro abitazioni, downsizing e vivere fuori dagli schemi

Per molti di noi, e da secoli a questa parte, il concetto di casa è legato all’idea di stabilità, sicurezza e permanenza. Ma in un’epoca sempre più caratterizzata dalla sovrappopolazione e dal rapido avanzamento tecnologico, si fa sempre più pressante la domanda di abitazione portatile o comunque di nuovi modelli abitativi. Scopriamo così come architetti, artisti o semplici cittadini stiano cercando di esaudire, a volte in modo assolutamente sorprendente, questo desiderio di flessibilità radicale, grazie anche agli esempi concreti di chi ha scelto una moderna alternativa nomade o chi si è trovato costretto, magari suo malgrado, a escogitare diversi modi di abitare.

Strutturato in diversi paesi, Microtopia sonda le nuove tecniche di alcuni architetti e designer che cercano, studiano e approfondiscono il desiderio e il bisogno di trovare nuovi soluzioni abitative.
Dal Messico si parte con un'idea davvero interessante come quella di legare buste di plastica contenente immondizia e legata sotto un pallet in acqua e muovendosi senza regole tra i mari, oppure costruirsi una sacca di ferro portatile e che si lega facilmente ad un albero rimanendo così sospesi per aria (ottima l'idea se non fosse che la struttura pesa 100kg) e continuando così sperimentando idee a volte un pò troppo fuori portata ma assolutamente interessanti come quella della casa camper con cui andarsene in giro per il mondo.
Microtopia infine esplora come gli architetti, artisti e ordinarie problem-solver, stanno spingendo i limiti per trovare risposte ai loro sogni di portabilità, flessibilità - e della creazione di indipendenza dalla "rete".

Just Eat It

Titolo: Just eat it
Regia: Jen Rustemeyer
Anno: 2013
Paese: Canada
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 4/5

In America viene sprecato il 40% del cibo lungo la filiera. Per esprimere bene l'idea, gli autori del documentario sono sopravvissuti per sei mesi solo con gli scarti del sistema

Davvero interessante e coraggioso l'esperimento portato a termine dalla coppia di registi, ideatori e produttori del documentario.
La strana coppia decide di narrare lo spreco vivendolo per dare un segnale efficace e mostrare come sia possibile la sopravvivenza tra gli scarti.
Gli autori sin da principio spiegano bene le regole dell'esperimento che prevede di pagare per il cibo che raccolgono, perché lo scopo non è "scroccare", ma dimostrare come sia assai difficile comprare ciò che viene ormai considerato fuori dal sistema economico e a proposito non mancano le risposte prive di senso di alcuno magazzinieri o direttori di supermercati.
In sei mesi dicono di aver speso solo 200 dollari per una quantità di cibo del valore indicativo di 20000 risparmiando così un'ingente somma e destinando parte del cibo raccolto e accumulato, ad amici o conoscenti che possono fare la spesa gratuitamente a casa loro senza credere che siano solo "scarti".
Lo spreco non avviene solo a livello della selezione e distribuzione dei prodotti, ma anche nelle case, dove si concentra circa la metà delle perdite. Vengono così segnalati due consigli per ridurre lo spreco domestico?
(A) Creare nel frigo una zona con la scritta "mangiami prima", dove mettere gli alimenti più vecchi o parzialmente consumati;
(B) Divertirsi con la cucina creativa provando a immaginare ricette con ciò che si trova nel frigo o nel freezer prima di acquistare altro.
Inoltre non mancano dei dati davvero sconvolgenti e di cui si fa fatica ad accettare lo spietato ragionamento di marketing che avviene come ad esempio su un quantitativo enorme di tavolette di cioccolato, le quali hanno magari un difetto di fabbricazione sull'etichetta per cui manca la traduzione in francese o dati analoghi come questi.
Un'altro fattore che non viene preso in considerazione è l'esposizione a qualsiasi cibo che si trova, così ad esempio si rischia di doversi nutrire per una settimana solo di bacon.
Si finisce con la cultura del consumatore, abituato a scegliere prodotti esteticamente perfetti e a considerare lo spreco alimentare come qualcosa di lecito e senza conseguenze come nella drammatica scena in cui una percentuale davvero vergognosa di frutta e verdura viene scartata e quindi buttata perchè come nella favola del brutto anatroccolo non è omologato e conforme agli standard puramente estetici.


Ghost in our Machine

Titolo: Ghost in our Machine
Regia: Liz Marshall
Anno: 2013
Paese: Canada
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 2/5

Jo-Anne McArthur è una fotografa statunitense specializzata in reportage sulla vita nascosta degli animali nelle nostre società sviluppate, meccanizzate, informatizzate. In anni di lavoro ha creato l’archivio We animals: migliaia di immagini sul rapporto tra uomini e animali, che lei racconta come un conflitto perenne e dall’esito scontato, in cui l’uomo dispone dell’animale come di una proprietà invece che come di un essere con diritti propri.

In una delle prime scene Jo-Anne entra assieme ad un altro attivista in uno di questi accampamenti nascosti nel bosco dove vengono tenuti in schiavitù diverse specie animali per pelliccie e quant'altro. Jo-Anne può solo fotografare senza cercare o provare a liberare gli animali perchè non servirebbe a nulla. Partendo da questa riflessione e muovendo lo zoom per tutto l'arco del documentario, il lavoro della coppia di registe canadesi stupisce, mostrando le modalità inumane con cui vengono gestiti gli allevamenti intensivi.
I "fantasmi" , come il nome del titolo, sono gli animali intrappolati all'interno gli ingranaggi del nostro mondo vorace e consumistico che alimenta e contribuisce a creare un mercato spietato alimentare e non.
Il progetto fotografico di McArthur "Noi Animali" è composto da migliaia di fotografie scattate in tutto il mondo, documentando gli animali con straziante vivacità empatica e cercando in questo modo di cercare di toccare la sensibilità di coloro che necessitano di questi abusi su altre specie per i loro scopi economici.

I limiti più grossi restano due: sarà vero che anche a costo di vedere sempre più specie in estinzione, questo possa portare una più ampia attenzione su questo tipo di argomento? Le foto possono davvero servire come denuncia per temi che vanno a intaccare interessi economici? E forse il limite più grosso è quello che seppur è vero che il documentario è confezionato in modo prelibato e tecnicamente quasi perfetto, non è forse vero che il documentario più solleva argomentazioni, temi e dibattiti, più rimangono tutti questi elementi intrappolato in una rete senza un vero approfondimento.

Energized

Titolo: Energized
Regia: Hubert Canaval
Anno: 2014
Paese: Austria
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 4/5

Pur essendo eccessivamente didascalico, il documentario del regista austriaco già all'attivo con altri lavori interessanti, si interroga sullo stato della produzione di energia sul nostro pianeta, ma soprattutto sul suo incerto futuro e le tecniche di estrazione petrolifera in punti pericolosi che alterano gli equilibri geo-terrestri.
Un documentario breve ma coinciso che sfata il mito delle rinnovabili e ci porta a scoprire nuove possibilità per l'autosufficienza energetica, come si evince dallo schema corale con cui è impostato il documentario e i suoi protagonisti sparsi in diverse aree del mondo.
Tutto sembra riassunto in una breve log-line che con l'ironia drammatica è emblematico nella sua emergenza“Per quanto ancora volete continuare a trivellare la terra volgendo le spalle al sole?”
Il nostro bisogno di energia aumenta costantemente, e le vie alternative a petrolio, nucleare e centrali elettriche non sembrano interessare le grosse multinazionali, potenti e sempre più in grado di cambiare accordi e fare causa direttamente ai paesi che non permettono loro un facile arricchimento.
Dal capitolo dedicato all'inquinamento delle falde acquifere in Canada, al piano dell'Europa che sta pensando di spendere fior fior di quattrini per costruire un gigantesco network di centrali elettriche, piuttosto che investire sul fotovoltaico fino ai disastri nucleari che l'uomo non ha ancora imparato ad evitare, a prescindere da quel che sostengono le grandi industrie che vanno a braccetto con i politici.
Possiamo far fronte, dunque, al nostro fabbisogno energetico senza minare la sopravvivenza stessa del Pianeta e la nostra? La risposta che ci arriva violenta, come uno schiaffo morale in pieno volto, è sì. Punto.
Sono solo scelte politiche.
Scelte che non verranno prese e investimenti che non verranno fatti fino a quando si sceglierà di tutelare maggiormente l'interesse economico delle grandi industrie mondiali.
Ma i risultati Canaval mostra che ci sono basta solo crederci come dall’ospedale austriaco che diventa autosufficiente utilizzando energia solare, all’ingegnere africano che torna in patria per portare nel suo paese un nuovo modo di distribuire l’energia elettrica, fino a quei “ribelli” in tutto il mondo che con le loro proteste cercano di sensibilizzare i loro vicini sui vantaggi dell’energia alternativa o di fare chiarezza sull’attività dei grandi produttori.

L'unica critica già avanzata da qualcuno oltre il punto che sia troppo didascalico e quindi troppi numeri e cifre da tenere a mente in troppo poco tempo, la pellicola però proprio in conseguenza del punto precedente, manca di una base di dati statistici oggettivi che aiuterebbe lo spettatore a capire meglio l’entità dei problemi di cui si fa portavoce, perdendo così in efficacia documentale ed esponendosi più facilmente a critiche da coloro che non hanno ancora preso una posizione definita riguardo le energie rinnovabili.


domenica 22 giugno 2014

Divide in Concord

Titolo: Divide in Concord
Regia: Kris Kaczor
Anno: 2014
Paese: Usa
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 3/5

Poniamo caso che un'ultraottantenne decida alla sua veneranda età e con tutte le difficoltà fisiche di farsi testimone di una campagna contro l'uso della plastica per le bottigliette d'acqua nello stato del Massachussets. Partendo dalle analisi del nipote, sempre più preoccupato per le conseguenze ambientali delle gravi conseguenze causate dalla plastica e il suo smaltimento, Jean Hill, parte alla carica senza perdere speranza e voglia di cambiare le coscienze degli abitanti della sua comunità.

Scommessa difficile e agguerrita, soprattutto quando spesso e volentieri, è il principio la causa per cui i cittadini non approvino la scelta della Hill.
A cavallo della Rivoluzione americana del 1775, Kaczor muove lo spirito ribelle di una città e della sua leader e la lenta campagna e battaglia per ottenere una vittoria di tutti.








lunedì 16 giugno 2014

My name is Salt

Titolo: My name is Salt
Regia: Farida Pacha
Anno: 2013
Paese: India
Festival: Cinemambiente
Giudizio: 4/5

Per otto infiniti mesi all'anno, Sanabhai e la sua famiglia lavorano nel deserto di Little Raan nell'estrazione del sale dalle aride terre. Facendo parte degli addetti a una lavorazione tradizionale del sale che si tramanda di generazione in generazione, Sanabhai svolge un lavoro impegnativo, ricercando i delicati cristalli di sale per una raccolta che diventa sempre più faticosa.

"Il prossimo anno vogliamo essere pagati di più" è con questa frase che si chiude il documentario dell'ultimo festival del Cinemambiente di Torino, quest'anno sempre rigoroso nella scelta dei documentari che trattano temi ambientali.
Vincitore della menzione speciale Iren, questo documentario puro e girato meravigliosamente, ci porta in un tempo e in uno spazio altro (chi non è mai stato in India e nel deserto farebbe difficoltà a comprendere i silenzi e i tempi morti perfettamente espressi dagli sguardi dei famigliari) e in più permettendogli di immedesimarsi, soffrire ed essere fiero insieme ai personaggi, imparando da loro come estrarre il sale più bianco della Terra e la cura maniacale con cui questa operazione và condotta.
My name is salt infine ci porta nel deserto salino della regione indiana di Gujarat, che insegna come portare avanti, con orgoglio e tenacia, il proprio lavoro in condizioni climatiche proibitive e senza l'aiuto di tecnologie di sorta.